Che nel Paese esista
una coscienza laica, pronta ad esprimersi anche in termini elettorali, è un fatto
indubitabile. Lo hanno confermato le ultime elezioni per il Parlamento europeo, con i partiti che al mondo laico si richiamano attestati complessivamente
intorno al 5%. Risultati
non dissimili da quelli ottenuti
dall’UDC o dalla Lega. E sufficienti per
non essere ricompresi tra i ‘piccoli partiti’ ai quali ha fatto riferimento, con una inutile caduta di stile, il presidente del Consiglio; e per rappresentare invece una reale forza politica. Ma c’è di più.
Angelo Panebianco ha ricordato, sul
‘Corriere della Sera’, come esista un’Italia, radicata soprattutto nel Nord del Paese, tuttora
in attesa delle liberalizzazioni che il premier aveva promesso nel 2001; delle
riduzioni del carico fiscale; dell’alleggerimento del peso e del ruolo delle
burocrazie statali; del rilancio dello
sviluppo. Tutte domande — osserva Panebianco — “poco compatibili con l’offerta politica del centrosinistra”, per cui una parte significativa del nostro Paese rischia di rimanere ancora una volta senza rappresentanza. E’ un’Italia che in passato
si è riconosciuta molto spesso proprio nei partiti laici, nei liberali, nei repubblicani, nei radicali, nei socialisti degli anni di Craxi; e che, di conseguenza, sono proprio i partiti laici, dopo
le delusioni di Forza Italia, a poter
intercettare e rappresentare.
Ma il problema dei laici è la loro
frammentazione. Restano, finché saranno divisi,
‘partiti piccoli’. E in pochi, tra i delusi di Forza Italia, guarderanno a loro fino a quando non si trasformeranno in
una reale ‘forza’ politica, in grado di ottenere consensi intorno ad un programma comune e condizionare di conseguenza i due schieramenti nati dalla polarizzazione del Paese. Esiste questa possibilità? Esiste, se le rispettive classi dirigenti sapranno superare
egoismi e antiche quanto inattuali contrapposizioni per realizzare quel salto di qualità che pure è possibile.
Per cominciare, una
federazione tra i partiti che si sono presentati alle elezioni europee è a portata di mano. Sarebbe un primo passo. Ma questa federazione, come ogni altra forma di intesa, avrebbe poco senso se non nascesse sulla base di una
reale convergenza programmatica. Accordi di vertice - come quello contratto alla vigilia delle elezioni europee tra il PRI e i liberal di Sgarbi - hanno
il respiro corto, e lo si è visto alla prova dei fatti. La federazione deve nascere allora da una grande conferenza programmatica. Ci sono
temi sui quali la convergenza è
scontata, a cominciare da quella
politica estera che costituisce, come diceva Ugo La Malfa, il contenitore delle politiche interne e che rappresenterà, nei prossimi anni, e nel nostro Paese in particolare, un discrimine imprescindibile per tutti i partiti. Qui le posizioni
dei repubblicani, di De Michelis, di Emma Bonino, si saldano intorno alle scelte occidentali, a una comune visione del1'Europa, alle questioni della guerra e della pace, della lotta alle dittature e al fondamentalismo islamico. Ma
anche su molte altre questioni - i diritti civili, la riforma della giustizia, la libertà della ricerca, l'importanza dell'innovazione nel mondo contemporaneo - le posizioni non sono dissimili. E nella politica economica non sarà difficile coniugare l’esigenza di maggior
liberismo fatta valere dai radicali, ed alla quale mi sento personalmente vicino, con quella di
un intervento pubblico mirato ed efficiente che pure è necessario per superare i dualismi del Paese, a cominciare da quello tra Nord e Sud. Prima una conferenza programmatica, dunque, poi una federazione tra i partiti. Terzo passo,
un manifesto comune e un
appello al Paese. Delle altre questioni - con chi schierarsi, come schierarsi - si parlerà dopo. Quando i tempi saranno maturi e le scadenze elettorali lo renderanno necessario. Partendo, per ogni
scelta di schieramento, dalle verifiche sui programmi. Un percorso che
solo una ‘forza politica’, non ‘piccoli partiti’ che procedono in ordine sparso, potrà consentirsi.