Sembrava una fiction quella trasmessa in diretta TV nella mattinata
dell’11 settembre 2001.
Le Twin Towers, il Pentagono
e, per l’eroismo di pochi, è stata risparmiata la Casa Bianca – simboli della civiltà occidentale – venivano colpiti
con sistemi d’arma inimmaginabili: tre aerei di linea, autentiche bombe umane.
Tutto il mondo assisteva muto,
esterrefatto ed impotente, ad un atto di terrorismo eccezionale per dimensione, organizzazione e numero di morti. Il fenomeno terroristico non era di per sé nuovo, ma il modo con cui è stato portato nel cuore della più potente nazione del mondo,
ha sconvolto la comunità internazionale ed ha ingenerato profondi e radicali cambiamenti nella quotidianità della vita, sia nella
percezione della minaccia che nella
attuazione delle misure di sicurezza.
L’intervento più immediato – anche sull’onda di una certa emotività - per scongiurare il ripetersi di altri eventi di tale efferata violenza, è sembrato quello di
coniugare una decisa ed efficace risposta militare, supportata da una capillare ed estesa attività d’intelligence, con una risposta politica altrettanto decisa, diuturna, equilibrata e variegata, nei toni e nelle scelte.
Strumenti militari e diplomazia (quella cinese, russa e americana insieme!), quindi, per debellare l’immanente pericolo in ogni società prospera e pacifica e per ridarle
quella sicurezza necessaria per continuare a programmare ed organizzare lo sviluppo.
Il connubio eserciti e politica, sollecitato ed auspicato da più parti, sembrava
teoricamente vincente. Ed in pratica, forse, lo è stato
in Afghanistan, perché con l’eliminazione del regime dei
Talebani, si è inferto, senza dubbio, un duro colpo al terrorismo internazionale, che ha costituito, per taluni aspetti,
un monito per altri regimi che volessero operare allo stesso modo.
Ma è ancora da dimostrare che
tale “algoritmo” sia valido per fronteggiare adeguatamente
l’enorme ondata di odio, di esasperazione, di paure, di bisogni impellenti e primari di intere popolazioni, di intolleranze e – perché no – per opporsi al modo unilaterale, comunque non giustificato, di intendere
la conquista del diritto alla autodeterminazione ed alla indipendenza del territorio dall’occupazione straniera.
Gli Stati membri dell’Organizzazione della
Conferenza islamica chiesero, a suo tempo (15 - 26 ottobre 2001), che proprio questi due ultimi motivi venissero esclusi dall’applicabilità della
Convenzione globale contro il terrorismo internazionale. Tre poli del terrore attualmente ne fanno fede:
Cecenia, Iraq, Medio Oriente. Paesi questi ove, più che in altri,
il termine terrorismo viene inteso come “conflittualità esplosiva”, resistenza e lotta alla presenza straniera sul territorio; d’altronde in queste aree la collaterale attività di
guerriglia urbana contro i simboli del potere occupante e contro coloro che con esso collaborano, tende ad
attenuare ed, in un certo qual modo, a
giustificare il ricorso al più proditorio sistema di lotta, quale è l’arma del terrore, soprattutto sulla popolazione civile inerme. Sono queste aree che, ora più che mai,
propagano il terrorismo nelle forme a loro più congeniali:
impiego di uomini-bomba (anche di donne), martiri di Allah e automezzi imbottiti di tritolo (auto-bombe).
Sono, questi, sistemi d’arma impropri, con effetti sconvolgenti per l’intera umanità. Gli scenari sono molto simili e
intercambiabili tra loro. I terroristi
ceceni hanno alternato l’impiego di
uomini-bomba con
ordigni telecomandati di enorme potenza negli attentati a Mosca e in Cecenia, ingenerando
un contesto cronico di conflittualità. In Iraq non passa giorno senza che si verifichino attentati non solo contro le truppe “occupanti”, ma anche e soprattutto
contro coloro che operano per un ritorno del Paese alla normalità, siano essi operatori di pace (ONU, CRI, Contingente italiano ed altri), o uomini iracheni che intendono arruolarsi nell’Esercito regolare al fine di dare un contributo alla ricostruzione delle Istituzioni. Tutto questo
anche dopo la cattura di Saddam Hussein.
In Medio Oriente il terrorismo è
endemico, tant’è che non bastano più concessioni e volontà di affrontare realisticamente
il problema palestinese, per attenuarne gli effetti, ma anzi, quando si prospetta la possibilità di trattare,
si acuisce il fenomeno terroristico.
Ormai
gli uomi-bomba e le auto-bomba colpiscono con frequenza ed efferata violenza
dall’Afghanistan all’Arabia Saudita, dalla Turchia all’Indonesia; e non vengono risparmiati, con l’odiato Occidente, i Paesi islamici moderati.
Tutti gli apparati investigativi e le strutture di intelligence hanno finora dimostrato
scarsa capacità operativa, come pure non sempre si sono mostrati all’altezza del compito tutti i dispositivi di sicurezza,
attivati h 24 nei luoghi di maggiore concentrazione umana quali:
metropolitane, ferrovie, aeroporti ed altre infrastrutture. Né ha senso appellarsi ai valori della vita, ben sapendo che per ogni civiltà – Islam compreso – sono
sacri.
E’ doveroso evidenziare, in termini realistici,
le enormi difficoltà che, soprattutto i pochi e preparati “addetti ai lavori” – più che la miriade di dilettanti ed orecchianti –, incontrano nella
individuazione e approfondimento del problema minaccia (terrorismo) e di conseguenza nel proporre l’antidoto (sicurezza). In sintesi – almeno teoricamente – ci si trova di fronte ad una minaccia che è:
1) globale, nel senso che può interessare ogni settore della vita pubblica perchè portata da elementi tra i più diversi ed impensati;
2) diffusa, cioè può manifestarsi in più parti contemporaneamente e colpire obiettivi più disparati. Le società più moderne, industrializzate e sviluppate, in quanto aperte, sono le più vulnerabili ( USA docet!);
3) varia nella forma e semplice nell’organizzazione, in grado di avvalersi dei mezzi più disparati e spesso di una buona dose di fantasia;
4) caratterizzata da un enorme rapporto costo/efficacia a vantaggio di quest’ultima; con mezzi limitati è possibile ottenere effetti devastanti, sia dal punto di vista materiale che psicologico;
5) supportata spesso da profondi motivi etici, razziali, religiosi, culturali, economici che ingenerano negli adepti una carica di violenza che va ben oltre il rispetto della vita e l’istinto di conservazione.
Tale difficile e variegato quadro, nel suo complesso, non può non determinare nelle comunità un senso di
paura nel percepirlo, ma ancor più di
ineluttabilità nel subirlo e di impotenza nel fronteggiarlo. Sensazioni, queste, che costituiscono
lo scopo primario delle centrali del terrore.
Tralasciando la serie di attività di esclusiva pertinenza politico - governativa, quali predisposizioni di norme ed attività in costante collaborazione internazionale, ritengo utili talune
semplici riflessioni.
L’esigenza prioritaria per i responsabili della sicurezza deve essere quella di operare una corretta, selettiva e reale
informazione che delinei, nelle forme e nei risvolti, il vero rischio che si corre,
bandendo nel contempo, in maniera categorica, il ricorso ad esagerazioni, storture, strumentalizzazioni, generalizzazioni ed ipotesi azzardate.
E’ molto importante, con tutti i mezzi a disposizione, inculcare in ognuno
il senso della sicurezza che può essere esaltato dall’acquisizione di una
cultura e di una coscienza informativa. Ogni individuo, nella quotidianità e nel suo ambito di vita, può trovarsi di fronte a fatti, avvenimenti, situazioni abnormi: queste devono essere oggetto di
attenzione e riflessione e, se il caso lo richiede, di tempestiva segnalazione. Ogni persona, in sintesi, deve sentirsi
partecipe e, quindi,
parte attiva di un complesso sistema di sicurezza che ha come compito quello di prevenire e neutralizzare l’evento terroristico.
Un ruolo importantissimo può e deve essere svolto
dai mass-media nel saper discernere e presentare le situazioni a rischio,
evidenziandone la vera matrice terroristica, ben diversa da altri atti di violenza, ma di origine distinta (criminalità organizzata) anche se capaci, comunque, di ingenerare inquietudine e terrore.
Basilare nell’azione di prevenzione risulta quindi essere
la profonda conoscenza dell’evolversi della struttura sociale nazionale nella sua trasformazione in configurazione multi-etnica, soprattutto in considerazione della
grande vulnerabilità della “società aperta” nei confronti del terrorismo.
In estrema sintesi, l’atto terroristico, nelle sue molteplici forme, va combattuto essenzialmente con la prevenzione, anche perché, una volta subito,
non resta altro che “piangere”.
ISTRID – Presidente del Comitato Militare