A Silvio Berlusconi, Daniela Santanché, Daniele Capezzone e tutti gli altri esponenti coinvolti nell’ambizioso progetto di rinascita della nuova ‘Forza Italia’ posso solo augurare buon lavoro. I miei dubbi personali in merito a un progetto politico, quello di una rivoluzione liberale che giunge con un sostanziale e gravissimo ritardo, credo siano evidenti agli occhi di molti. E la questione di come un siffatto obiettivo possa essere attuato ‘da destra’ entra a far parte, con pieno diritto, tra le numerose contraddizioni attraverso le quali Silvio Berlusconi ha guidato, in tutti questi anni, l’intera coalizione di centrodestra. Il fatto stesso che i sondaggi dicano espressamente che la divisione tra Forza Italia e ‘Nuovo centrodestra’ di Alfano e Cicchitto in realtà faccia aumentare i voti all’intero schieramento, dimostra la necessità, inutilmente invocata per due lunghissimi decenni, di una seconda ‘gamba’ della coalizione, in grado di intercettare un elettorato che, seppur minoritario, rimane storicamente distante da determinati radicalismi dirigisti e aziendalisti. Detto questo, c’è anche da comprendere la ‘visione’ di fondo del gruppo politico rimasto attorno al leader di Arcore: la convinzione, drammatica, che l’Italia sia un Paese in cui il singolo cittadino non possa realizzare se stesso se non liberandosi dalle ‘maglie’ di infinite regole e complicazioni, da una burocrazia asfissiante, da un regime fiscale pesantissimo. In un certo senso, è un richiamo verso quell’antica cultura contadina riassumibile nella massima: ‘Scarpe grosse e cervello fino’. Sarebbe intellettualmente disonesto non ammettere che, in tante situazioni e per tanti italiani, le cose stiano esattamente - e da sempre - così, in un Paese dove non solo non funziona nulla, ma in cui chi le regole le rispetta, spesso si ritrova addirittura danneggiato, o ‘passa’ per emerito ‘fregnone’. Il pensiero di fondo della ‘rinata’ Forza Italia, dunque, lo comprendo sinceramente, umanamente e, se posso dire, persino ‘amichevolmente’. Tante volte, la vita sembra proprio dettare questo genere di ‘lezione’: ‘Quando ci vuole, ci vuole…’, si dice in certi casi. Va da sé che un simile principio non possa essere assunto come presupposto di un qualsiasi sistema valoriale, filosofico o più genericamente culturale, poiché esso degenera facilmente in ‘meccanismo’, in comportamenti non sempre opportuni. E forti rimangono i rischi di un’ennesima ricaduta nel ‘vuotismo’, nel puro atteggiamento, nell’errore di un Partito che possa rappresentare solamente un ‘contenitore’, salutato il quale possa vedere accolti contenuti di qualsiasi provenienza e natura, persino di matrice rivoluzionaria, estremista o antisistema. E’ ancora la vecchia teorizzazione autoritaria di De Maistre: per evitare la rivoluzione dall’esterno, un Partito deve portare quest’ultima al proprio interno. Un Partito d’ordine, dunque, chiuso in se stesso e che, proprio in quanto tale, entra in contraddizione con l’obiettivo che esso si prefigge: quello di una rivoluzione liberale della società. Spesso, nella vita, le vie più brevi sembrano le più semplici ed efficaci. Ma se riuscire a tagliare la testa al ‘toro’ di numerose questioni qui da noi risulta operazione difficile, se non impossibile, allora è esattamente questa l’utopia della destra italiana: non occorre una ‘scienza infusa’ per comprenderlo. Per quanto possa apparire incredibile, si può financo garantire l’esistenza, almeno parziale, di una certa, sprovveduta, ‘buona fede’ in coloro che si sentono rappresentati da una forza politica di siffatto genere e tipo. Ma attenzione: questa volta potrebbe non trattarsi di un’etica televisiva del successo, bensì di un idealismo ‘crepuscolare’ divenuto velleitario, ingenuo e persino un po’ triste.
Direttore responsabile di www.laici.it e di www.periodicoitalianomagazine.it