Dopo i litigi sull’Iraq, il Medioriente è diventato il vero
terreno di confronto tra la Nato e l’Unione europea. Per la Nato si tratta di manifestare concretamente la
ritrovata unità, mentre per l’Unione europea è
l’occasione per avere un ruolo finora confinato in zone marginali. Il rispetto dell’accordo di pace sancito a
Sharm el Sheik potrebbe essere assicurato da una forza internazionale formata da soldati dell’Onu, della Nato o dell’Ue. Ma, prima di tutto, dovrà arrivare
una pace certa, garantita. La democratizzazione della regione mediorientale rappresenta pertanto
la nuova sfida della nostra comunità internazionale per superare la crisi di modernizzazione nel mondo arabo-islamico. Fondamentale, a questo punto, diviene incoraggiare e sostenere gli sforzi di quei Paesi che in passato hanno espresso una
implicita critica ai metodi americani. Una nuova partnership strategica, che completi l’alleanza militare, è condizione prioritaria per il rilancio del rapporto tra Usa e Unione europea, al fine di raggiungere l’obiettivo di una più profonda presa di coscienza americana della
nuova realtà politica della Ue. L’Unione, a questo punto deve decidersi ad
avere una propria politica estera e di difesa unitaria.
Bush farà del suo meglio per migliorare il clima e trovare aree di immediata collaborazione. E, infatti, molto saggiamente il presidente americano si è già affrettato ad elogiare il contributo europeo in Iraq. Ma, la riuscita del processo di pace in Palestina è questione che necessita di un risolvimento quanto mai urgente. A partire dal 2000, la politica del governo e dell'esercito israeliano ha sistematicamente distrutto agricoltura, mezzi di sussistenza, infrastrutture, sistema sanitario ed educativo della Palestina, appropriandosi di terra e acqua, paralizzando le amministrazioni locali. I diritti civili e politici, i diritti nazionali, il diritto ad esistere come popolo e ad avere uno Stato indipendente, sono stati
regolarmente violati dall’occupazione militare, dal moltiplicarsi degli insediamenti coloniali, dalla frammentazione dei territori, dalla costruzione di strade riservate agli israeliani,
dalla edificazione di un muro che entra nei territori palestinesi e ne annette ulteriori porzioni, prefigurando non uno Stato, bensì dei 'cantoni' in cui permane, spesso, la misera condizione di circa 1 milione di rifugiati verso i quali Israele ha sempre rifiutato di assumere qualsiasi responsabilità. Questa politica di permanente illegalità, rilevata dal parere della Corte Internazionale dell'Aja il 9 luglio 2004 e successivamente confermata, con voto unanime - anche dei Paesi europei - dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si basa
sulla forza di un arsenale militare tra i più potenti del mondo e su una politica di
terrore di Stato che si serve anche delle esecuzioni extragiudiziali di leader politici provocando, nello stesso tempo,
la morte di migliaia di civili. Questa politica è ben lungi dal garantire la sicurezza di Israele: e di ciò
Ariel Sharon è stato costretto a prenderne atto.
I continui attacchi terroristici di gruppi palestinesi vanno certamente
esecrati, perché mietono vittime civili nella popolazione israeliana,
danneggiano la stessa causa palestinese, favoriscono un aumento illimitato di violenza, paralizzano quella parte di società israeliana che potrebbe sostenere il processo di pacificazione e allontanano, infine, l’attenzione e la solidarietà dell'opinione pubblica mondiale. Il rispetto e la difesa del diritto internazionale e dei diritti come unica alternativa alla sopraffazione e alla guerra, base della convivenza civile tra le persone e i popoli, non è quindi solo
un atto dovuto ai palestinesi, ma anche l'unica vera garanzia di sicurezza e di pace per Israele e il Medioriente. E, affinché questo rispetto si realizzi, non bastano le parole, ma responsabili iniziative politiche dell'Unione europea a sostegno della
road map.
Direttore Politico della rubrica on line di approfondimento 'Lettera 22' -www.maurocherubino.it