Il presidente Shumann aveva sull’Europa le idee chiare. Già qualche lustro addietro diceva, infatti, che “l’Unione si farà, passo dopo passo, quando sarà cresciuta la solidarietà fra gli Stati europei”. Ed è, innanzitutto, quest’ultima che negli ultimi anni è mancata ed è tendenzialmente tornata a scarseggiare. Tuttavia, seppur circondato da un crescente euroscetticismo, il parlamento europeo uscito dalle urne popolari ha consegnato una maggioranza politica pro-europea abbastanza consistente per scongiurare, al momento, la deflagrazione dell’Ue, anche se all’interno delle diverse tendenze permangono delle vistose diversità che determinano un ‘ragionevole’ pessimismo sul futuro dell’Unione. Siamo dunque arrivati a un punto di svolta dell’Europa in condizioni assai negative. Innanzitutto, la ragione di questo pessimismo deriva da una crisi economica derivata dall’imposizione di misure di austerità da parte dai Paesi più virtuosi. L’austerità ha accelerato la caduta degli investimenti su beni e servizi, ha diminuito drasticamente i posti di lavoro, ha determinato un taglio netto di salari e pensioni. L’impianto teorico e pratico su cui si sono fondate le politiche economiche che hanno ricostruito il continente all’indomani del secondo conflitto bellico sono esplose. E l’Unione Europea fondata esclusivamente sull’adozione di un unico sistema monetario ha mostrato tutti i suoi limiti. La novità scaturita dalle ultime elezioni, ovvero quella di un presidente di Commissione espressione dell’orientamento democratico dei cittadini, rilancia l’esigenza di dotare l’Unione di una più forte unità politica e, certamente, già oggi consegna al neo-presidente Juncker un peso assai rilevante, nonostante la sua nomina sia il risultato di una concertazione fra capi di Governo che hanno ottenuto un vasto consenso popolare. Egli, naturalmente, dovrà continuare a tenere conto del parere degli Stati vincolanti nella formazione della volontà europea, ma la Convenzione da convocarsi in autunno dovrà aver presenti anche le novità democratiche introdotte e accelerare con un senso di marcia più efficace la costruzione di una reale convergenza tra gli Stati uniti europei. Sul piano della convenienza è probabilmente assai più utile, oggi, un processo di integrazione politico-economica fra Stati europei che non quando furono poste le basi di una porospettiva di unità. Innanzitutto, sul piano economico non vi sono prospettive di crescita per i Paesi europei disuniti. Al contrario, le previsioni econometriche segnalano la perdita radicale di posizioni nei confronti delle economie emergenti (la proiezione del Pil francese, per esempio, scivolerebbe, nei prossimi quindici anni, dal 5° al 13° posto nel mondo, quello italiano dall’8° al 150°). Sul piano politico, i progressi verso un’unità più convincente nel segno dell’uguaglianza reale fra gli Stati e più efficace nelle decisioni, solleverebbe gli ostacoli crescenti e le critiche più pertinenti, che sono il risultato delle delusioni dopo le grandi illusioni e speranze che aveva suscitato l’Europa all’inizio del proprio cammino. L’Europa, col tempo, è apparsa non un progetto politico, ma un insieme di comitati, burocrazie e regolamenti (il solo Trattato di Maastricht contiene 55 articoli con 278 commi…) che certamente negli anni hanno fatto cose utili per armonizzare i mercati ma sono stati vissuti come espressione di un Ente intollerante delle diversità nazionali, assai lento nelle procedure e, soprattutto, privo di una legittimazione e di un controllo democratico. Il sentimento generalmente negativo cresciuto attorno a queste burocrazie/tecnocrazie europee hanno messo in secondo piano i progressi compiuti nell’integrazione, anche in ambiti diversi da quello economico e monetario. In tal senso, il nuovo modello integrativo di cooperazione rafforzata in campi differenti restituirebbe uno slancio vitale alla Commissione e al disegno europeo nel suo insieme. Se nell’ambito di materie sulle quali gli Stati nazionali con grande difficoltà si privano della propria sovranità politica, la giustizia e anche la politica estera non hanno certamente compiuto dei passi in avanti. Nel caso di quest’ultima, l’assenza di una politica estera comune indebolisce complessivamente l’Unione sugli scenari dove la sua unità determinerebbe, in modo decisivo, le prospettive e le soluzioni delle crisi regionali (il caso del Mediterraneo sul piano della sicurezza e della politica per l’immigrazione è, in questo senso, paradigmatico). Nel caso delle politiche economiche significativi appaiono gli sforzi che provengono dall’assemblea parlamentare di Strasburgo per rafforzare le competenze dell’Unione in materia di capacità fiscale (si veda il Rapporto ‘Gualtieri-Trzaskowski’, in cui auspica il rafforzamento di tali competenze all’interno della cornice istituzionale dell’Unione, con il parlamento europeo terminale necessario delle relative responsabilità). La commissione, dal suo canto, ha fatto propria la proposta di giungere per tappe a un autonomo bilancio della zona Euro, prevedendo un’ampia capacità fiscale (si passerebbe dall’1 al 3% del Pil europeo) che consentirebbe di emettere, nel futuro, titoli europei sganciati dalla bilancia e dai singoli debiti nazionali. Alternativa al rilancio dell’integrazione sono irrealistiche disintegrazioni monetarie o uscite di Stati dall’Unione: la stessa Inghilterra, qualora decidesse l’abbandono dell’impegno comune, determinerebbe al suo interno la secessione scozzese, fervente nazione europeista. E ciò non sarebbe certamente un buon affare. L’accelerazione dei processi integrativi, tuttavia, non lascia inevase le questioni di fondo che, nello stesso campo filo-europeista, separano coloro che ne praticano un’azione rigorista, mercatista e intransigente come la Germania di Angela Merkel e dei suoi alleati politici e statuali e coloro che predicano una politica economica europea più equanime, con un diverso rapporto fra Stati che cooperano in una condizione di sostanziale parità e non di crescente squilibrio. La disparità europea non ha trovato, se non sul piano formale, l’unità delle forze progressiste. E’ evidente che ci troviamo dinnanzi a un pronunciato rigurgito nazionalista da parte dell’Spd di fronte a una crisi di consenso del socialismo francese, che paga al pari di altri l’eccessivo mantenimento del rigorismo economico praticato a Bruxelles e a un ‘caso italiano’ che si contraddistingue per la sua anomalia di fondo (è innegabile che la leadership del progressismo italiano non sia espressione del mondo della sinistra italiana ma si ispira, al netto della formazione di tradizione popolare, alle correnti più vicine al liberismo democratico anglosassone). L’Italia, nella dicotomia tre intransigenti conservatori e radicali riformatori delle regole europee, ha deciso di mantenere una linea di mezzo. La via ‘stretta’ della flessibilità e non della radicale messa in discussione dei Patti di stabilità, concepiti in tutt’altro scenario, non contesta la ‘logica-capestro’ dei Fiscal Compact, che il nostro Paese ha voluto scolpire addirittura nella propria Carta costituzionale senza che, nell’insieme dell’Unione, vi sia stato un medesimo approccio. La flessibilità, finalizzata ad avere più tempo per risanare i propri bilanci assunta come linea-guida del Governo italiano, possiede una logica di tipo interpretativo delle regole fissate in ambito europeo in senso estensivo. E non rappresenta un radicale cambiamento di ‘verso’ dell’Unione europea, per molti tratti caldeggiato propagandisticamente ma, di fatto, accantonato nella strategia politica, ponendo nuovamente l’Italia sotto il rischio dei richiami per infrazione ai patti e non consentendo, nel breve-medio periodo, di determinare le condizioni per una nuova, effettiva, crescita economica. Il riformismo ‘debole’ si scontrerà inevitabilmente con il fatto, ineludibile, dell’insostenibilità del debito italiano, che negli ultimi venti anni ha galoppato senza freni non tenendo conto dei vincoli contratti, mentre la strategia della ‘flessibilità’ rischia di apparire insufficiente nella pratica e debole sul piano complessivo dell’impostazione politica, specie se muove da una posizione e da un campo progressista e di sinistra dello schieramento politico europeo. E’ necessario, quindi, un socialismo europeo in grado di modificare radicalmente le regole, al fine di determinare e vivificare un’Europa politica fondata sul principio di eguaglianza e di equità. Sulla questione interna del Partito non posso che ribadire le mie perplessità crescenti circa il progetto di patto federativo col Pd, riproposto dal Segretario. Il compagno Del Bue lo ha liquidato definendolo “un sarchia pone”, ovverosia qualcosa di cui non se ne conoscono né i tratti, né la consistenza politica. Certo, esso non può essere definito un accordo comparabile alla confederazione sindacale, come pomposamente l'ha definita il compagno Schietroma, non rendendosi conto delle vistose differenze di proporzioni numeriche e politiche fra noi e il Partito democratico. Affinché esso non si trasformi “nell'anticamera della confluenza”, come ebbi modo di definirla, io ribadisco la necessità di riflettere bene su quanto si intenda fare, tenuto conto che sulle questioni in agenda più importanti, le impostazioni di fondo nostre e del Pd vengono vieppiù a separarsi (questione istituzionale, questione giustizia e, aggiungo, anche questione europea, dove il riformismo debole di Renzi porterà l'Italia in una condizione non dissimile da quella in cui ci ha portato Monti, messo ‘spalle al muro’ dalla burocrazia di Bruxelles seppur con meno forza politica). L'unità dei gruppi dirigenti del Partito e la loro solidarietà, messa a dura prova nel periodo post-elettorale, non può che essere subordinata a una politica e a un approccio comune convincente, ma una linea condivisa e chiara al momento non c'é. Ed é inevitabile che emergano delle articolazioni differenti, al fine di rilanciare l'azione del Partito apparsa asfittica e, allo stato, condizionata da un progetto confederativo che non aiuta il dispiegarsi di un'azione autonoma, libera e convincente.
Responsabile della politica estera del Partito socialista italiano