Michela Zanarella"Il potere delle parole può essere anche troppo grande". Ed è proprio la forza delle parole a dominare il romanzo di Erling Jepsen 'L'arte di piangere in coro', edito da Voland e ambientato nella piccola cittadina danese di Vojens all'epoca della diffusione della televisione, intorno agli anni '50. Un bambino undicenne, figlio di un lattaio, passa gran parte del suo tempo a osservare ciò che accade intorno a lui. Lo fa come un attento scrutatore del mondo, della realtà, con uno stupore e un'ammirazione smisurati verso il padre, che ai suoi occhi rappresenta quasi un eroe di cui essere orgoglioso. Il talento del padre sta nel saper recitare coinvolgenti orazioni funebri. Il bambino è il protagonista attorno al quale gravita l'intera narrazione del romanzo. Si racconta in prima persona. E l'autore sceglie non a caso un bambino come tramite per far emergere, con delicata ironia, con l'ingenuità che appartiene ai bambini, tutta la pochezza umana, i limiti di una società crudele ed egoista: "A volte può essere difficile ottenere una risposta chiara dai grandi, è come se ci fosse una certa dose d'incertezza associata a quello che dicono, ma credo che ne soffrano anche loro". Nel libro emergono le verità di una famiglia piccolo-borghese che vive le difficoltà dell'essere genitori, in un tempo in cui le apparenze sembrano assumere un valore supremo su ogni cosa. Il bambino inizia a desiderare un numero sempre più crescente di defunti per poter ascoltare il padre, verso il quale nutre un amore smisuraro, nelle sue commoventi orazioni. Attraverso le riflessioni di un undicenne, con la schiettezza del bambino, Jepsen mira a un'ironia spietata, che fa in un primo momento sorridere per poi farci rabbrividire, prendendo consapevolezza della realtà, che diventa specchio di un dramma sociale: "Se mi scorre una lacrima sulla guancia non la asciugo; così capita che i grandi facciano dei profondi sospiri, soprattutto ai funerali". Non si può non rimanere affascinati dalla scrittura di Jepsen, che ci insegna "l'arte di piangere in coro" come soluzione ultima a una normalità,  portandoci a vivere attraverso il racconto del protagonista le infelicità velate di una famiglia, formata da un padre depresso e inetto, una madre che canta in tedesco e sembra non dar peso a ciò che avviene, una sorella adolescente che, a malavoglia, è costretta ad andare a dormire sul divano con il padre quando lui è di pessimo umore, un figlio maggiore che vuole fare l'architetto e si è trasferito in città. Storie inconsuete, che sembrano sfiorare la follia, con un umorismo che s'infila mirato e tagliente, sconvolgendo gli equilibri della ragione. Lo sguardo puro e candido del bambino sa, ma non capisce tante situazioni e cerca, come in una sorta di missione, di assolvere le colpe e di giustificare il modo di agire degli adulti. Jepsen, abile drammaturgo, ne "L'arte di piangere in coro", dà prova di saper coinvolgere il lettore con la giusta dose di umorismo, proiettandolo in una realtà di opportunismo e falsità, dove è evidente il contrasto tra la purezza ingannata e una lealtà danneggiata.


Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio