Nemmeno il fascismo è riuscito a realizzare ciò che, invece, hanno potuto 20 anni di ‘berlusconismo’ e di cultura aziendalista. Una degenerazione dalla quale riusciremo a emergere, se andrà bene, tra altri due decenni: un metodo complesso di trasformazione ‘formale’ della politica, che non ha mai nanche intaccato la sostanza concreta di questioni e problemi. Contro un simile fenomeno non è più possibile opporre le consuete categorie del socialismo ottocentesco: non si può riproporre Gramsci o Pasolini a chi non è nemmeno in grado di valutarne le potenzialità sociali e culturali. Gramsci, per esempio, riteneva fondamentale un’alleanza strategica tra il sottoproletariato operaio e i contadini. Ma tali categorizzazioni, oggi, non esistono. Gli operai non sono più una classe, poiché l’aziendalismo è riuscito ad appiattire su di essi lo stesso ceto medio impiegatizio e quello della piccola imprenditoria, facendo credere a molti che lo sviluppo economico e la stessa modernizzazione italiana abbia generato un unico ‘cuscino sociale medio’ portatore di grandi benefici per tutti. Ciò che negli anni ’80 del secolo scorso sembrava un progresso socio-economico generalizzato, oggi appare per quel che, in realtà, è sempre stato: una compressione forzata della condizione economica di molti a vantaggio di pochi. Il risultato, cercato e voluto, di quanto la cultura aziendalista si era posta come finalità di lungo periodo attraverso le formule della ‘flessibilità’ e della sostanziale precarizzazione del mercato del lavoro. Di ciò, né Berlusconi, né gli esponenti politici a lui vicini ne sono mai stati più di tanto consapevoli. Di tali rischi erano, invece, al corrente i socialisti italiani, i quali cercarono invano di applicare alcune formulazioni keynesiane in grado di riequilibrare i possibili contraccolpi dovuti a improvvise ‘sfasature’ tra ricchi e ceti meno abbienti. Il Psi di Craxi non fece tuttavia in tempo a porre in essere il proprio programma di ‘globalizzazione verso l’alto’ della società italiana, poiché venne travolto dalle inchieste giudiziarie. E ciò che rimase come impressione di fondo dopo le inchieste di Tangentopoli fu l’erronea considerazione di un ricorso a una politica di accrescimento del debito pubblico che non aveva dato i risultati sperati: una sorta di ‘rozzo keynesismo’ abbandonato, a causa degli eventi, a metà. Ciò ha comportato la discesa in campo di Silvio Berlusconi, il quale non ha mai compreso il contesto strutturale che caratterizzava le analisi economiche dei socialisti italiani: Craxi e Formica tagliavano ma sanavano, gestivano e, allo stesso tempo, soccorrevano la domanda di consumo degli italiani. Al contrario, l’avvento della seconda Repubblica ha imposto una rigidità e una costrizione al risparmio che ha annullato ogni aspettativa di massimizzazione dei profitti, scoraggiando ogni forma di investimento nei settori della ricerca e dell’innovazione in grado di svolgere una funzione di sostegno verso nuove metodologie di riorganizzazione industriale. Un errore commesso, bisogna pur dirlo, anche a sinistra: negli anni del primo Governo Prodi (1996 – ’98), l’inflazione subì una netta flessione dovuta, in larga parte, al crollo della domanda di consumo interna. Essa finì col trovare il proprio punto di equilibrio a un livello talmente basso da non riuscire ad attrarre a sé il prezzo delle merci. In pratica, a una sommaria stabilità dei prezzi si decise di contrapporre un vero e proprio blocco dei consumi, che dura tutt’oggi. Riprendere il filo di un discorso riformista ben preciso, che possiede ‘padri nobili’ anche nel mondo cattolico (Enrico Mattei e Giulio Andreotti), non rappresenta solamente una necessità imposta dalle condizioni della nostra economia interna, bensì è strettamente legata al dovere morale di chi deve predisporre un’alternativa credibile, di respiro europeo, al delirio delle destre o ai ‘revanchismi’ nazionalisti. Ciò che lo stesso Berlusconi avrebbe dovuto comprendere a fondo è che il massacro giustizialista dei Partiti laici e moderati, congiunto al fallimento della cultura antagonistica del comunismo internazionale, ha finito col rinnegare ogni genere di modello culturale. In parte, risultò corretto cercare di porre un freno alla corruzione della politica e alla commistione che si era venuta a creare tra questa e il mondo degli affari. Ma da quegli scandali sarebbe stato opportuno trarre una serie di considerazioni più lungimiranti in termini politici, senza compiere abiure che ci hanno portato verso territori assai distanti rispetto all’esigenza di dialogo e di comprensione reciproca di cui necessita, disperatamente, la società italiana. Ciò che non si riesce a far comprendere realmente è il dato storico di un tracollo delle ideologie politiche, quella comunista ma anche quelle dei Partiti storici presi nel loro complesso, che ha favorito - e ciò non sarebbe dovuto accadere - l’avvento di una nuova ideologia edonista assai peggiore dell’ingenua ‘joie de vivre’ della ‘Milano da bere’. Un processo di inculturazione generale che ha ridotto la politica stessa a vuoto messaggio propagandistico da declamare attraverso la televisione, posta al centro della vita dei cittadini al fine di assimilarli. Il danno culturale, ma anche microeconomico, di tutto questo è stato immenso, poiché si è concesso al grande capitalismo di ritrovarsi nelle insperate condizioni di non avere più freno alcuno nell’imporre i propri modelli di riferimento. La stessa sinistra italiana finisce troppo spesso con l’esprimersi secondo un linguaggio pressoché aderente a questo univoco conformismo di massa. Per mezzo della televisione, l’aziendalismo ha assimilato a sé gran parte del Paese, il quale storicamente era assai differenziato, ricco di culture originali. E ha portato a termine un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e di ogni concretezza. Questo aziendalismo ‘tardo-fordista’ ha imposto i suoi modelli, che sono poi quelli voluti dalla nuova industrializzazione, i quali non si accontentano più di un “uomo che consuma”, ma pretende di rendere inconcepibili culture anche solo parzialmente distinte rispetto a quella del consumo. Un edonismo ciecamente dimentico di ogni valore umanistico, sostanzialmente estraneo alle scienze umane, che ha persino stimolato un insano spirito di concorrenzialità da parte del sincretismo religioso più moralistico e inattuale, da proiettare anch’esso attraverso l’imposizione mediatica. Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello, che la televisione ha imposto secondo le norme dell’aziendalismo creatore di benessere, senza comprendere che essi non vengono minimamente messi in grado di realizzarlo per loro stessi. I cittadini possono concretizzare il proprio benessere materiale solo in minima parte, diventandone una caricatura o in misura tale da risultarne vittime. E questo accade soprattutto nel campo microeconomico, in cui l’imprenditore piccolo o medio non è portato a domandarsi se la sua difficoltà a espandersi sia dovuta al freno imposto dalle aziende più grandi, che pretendono di rimanere sul mercato nonostante le proprie inefficienze e i loro debiti mediante una perversa alleanza con il sistema bancario: il più delle volte, essi sono convinti che i propri scarsi margini di guadagno siano dovuti esclusivamente a uno Stato vessatore e a un fisco esoso. Tale paradosso diviene il principale alibi dell’ideologia aziendalista, la quale, nascondendosi dietro le contraddizioni e le inefficienze strutturali dello Stato, riesce a far credere che la perdita di poche decine di migliaia di euro l’anno sia più grave del mancato introito di milioni di euro dovuto alla scarsa crescita complessiva della nostra economia. Tutto ciò non solo non ha affatto generato, come per lo meno accadeva negli anni del ‘craxismo’, una sensazione psicologica di benessere collettivo. Al contrario, ha dirottato l’intero ‘sistema-Paese’ verso la frustrazione sociale. Vergognarsi dei propri modelli culturali più autentici, come quello socialista, quello liberale e quello cattolico-democratico, ha condotto al disprezzo nei confronti delle culture politiche prese nel loro complesso. E si è finiti col ridurre la politica stessa a mero fideismo. Il miracolo aziendalista si è definitivamente compiuto: i piccolo-borghesi, adeguatisi a un modello mediatico spacciato come panacea di tutti i mali, sono quasi tutti infelici, mentre la borghesia ‘media’ si ritrova addirittura ‘proletarizzata’. Ma ciò è avvenuto in quanto la cultura prodotta in questi ultimi decenni, essendo di carattere eminentemente tecnologico, dunque strettamente pragmatica, ha impedito a tutti di svilupparsi appieno sotto un profilo umanistico: per dirla con Pasolini, siamo giunti al “rattrappimento delle nostre facoltà intellettuali e morali”. Le responsabilità della cultura aziendalista in tutto questo sono gigantesche, poiché è proprio il nostro tipo di capitalismo a costringerci all’arretratezza, intento com’è a combattere la propria personale battaglia difensiva contro quel capitalismo ‘altro’ che, invece, sarebbe in grado di portare l’Italia verso modelli produttivi più vicini alla concorrenza imperfetta, affrancandola, finalmente, dall’attuale condizione di soffocante oligopolismo differenziato.