Vittorio CraxiIl Congresso socialista non può non risentire l’eco di una preoccupazione più forte e più fondata circa lo stato della nostra economia, della nostra democrazia, le condizioni generali del Paese in cui viviamo e in cui si esercita la nostra lotta politica. Per questo è giusto e maturo parlare a noi di noi stessi, dei nostri progressi e delle nostre delusioni, rispetto alle aspettative che avevamo maturato nell’assise congressuale programmatica di Fiuggi, dei ritardi o delle difficoltà evidenti del Movimento socialista in Italia e financo delle nostre inadeguatezze. Certamente, dobbiamo cogliere l’occasione congressuale per rigenerare il nostro risveglio politico, per stimolare nella sinistra e nella democrazia italiana il dibattito che manca sui rischi delle crisi così prolungate, interrogandosi sulla ‘vittoria mancata’ e sul ripetuto fallimento del riformismo politico nel ventennio. Si parla, infatti, della fine di un ‘ventennio’ e si allude alla presenza di Berlusconi nella vita pubblica del Paese. Ma il ventennio che si chiude e che va giudicato riguarda tutti. Riguarda le prove di Governo anche della sinistra politica, che di fatto ha soppiantato, nel ruolo e nella funzione, quella del Psi, deludendo le aspettative contenute nelle premesse e nelle promesse. Siamo coi piedi immersi nella crisi. Certo, una crisi così prolungata non può non essere valutata e giudicata per quello che è, in un contesto più ampio di crisi economica di tutto l’occidente in cui, tuttavia, salta agli occhi il caso italiano, perché essa è prolungata e rappresenta anche il caso, nuovo ed eloquente, di una crisi della classe dirigente di questi ultimi venti anni. Di tutta la classe dirigente, economica, politica e sociale. Essa ha fallito essenzialmente su tre questioni fondamentali: 1) l’incapacità di riformare il sistema istituzionale, adattando ai tempi e alle esigenze la forma di Governo, delle istituzioni parlamentari, riordinando il sistema di poteri entro un equilibrio nuovo e rigenerato all’interno di un quadro di compatibilità con i nostri impegni e obblighi sovrannazionali; 2) ha fallito sul piano economico: il nostro era sostanzialmente un sistema di economia mista che garantiva la capacità di mantenere la coesione sociale, ma si è navigato verso la liquidazione del sistema pubblico economico senza creare un mercato reale e senza aver creato un nuovo e convincente compromesso sociale; 3) il ventennio ci consegna la crisi del Partito politico che è stato, tanto nel modello autoritario quanto in quello democratico, la trama stessa dello Stato. La presenza, essenziale e vitale per una democrazia matura, dei Partiti e il loro ruolo fondamentale in una società moderna è entrato in crisi un ventennio or sono. Ed essi non si sono più riavuti. Essi hanno rappresentato, per un lungo periodo, la trama che legava il popolo allo Stato e definiva, attraverso di essi, il perimetro fondamentale della democrazia e del suo funzionamento. La reazione a tutto ciò è la ricerca di soluzioni individuali a contraddizioni che sono sistemiche. Non c’è Paese, in occidente, che debba contemporaneamente affrontare una drammatica crisi economica e un’eredità così pesante di errori macroscopici, i quali hanno condotto a una crisi democratica, di fatto aperta, che non può non preoccupare e per la quale non sono sufficienti formule improvvisate o l’avvicinarsi di nuovi guaritori che riproducono il rischio di nuove avventure. Per questa ragione - e non per altre - la figura istituzionale del Capo dello Stato è l’ultimo filo che lega la democrazia alla realtà italiana. E’ l’ultimo filo logorato che cuce il rapporto fra democrazia e pace sociale. Parlo dell’istituzione, non della persona e del credito crescente conquistato negli ultimi difficili mesi. In attesa che si formino classi dirigenti diffuse e Partiti omogenei e democratici e non Partiti personali, leaderistici, flessibili o ‘virtuali’ in rete, la democrazia italiana sembra essere attaccata al filo logorato di questa sola istituzione. La rottura del Partito della Libertà e la polemica politica crea naturalmente una divaricazione di fondo nel Pd, aggravando la crisi anziché risolverla. E’ grave per la destra, perché la posizione dei più irriducibili sostenitori dell’infallibilità e dell’intoccabilità di Silvio Berlusconi  si spinge ai confini dell’eversione e, se mi è consentito, ad atteggiamenti poco rispettosi verso l’istituzione parlamentare per l’inevitabile applicazione della legge, assai diversa dal ‘caso celeberrimo’ che a sproposito si continua a tirare in ballo. Questo detto per amore della Storia, per verità e rispetto delle persone. Ma tutto ciò aggrava la situazione anche nella sinistra, non solo e non soltanto per il rischio di scontri paralizzanti di una o più leadership, ma perché anche la nuova generazione di leader si pone il rapporto con le socialdemocrazie europee e il Pse come una questione puramente burocratica e non come un problema politico di rilevanza strategica per l’insieme della sinistra italiana in quanto approdo politico, ideale e naturale di una forza che si richiama ai valori e ai principi di progresso e che non può non avere un solido e concreto ancoraggio. In altri termini: molti si aggirano e parlano in nome e per conto del socialismo europeo, ma nessuno osa definirsi socialista. Si aggrava, infine, il terreno già fragile su cui vengono edificate le ‘larghe intese’, che verranno a essere insidiate da una forza centrifuga che si andrà a unire alle altre componenti di opposizione, tutte guidate, a questo punto, da leader extraparlamentari. Il ‘commissariamento’ di fatto della vita politica del paese, la scelta necessitata di una coalizione di ‘volontari’ senza alle spalle, in modo convinto, né i Partiti di riferimento, né una prospettiva strategica che adombri al Paese una capacità di uscita dalle difficoltà, traguardandolo oltre la propria durata, mina gli sforzi collettivi, riduce i sentimenti di speranza e non produce nient’altro che un’attesa, una lunga, infinita, attesa. D’altronde, la qualità e la virtù del Governo è quel che è, ma è quel che c’é. Si dice che cambia la natura politica dell’esecutivo, ma noi per primi che a questo esecutivo abbiamo concesso, senza nulla in cambio, fiducia politica e parlamentare sappiamo che questo percorso, tortuoso e condizionato, mina alla radice la capacità di dispiegare una forza reale ed efficace, ricacciando il Paese in una condizione politica interna assai precaria, in una assoluta difficoltà di carattere esterno sul piano economico europeo. Tuttavia, null’altro che la responsabilità politica fa giudicare questo quadro l’unico, consentendo una governabilità a un Paese in crisi. E questa governabilità condizionata o “a tempo “, come si dice, deve essere in grado di fronteggiare con efficacia e forza la politica europea, guidata di un ‘pilota automatico’ che predica l’austerità e pratica la lunga recessione. La stabilità ha un valore politico se è capace di riorganizzare e riordinare in chiave europea il terreno politico, se è in grado di uscire con forme innovative e non burocratiche di riorientamento della spesa pubblica, indirizzandola verso i ceti più deboli e operante sul versante degli sprechi. Si è incominciato con provvedimenti finanziari che appaiono operazioni contabili dai modestissimi contenuti sociali (tale considero quel salario minimo appena accennato), mentre la riforma della Banca d’Italia s’appresta a essere giudicata per quello che, in realtà, purtroppo è: un poderoso regalo alle banche private, che si vedono ricapitalizzare il proprio apporto azionario con una sottrazione di fatto al Tesoro del suo patrimonio. L’austerità generalizzata non ha prodotto alcuna buona notizia, per le economie e le democrazie europee. La sua imposizione allontana sempre più le popolazioni dall’idea europeista ed è gravida di conseguenze per l’unione economica e monetaria. Non presta un bel volto dell’Europa ed è lecito capire in fretta che, in economia come nella politica, la legge del più forte non è quasi mai la migliore. I Governi europei, oppressi dai debiti, stanno tagliando i programmi di welfare, nonostante la disoccupazione in aumento e la crescita stagnante. Nella maggioranza dei casi, la soluzione scelta per rimediare alle iniquità del capitalismo è stata quella di introdurre maggior capitalismo. I nostri creditori spingono per smantellare le tutele dei lavoratori e per deregolamentare i mercati interni. Una sorte di ‘lotta di classe dall’alto’ (lo scrittore Owen). La quota di reddito destinata ai lavoratori è in calo da anni in tutto l’occidente. Persino il ‘Time’ rivaluta le profezie del vecchio Marx sul capitale che si arricchisce a spese del lavoro, ovvero ciò che potrebbe far felici degli inguaribili ‘indottrinati’, che tuttavia interroga non poco i Partiti progressisti e di sinistra sulle loro esili possibilità di far fronte e di ripensare in modo significativo, convincente e non astratto a come contenere, ridurre e contrastare le iniquità, le ingiustizie prodotte da questo modello economico. Fa impressione vedere il disfacimento dell’utopia europea, un cammino intrapreso con una condotta lungimirante da forze e da uomini politici che immaginavano e preconizzavano una miglior condizione per il futuro delle generazioni più giovani, al riparo dall’insidia delle divisioni e dei conflitti in un’unica area di benessere e di reciprocità solidale finita nelle mani di burocrati e banchieri, nonché guidata, nuovamente, da una rinata vocazione imperiale tedesca. L’Europa avrà bisogno di maggiori investimenti per la crescita e di nuova liquidità: è inevitabile. L’Europa dovrà ‘sburocratizzarsi’ e semplificarsi, compensando il trasferimento di sovranità dei singoli Stati con regole e normative ‘uniche’ sul piano fiscale, su quello militare, su quello giudiziario, assicurativo e bancario. Che parli con una voce unica. Inevitabile sarà rimuovere il pilota automatico e sostituire alla dicotomia che unisce, oggi, Cdu e Spd fra rigorismi austeri e salari minimi, l’immissione di titoli di Stato europei per far riprendere l’economia generando nuova occupazione, rimuovendo l’odioso parametro deficit/pil al 3%, consentendo altresì di separare dai bilanci le spese per gli investimenti per le aree più bisognose del continente per aiutare veramente l’occupazione giovanile e fronteggiare sul serio l’emergenza immigrazione, prendendo sul serio i diritti dei profughi che fuggono da conflitti che non si sa fino a che punto, inconsapevolmente, noi stessi abbiamo contribuito a generare. Una politica estera e di difesa comune vera e non un’Europa che si aggiri irrilevante per il mondo, vagando in ordine sparso e a ‘fari spenti’. Una politica più assertiva nel Mediterraneo, dove spenti i facili entusiasmi si riaccendono i fuochi di una possibile ‘polveriera’. E dove tuttavia, fra tante pessime notizie, possiamo salutare il preannuncio di un cessate il fuoco della ‘guerra fredda’ fra Usa e Iran come l’inizio di un nuovo processo e di un nuovo equilibrio, in cui l’Europa e, aggiungo, l’Italia non può restare spettatrice inoperosa. Le prossime elezioni europee non sono solo il banco di prova e l’appello per l’unità monetaria, ma sono e devono essere un appuntamento ‘chiave’, che fissi obiettivi economici e politici capaci di traguardare il decennio che si sta per aprire cambiando orizzonte verso un impegno comune. Un impegno che possa, mi auguro, vedere i socialisti italiani, per le forze che contano, protagonisti e non spettatori di una fase di cambiamento necessaria e auspicabile. Ci sono state discussioni fra di noi. Se dovessimo giudicare il risultato complessivo, sappiamo che il bicchiere è ‘mezzo vuoto’. La presenza di bravi compagni parlamentari è senz’altro una conquista. Ma giudico un errore quello che abbiamo commesso collettivamente e cioè di sottrarre, in un’occasione propizia, la possibilità di dare ai socialisti la possibilità di partecipare con la propria lista alle elezioni. Io, per parte mia, ho parzialmente rimediato affrontando e perdendo la sfida elettorale in un collegio senatoriale. Non voglio ‘medaglie’ per questo: l’ho fatto con coscienza per il Partito e per un’idea alla quale aderisco, ormai, da più di trent’anni. Ci sono state discussioni, poi per fortuna abortite, su una presunta volontà di cambio di ragione sociale, di adesioni a perimetri diversi da quelli socialisti. Ci sono state discussioni se fosse il caso di partecipare o meno alle primarie del centro-sinistra con una nostra candidatura. Io penso che sarebbe stato opportuno e considero un errore non l’averlo fatto. E’ un errore che Riccardo non ha compiuto da solo. Di fronte a quelli che si considerano errori politici, io penso ci sia un solo rimedio: quello di non ripeterli più e lavorare nel miglior modo possibile per rendere il Partito competitivo alle elezioni generali e a quelle più ravvicinate, preparando per tempo una ‘sfida socialista’ alle primarie del centro-sinistra. Le nostre discussioni hanno riguardato lo stato del Partito e la sua collegialità, il suo rinnovamento e il suo insediamento nella società italiana innanzi a una crisi politica e sociale aperta, la sua organizzazione di stampo federalista, la sua capacità di essere aperto e inclusivo verso la moltitudine di socialisti che si dichiarano tali e che non si riconoscono in noi e che, tuttavia, vanno richiamati a un dovere di lotta e di militanza. Le nostre discussioni, però, devono e possono produrre un esito utile alla nostra causa e al processo di cambiamento generale che, anche nella sinistra, non può ritardare oltre e che mi immagino, anzi mi auguro, determini un definitivo e stabile approdo nella famiglia socialista in Europa, che non può prescindere da chi socialista lo è già. Domandiamo, per questa ragione, a una delegazione autorevole di leader del socialismo europeo di chiedere di sovraintendere alla ricostruzione del perimetro socialista in Italia, posto che la questione, come si è capito, non la risolve l’ambigua condizione del Partito democratico, né tantomeno riteniamo di poterla risolvere da soli noi, magari in alleanza con Sel. Una delegazione che aiuti la formazione di una lista unica del socialismo europeo che faccia riferimento, nel nostro Paese, all’origine del Movimento socialista che nacque nel 1892 e di cui, nella sinistra italiana, tutti quanti siamo, a diverso titolo, figli ed eredi. Per preparare un’azione politica ambiziosa e tentare di riunire la sinistra italiana in un perimetro socialista, penso che sarebbe sbagliato incominciare a dividere i socialisti, che ci sono e che ci sono stati sempre, in momenti in cui era più comodo e più facile guardare altrove o scegliere la strada del disimpegno nel migliore dei casi oppure - ed è purtroppo la maggioranza dei casi - di scegliere qualche strapuntino a destra o a sinistra denigrando tutto ciò che qualche socialista italiano ha tentato per  non disperdere e tenere in vita un patrimonio di idee, di valori, di Storia. Il nuovo mercato politico pone domande di neo-socialismo. E noi dobbiamo essere in grado di esprimere un’offerta. Se nuove classi dirigenti rigenereranno i Partiti, noi dobbiamo esserne all’altezza e dare ai più giovani questa opportunità senza gettare uomini, idee e storie come fossero ‘ferri vecchi’. Ma dovrà essere un neo-socialismo adatto ai nostri tempi, che non si sottragga alla tutela dei diritti, bensì con l’esigenza del rispetto dei doveri e delle responsabilità di tutti. Non è senza emozione che ho preso la parola, qui a Venezia: i socialisti proprio si riunirono a Congresso nel lontano 1957. I più anziani legano questo ricordo all’elezione di Pietro Nenni, ma anche alla sua messa in minoranza nel Comitato centrale, dopo aver vinto politicamente su una limpida linea di unificazione socialista, prodromo di ciò che avvenne qualche anno dopo. A malincuore riprese la guida del Partito e, deluso e amareggiato, annotò sul suo diario una frase di Turati che amava citare: “Che magnifica cosa sarebbe il socialismo senza i socialisti…”. A Venezia entrò nel Comitato centrale, giovanissimo, Bettino Craxi, che divenne Segretario vent’anni dopo. E’ la mia casa, la mia comunità. E non sarei diventato l’uomo che sono, nei  i valori che ho praticato, se non avessi frequentato la grande comunità socialista. Una vita che è stata anche segnata dall’asprezza della lotta politica, dalla durezza della sconfitta e del tragico epilogo della vicenda che ha riguardato il Psi di Craxi e che, tuttavia, non mi ha mai fatto venir meno dall’idea che si possa lottare per il proprio ideale e per la sua bellezza sapendo che altri, prima di noi e molti spero dopo, continueranno a farlo nel segno di una grande cultura politica e dei grandi valori umanitari che sono propri del socialismo democratico in cui noi ci riconosciamo. E’ ancora in essi che noi possiamo ritrovare il pensiero e la ragione per cambiare e migliorare lo stato di cose, nel mondo nuovo che stiamo vivendo. E’ l’impegno che dobbiamo assumerci tutti assieme, nessuno escluso, nel futuro di questo Partito. E l’impegno è quello di ‘essere’ socialisti del nostro tempo, portandoci appresso, nel futuro, tutto quello che c’è di buono nella storia Storia. Ed è quello che stiamo facendo.




Responsabile politica estera del Psi
(intervento al 3° Congresso nazionale del Partito socialista italiano, tenutosi a Venezia dal 29 novembre al 1° dicembre 2013)
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ARBOR - MILANO - Mail - martedi 3 dicembre 2013 17.11
"E l’impegno è quello di ‘essere’ socialisti del nostro tempo, portandoci appresso, nel futuro, tutto quello che c’è di buono nella storia Storia".
Ma dopo 121 anni di scissioni, riunioni, ecc. ci venite ancora a riproporre la vecchia frittata ? Statevene tranquilli e godetevi i 16000 Euro che il contribuente vi paga ogni mese. Noi abbiamo i problemi dell'IMU, le imposte che crescono ogni giorno, l'inefficienza della pubblica amministrazione, la disoccupazione, ecc.
Forse se iniziaste a cercare di risolvere questi problemi, non dovreste lanciare proclami cercando di far rinascere una pianta nata morta più di un secolo fa. Ricordatevi che per aver visibilità e potere siete stati obbligati a seguire un leader che si chiamava Mussolini.


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