La cosiddetta rivolta dei ‘forconi’, che in questi giorni ha tentato di bloccare il Paese attraverso una serie di presidi territoriali di protesta, è la prova stessa del profondissimo fallimento politico del centrodestra italiano. La gran parte di questi imprenditori, infatti, negli scorsi anni aveva chiesto alla politica - in particolar modo alla politica ‘moderata’ - uno schieramento modernamente liberale, in grado di fornire una risposta complessiva alle evidenti esigenze di nuova cittadinanza economica di numerose realtà produttive, letteralmente ‘schiacciate’ da una pressione e da forme di vera e propria ‘persecuzione’ fiscale. Si trattava - e si tratta - di un intero ceto sociale che chiedeva di essere pienamente rappresentato e che si è invece trovato di fronte un personale politico che ha completamente mancato l’appuntamento per la realizzazione di un serio progetto di modernizzazione della società. Il centrodestra italiano, infatti, in questi due decenni di seconda Repubblica ha saputo teorizzare solamente una conduzione ‘privatista’ della cosa pubblica: un’idea assurda e ridicola, che non esiste in nessun posto del mondo. Brunetta e Berlusconi continuano a dirsi traditi da amici ed ex alleati, senza riuscire a comprendere di essere loro stessi i traditori del proprio elettorato. Alla radice dell’attuale pesantissima stagnazione economica vi è una specifica arretratezza culturale e di strumenti, una crisi di produttività e una più o meno consapevole acquiescenza della nostra classe politica, che in tale arretratezza ci si è sempre trovata benissimo. Ciò, naturalmente, ha finito col tradursi in tasse troppo elevate, che tali sono rimaste a causa di un apparato della pubblica amministrazione costosissimo. Si pensi, per esempio, al dato clamoroso di un’amministrazione dello Stato che, di fatto, per lungo tempo è stata gestita senza una contabilità degna di questo nome, senza cioè un budget o un ‘tetto’ preciso di spesa, dunque senza alcuna responsabilità effettiva nel merito di risultati realmente ‘misurabili’, privando in tal modo i cittadini del diritto di poter votare i propri rappresentanti sapendo se questi avessero effettivamente gestito bene o male il denaro della collettività. Si rifletta inoltre sul fatto, altrettanto clamoroso, di come la rivoluzione informatica, che ha avuto inizio già da alcuni decenni, non abbia prodotto alcun risultato sensibile, o quantomeno rilevante, in termini di efficienza e di produttività della nostra macchina pubblica. Date siffatte basi, era pertanto ragionevole ipotizzare un calo degli organici della pubblica amministrazione di almeno un terzo, in presenza di una struttura informatica di rete resa, per lo meno, dignitosa. Tutto ciò è esattamente quanto il centrodestra aveva promesso di realizzare e che non è riuscito assolutamente a porre in essere, nonostante 13 anni di Governo e schiaccianti maggioranze parlamentari. Tali proposte sono state giudicate impraticabili proprio da ampi settori del cosiddetto ‘Popolo delle Libertà’, pur sapendo che il corrispondente calo delle tasse avrebbe portato a una crescita compensativa, nel medio-lungo periodo, di tutti gli ‘svantaggi’ iniziali: presupposti di principio mai realmente accolti - se non per pure finalità propagandistiche - da un ceto politico di “utilizzatori finali”. Questo fallimento è stato talmente profondo e sostanziale che potrebbe persino giustificare un futuro riequilibrio elettorale all’interno dello schieramento di centrodestra preso nel suo complesso, anziché continuare a garantire un 18% di consensi a una formazione come la ‘rinata’ Forza Italia, quasi interamente composta da esponenti totalmente inaffidabili. In verità, proprio il ‘berlusconismo’ rischia di diventare una vera ‘disdetta storica’ per la destra italiana, che invece ha spesso dimostrato l’onestà, intellettuale e morale, di ammettere i propri limiti ed errori, tenendo fede, altresì, alle proprie convinzioni ispiratrici con alto senso di coerenza ideale. Perché un’autentica concezione economica di destra, cioè basata intorno a criteri di ordine e di legalità, non avrebbe minimamente fatto fatica a riconoscere come buone regole e istituzioni efficienti fossero le condizioni principali per far coincidere gli interessi individuali con quelli collettivi. Regole e istituzioni che funzionano rendono la vita più facile ai cittadini, più ordinata e meno rischiosa, fanno diventare conveniente pagare le tasse, rispettare i divieti di sosta, non imbrattare i luoghi pubblici, gestire il danaro collettivo senza sperperarlo. C’era, insomma, la necessità di modernizzare la nostra cultura civica, istituzionale e nazionale, argomenti intorno ai quali persino la destra più rivoluzionaria avrebbe potuto convenire. Invece, il fulcro teorico del dibattito sviluppatosi durante l’intero ventennio ‘berlusconiano’ non ha mai avuto il coraggio di abbandonare le generalizzazioni più astratte e retoriche, per convergere verso la strutturazione di una ‘nuova cultura’ in grado di delineare un progetto più innovativo e moderno di società. Una riflessione che doveva prendere le mosse dal tema di un coraggioso superamento del maligno intreccio tra interessi pubblici e privati esistenti nel nostro Paese, una commistione che ha trasformato imprese, banche, enti pubblici, università e organi di informazione in autentici ‘accampamenti lottizzati’, totalmente antimeritocratici, ai limiti dell’incompetenza. Precipuo compito della politica era dunque quello di andare a tagliare la spesa pubblica, al fine di studiare un nuovo assetto complessivo del nostro sistema di welfare. Come già esposto in passato, il suggerimento corretto era quello relativo a una riduzione del personale della pubblica amministrazione del 3% annuo. Una decisione di questo genere avrebbe comportato, per lo Stato, un risparmio di circa 25 miliardi di euro l’anno. La questione non si aggira intorno a un’idea di riduzione della spesa pubblica in quanto valore assoluto, bensì di una crescita mantenuta al di sotto del reddito: in termini strettamente finanziari, laddove lo Stato è costretto a intermediare il reddito nazionale con la spesa corrente non può verificarsi alcun effetto ‘moltiplicatore’, ma solamente una redistribuzione di danaro che si rivela sostanzialmente sottratto ai tanti possibili interventi di sostegno dell’economia reale. Dovendo oltretutto affrontare una prospettiva di decentramento delle funzioni statali, quel che si è di fatto verificato è stata un’interpretazione ‘distorta’ del ‘policentrismo decisionale’, la quale ha ulteriormente ridotto la produttività dell’amministrazione pubblica, generando più danni che altro. Al contrario, una crescita dell’occupazione innescata da un più veloce aumento del reddito, conseguente a una riduzione delle tasse - possibile solamente per il tramite di un calo ‘sistemico’ della spesa pubblica - avrebbe dato risultati 4 volte maggiori rispetto alla perdita occupazionale dettata dall’ipotesi di partenza. Ciò sulla base di un’elasticità media dell’occupazione, rispetto al reddito, sostanzialmente identica a quella registrata negli ultimi anni. Con tassi di crescita della spesa come quelli attuali, non lontani dal 5% annuo, risulta francamente impossibile mantenere sotto controllo il bilancio pubblico. Pertanto, se si fosse voluto veramente realizzare una forte riduzione di tasse e balzelli alle imprese, non c’era altra alternativa se non quella di un blocco della crescita della spesa corrente al netto degli interessi, operazione tentata solamente ‘a tratti’ dai Governi a guida Berlusconi, senza alcuna programmazione finanziaria e sulla base di mere emergenze del momento. Una spesa pubblica improduttiva e regolarmente fuori controllo non ha mai permesso di andare a intaccare il nostro debito nazionale, ha impedito quegli interventi strutturali sulla spesa corrente che avrebbero avuto significativi effetti di crescita della produttività media, ha reso impossibile aggredire con efficacia la disoccupazione giovanile. Con un debito pubblico che supera il centotrenta per cento del reddito nazionale, decisioni di siffatto genere e tipo rappresentavano la sola politica praticabile in grado di avviare un nuovo ciclo di sviluppo, che avrebbe potuto a sua volta riflettersi sull’intero sistema macroeconomico e produttivo italiano. Tutto questo non è stato né tentato, né impostato: è inutile, oggi, venircelo a ‘menare’ con ‘estumulazioni’, riesumazioni e resurrezioni. Il popolo intero è di fronte a una lunga serie di errori di politica economica, derivanti dal gravissimo equivoco di una cattiva interpretazione di quelle politiche di sviluppo che avrebbero dovuto accelerare il cammino della collettività verso un’economia sociale di mercato, la quale, anziché proletarizzare il ceto medio o immettere elementi di ‘pirateria finanziaria’, doveva semplicemente portare il consumatore al centro del sistema socioeconomico. Questi sono errori politici gravi, che hanno prodotto la protesta di questi giorni, poiché hanno generato un solco profondissimo tra i ceti produttivi e nell’intero tessuto sociale del Paese, oltre a imprevedibili conseguenze economiche negative. Solo una sincera e complessiva autocritica in merito a tale mancanza di coraggio potrà far nascere, in futuro, una destra nazionale più coraggiosa e pragmatica. In caso contrario, ogni altra ‘estumulazione’, leaderista o personalistica, porterà solamente a nuove e più gravi difficoltà, per il centrodestra e l’intero popolo italiano.
Direttore responsabile di www.laici.it e di www.periodicoitalianomagazine.it