La scuola italiana non è mai riuscita a contrastare un certo determinismo familiare e sociale. Eppure, questo doveva essere l’obiettivo centrale della nostra istruzione pubblica, proprio per aiutare le giovani generazioni a sfuggire il destino già tracciato dalle loro stesse origini sociali e familiari, al fine di indurli a combattere anche il determinismo politico. Molti giovani, provenienti da ambienti sociali fascistoidi e razzisti, messi a contatto con Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Molière e La Fontaine poco a poco si aprono, si calmano, si rendono conto del valore della diversità, dell’ambivalenza di molte cose, della complessità delle questioni umane. La scuola italiana avrebbe dovuto liberare i giovani dai pregiudizi. E ciò non doveva esser fatto solamente in favore degli alunni provenienti da famiglie reazionarie o di destra, ma anche con quelli di sinistra, ai quali avrebbe fatto un gran bene leggere Anton Cechov o ‘I demoni’ di Dostoevskij. Non stiamo teorizzando una scuola con il precipuo compito di fare contropropaganda, bensì che sappia porre i giovani, sin dagli anni della loro infanzia, di fronte a punti di vista differenti, aiutandoli a formare se stessi con intelligenza critica. E’ questo il danno più profondo che è stato fatto a questo Paese, in particolar modo alle giovani generazioni: non si è saputo insegnare loro praticamente nulla. Il sapere in quanto fattore di crescita e di maturazione democratica è stato loro negato. E questa è l’accusa più grave che si può rivolgere alla Repubblica italiana. Quella Repubblica che era nata dalla Resistenza, che aveva rifiutato ogni forma di determinismo, di assolutismo, di fascismo e di razzismo anche nelle sue forme più banali. Noi viviamo in un Paese che ha gravemente contraddetto se stesso. E non c’è alcun modo, oggi, per riuscire a ribaltare questo genere di realtà. Perché non si tratta affatto di una tendenza da invertire, ma di un dato di fatto di cui dover prendere tristemente atto. L’Italia è stata devastata da forme di comunicazione totalitariste, da razzismi di svariato genere e tipo, anche di natura sessista, da modi di giudicare cose e persone privi di ogni attenzione verso dettagli e sfumature che spesso risultano assai più significativi delle grandi apparenze. Gli stessi social network hanno finito col dare il via libera all’ignoranza più becera, all’insulto più ingiurioso, alla denigrazione calunniosa. Facebook e Twitter sono diventate un’enorme prateria per ‘bufali’ impazziti, che sentenziano e si insultano tra loro, incapaci di stimolare nuove forme di dialogo realmente costruttive. I social network e la rete hanno reso ancor più evidente il disastro. Ed è per questo motivo che dubitiamo fortemente nella rete come futuro veicolo equilibrato di democrazia diretta. Al contrario, sempre più palesemente appare come internet abbia soprattutto dato la ‘stura’ agli imbecilli, ai minorati mentali, i quali hanno preso il sopravvento rispetto alle persone più avvedute. Prendiamo il caso della ragazza di Bollate, quella che ha picchiato violentemente una propria compagna di scuola perché questa le avrebbe ‘rubato’ il fidanzato. A prescindere dalla gravità del fatto in sé, che a nostro parere dev’essere comunque inquadrato in quanto fenomeno di ‘bullismo’, quel che ha fatto specie è stato il diffondersi, in modo morbosamente virale, del video girato dai ragazzini che avevano assistito alla scena, superficialmente divertiti e ‘sghignazzanti’ di fronte a una sconfitta educativa devastante. Quel video ha avuto migliaia di condivisioni su Facebook, nonostante un avviso di ‘fermo’ ufficiale della Polizia postale. E tutto ciò non è accaduto nelle strade di Portici o di Crotone, ma nel profondo nord del Paese. Siamo di fronte a un abisso di proporzioni allucinanti, dettato unicamente dal nostro profondo egoismo, da una superficialità agghiacciante, da un’ignoranza tanto becera quanto gratuita e ingiustificata. Un disastro che ci porta a pensare come, tutto sommato, questo Paese meriti pienamente di ritrovarsi immerso fino al collo nel ‘pantano’.