Susanna SchimpernaSarà proprio una mia fissazione. O una mia indecisione: davvero so se devo catalogarmi tra gli schiavi o i servi o i liberi o gli oppressori? Sospendo giudizio e riflessione, perché adesso mi preme di più un discorso generale. Generale, ma concreto. Mi ha colpito molto quanto una volta, ospite in una mia in trasmissione radiofonica, ha detto Daria Galateria sugli intellettuali. Io sostenevo che molti di loro rimangono più spesso delle altre persone in solitudine. E questa solitudine aiuta a sviluppare la propria personalità, la rafforza, la rende unica, ma è un disastro per il carattere. Galateria ha rincarato la dose: “Gli intellettuali sono per loro natura vigliacchi. E la solitudine che li sottrae al confronto e all'agone aumenta la loro vigliaccheria”. Mi chiedo, allora, se questa attitudine abbia a che vedere con la libertà. Sottrarsi, autoescludersi: un atto di superbia e insieme di vigliaccheria. Due parole che non ci piacciono e che, quindi, non riusciamo, per lo meno istintivamente, associare alla libertà. E se però fosse questa della rinuncia alla lotta l'unica libertà possibile, la sola che ci permetta di salvaguardare un nucleo pulito, di non ‘contaminarci’ (e già: opporsi a questo verbo così adorato oggi, così ‘trendy’, mi sembra cosa bella e buona)? Non ho mai fatto prima discorsi così puristi e ‘rinunciataristi’. Sarà l'influenza di Franco Valobra, che sventolava sempre la bandiera della vigliaccheria con un piglio da eroe e la schiena più dritta di un cavaliere in parata. Sarà: non sono sicura nemmeno di questo. Di una cosa però sono sicura: che le cose indispensabili per permetterci di pensare alla libertà - pane, cultura, sicurezza - non le abbiamo. Ogni giorno mi stupisco di come la gente possa vivere, trovare lavoro, avendo trovato lavoro guadagnare abbastanza, avendo guadagnato abbastanza avere curiosità e voglia di studiare e pensare. E' tutto così difficile, disperante, frustrante, mortificante. Ma c'è sempre, per chi voglia andare in luna di miele e non abbia i soldi, per chi sia paralizzato e non abbia la carrozzella, per chi sia malato e non abbia nemmeno un ‘chirurgo-cane’ che lo operi. C'è sempre: che meraviglioso progresso la possibilità di andare a esporre il proprio caso in televisione, permettendo al conduttore di turno o al politico invitato di prendersi a cuore il caso e fare bella figura. Una volta si andava in chiesa, in pellegrinaggio, o si scrivevano suppliche al re. La probabilità di essere almeno ascoltati era ugualmente minima. Ma una differenza c'era, enorme: ci si umiliava di meno. Perché le tue disgrazie, le tue miserie, la tua infelicità le esponevi a Dio e al suo ‘unto’ terrestre, tutto sommato.


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