Vittorio LussanaEmiliano Lorìa è uno scrittore teatrale, uno sceneggiatore e un autore emergente, un ragazzo ricco di idee pregevoli. Alcuni anni fa, egli aveva ‘abbozzato’ un racconto poiché era rimasto molto colpito dalla primissima ondata migratoria che ha invaso il nostro Paese dall’Albania e dall’est europeo. Ben presto, ci si è resi conto di essere di fronte a un soggetto importante, teso ad analizzare da vicino la questione dell’immigrazione che, proprio in quest'ultimo periodo, ha scosso l’Italia intera con le immani tragedie avvenute al largo di Lampedusa. Così è nato ‘ìncepe’, un testo teatrale messo in scena dalla compagnia ‘Amaranto/Orma Fluens’ che ben presto ha iniziato a mietere successi, dal premio ‘Teatri di sabbia’ 2012 a un’imprevista qualificazione in semifinale - e a suon di voti da parte del pubblico - presso il Roma Fringe Festival 2013, il contest teatrale capitolino che sta sfornando a tutto spiano nuovi talenti e moltissime idee interessanti. Proprio in questi giorni, ‘ìncepe’ è andato in scena con meritato successo al teatro Studio Uno di Roma, una sala che si sta imponendo come vera e propria ‘casa’ del teatro indipendente. Con la regia di Riccardo Brunetti e l’intensa interpretazione di Silvia Ferrante, lo spettacolo ha coinvolto il pubblico in una storia in continuo equilibrio tra ironia e paura, dolore e follia, contraddizioni e ricordi. Ecco dunque l’intervista che questo giovane autore ha voluto concederci a margine dello spettacolo.

Emiliano Lorìa, innanzitutto perché questo titolo, 'ìncepe', che sembra essere la versione slava del termine latino incipit (partenza, inizio, principio)?

"Non so se è di origine slava: sicuramente è romena, poiché deriva dal latino, come molti altri vocaboli di quella lingua. Il titolo originario del testo, che è stato scritto due anni fa, era 'Patita' e aveva una dimensione maggiormente ‘favolistica’. Abbiamo lasciato qualche traccia di ciò nel testo, soprattutto nella parte finale, ma nel tempo, all’interno della favola ha preso corpo una dimensione più realistica: poco alla volta, si è delineato il volto di questa ragazza persa nel Mediterraneo. Non a caso, la protagonista si era messa in viaggio con tutta la famiglia e, nello sviluppo del monologo, si scopre che la ragazza è rimasta sola”.

Ciò che colpisce in questo tuo testo è il tentativo di approcciare con un 'pizzico' di ironia un dramma come quello dell'immigrazione: un equilibrio non semplice, perché hai voluto raccontarlo così?
"Onestamente, se avessi dovuto scrivere oggi questo testo alla luce di quanto accaduto a Lampedusa, non avrei utilizzato questo approccio. Due anni fa si vedevano i barconi, si parlava degli arrivi e, purtroppo, era diventato un'abitudine parlarne. Ecco perché fu facile tentare di trattare la cosa partendo da un racconto ‘favolistico’. Una favola, in realtà, scritta per mio figlio e che parlava di un viaggiatore sul mare. Erano stati pubblicati anche molti libri sull'argomento. Il film ‘Vita di Pi’, tratto da un romanzo di Yann Martel, è una storia simile: un bambino che perde la famiglia durante un viaggio sull’oceano. Quindi, il soggetto iniziale era maggiormente favolistico, ma a un certo punto sono avvenuti alcuni 'cortocircuiti'. Innanzitutto, l'intensificarsi di questi eventi e degli sbarchi in Calabria e in Sicilia. Anche quest’estate, quando lo spettacolo è stato presentato al Roma Fringe Festival, è cominciata ad arrivare una risposta importante da parte del pubblico, che notava una sempre maggior aderenza del testo alla realtà. E' per questo che l’attrice protagonista, Silvia Ferrante, si è sforzata di rendere il suo personaggio sempre più profondo e, per far questo, ha 'inventato' persino una lingua tutta sua, un italiano curioso e pieno di ‘storture’ con il quale recita la prima e l'ultima parte dello spettacolo. E’ stato anche questo a caratterizzare in senso realistico questo soggetto teatrale: una persona che proviene dall'est dell’Europa (non viene precisato il contesto) che si mette in viaggio nel Mediterraneo”.

C'è anche da dire che avete voluto evidenziare l’immagine contraddittoria che l'Italia ha trasmesso, per interi decenni, ai Paesi cosiddetti ‘rivieraschi’, dall’Albania al Marocco, passando per Libia e Tunisia, attraverso la televisione: se in molti si sono messi in viaggio verso le coste italiane, forse siamo stati anche noi che abbiamo fornito una rappresentazione piuttosto superficiale del nostro Paese?
"Assolutamente sì. Si tratta di un'idea del regista, Riccardo Brunetti, che ha concepito anche un modo per far dialogare questa chiamiamola ‘cultura’ televisiva all'interno del monologo. Grazie all'utilizzo di un video si capiscono, nello svolgimento della trama, i riferimenti a un oggetto che viene citato nel monologo: la televisione. La protagonista è una ragazza dell'est. E dopo la caduta del muro di Berlino, proprio dall'est è iniziata un’ondata migratoria di persone che desideravano l'idea di benessere che aveva trasmesso l’Italia. Così ci siamo chiesti cosa trasmetteva, in quegli anni, la tv italiana: era la televisione della nostra infanzia che veniva 'captata' anche dall'Albania e dal Montenegro. Ciò è servito a farci riflettere su come noi italiani ci siamo rappresentati agli occhi di questi Paesi. Abbiamo anche cercato di far capire che la lingua parlata dalla protagonista era quella ‘rubata’ proprio a 'quella' televisione. È un messaggio molto forte. Dal mio punto di vista è stata la televisione degli anni '80, quella che ha plasmato anche i miei gusti musicali e persino il modo di vedere l'altro sesso, ad assumere un peso drammatico molto forte. E ho quindi immaginato la forza devastante con cui queste immagini sono arrivate 'dall'altra parte', con linguaggi e messaggi distorti: i quiz basati sul mero nozionismo, le trasmissioni di intrattenimento tese a mettere in ‘piazza’ il ‘privato’, le tante ballerine svestite. Il tutto significava benessere, una promessa di felicità, il sogno di una vita migliore rispetto alla dittatura comunista”.

C'è anche un altro elemento che viene evidenziato, cioè il fatto che la nostra produzione culturale di massa è fortemente ‘inculturata’, stracolma di doppi sensi e di elementi trasgressivi spesso gratuiti, mentre gli elementi reali, o di fondo, risultano messi da parte. Insomma, il fenomeno migratorio è anche il risultato del dominio della televisione ‘spazzatura’ e dei suoi effetti?
"Questo è ciò che ci si domanda da quarant'anni, cioè da quando Pier Paolo Pasolini sollevò la questione. In realtà, noi non diamo una risposta, ma tentiamo di capire il perché si sia arrivati a ciò. Si tratta di un problema che riguarda tutti: sia chi ha prodotto e continua a produrre una falsa rappresentazione della realtà, sia chi studia le radici culturali italiane e quelle dei popoli migranti, che sono molto radicate. Perché continua a vincere una cultura generalista? Perché l’attrazione verso principi vacui e superficiali, sia per noi che per loro, rimane la stessa? Tutto questo e stato un comune denominatore 'tragico', se vogliamo ben vedere”.

Quindi, il dilemma di fondo che 'ìncepe' pone in evidenza è questo: tanto era assolutista e autoritaria la condizione dei Paesi dell'Est, tanto è omologativa e massificata la nostra. Non ci sono terze vie?
"No, non ci sono. E, ribadisco, più di tutto ci sarebbe da chiedersi perché questo nostro modello rappresenti, sia agli occhi degli altri, sia ai nostri, una via da percorrere: perché l'attrazione è stata così forte? Oltretutto, si tratta di un modello indotto, che abbiamo importato dagli Usa. C'è poi da considerare il fatto che le dittature comuniste sono morte e sepolte. Eppure, esse hanno lasciato una 'nostalgia'. Quindi è chiaro che c'è stata una macerazione, un dimenticarsi le vere culture di appartenenza. Insomma, siamo di fronte a una frattura gravissima e profonda”.

Siamo usciti da una fase storica di identità eccessivamente rigide per ‘cadere’ nelle ‘non identità’, nel nulla?
"Parlare di identità, oggi, non serve più, perché il processo è divenuto irreversibile. Lo si vede anche in ‘Incepe’: nel finale, la protagonista ha raggiunto un nuovo approdo, ma non può tornare indietro, perché non sa bene da dove è partita e nemmeno dove è arrivata. Quindi, non può ricominciare partendo dal passato, del quale rimangono solo alcuni ricordi: una cosa traumatica, che può accadere a ciascuno di noi. Quindi, non è esattamente un'identità ciò di cui abbiamo bisogno, poiché questa potrebbe ‘intrappolarci’ in nuove ‘gabbie’ da abbattere, in nuove insoddisfazioni, piuttosto di una 'individuazione' che permetta un'intersoggettività, un nuovo rapporto con l'altro”.


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Cristina - Milano - Mail - giovedi 17 ottobre 2013 6.14
Intervista molto interessante.
Marina - Urbino - Mail - giovedi 17 ottobre 2013 6.13
Veramente illuminato questo ragazzo.


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