Una politica che deve contare solo sugli apporti esterni ed esteri (ripresa economica che è debole, allentamento dei vincoli europei e della bramosa finanza internazionale) per determinare politiche attive di crescita e di sviluppo non può che essere destinata al fallimento. In questo errore sta cadendo il centrosinistra e il Pd, che tutto preso dal sostegno a Letta e nel porre freni all'attività del favorito Renzi alla segreteria del Partito, si è avvitato in una forma cosi priva di idealità e di voglia di riforme che il Pdl la accetta con sufficienza. L'incontro tra gli opposti (Pd e Pdl) non provoca un sussulto di dibattito e di considerazioni su come arrestare il declino italiano. Anzi, si sta trasformando in un imbuto che sta decimando l'impegno e le risorse dei militanti di sinistra, i quali non vedono un'azione del loro schieramento volta a sovvertire le diseguaglianze sociali e a impostare una politica di riformismo equo e credibile. Questa della necessaria stabilità del Governo è un fatto vero. Ma spesso questa concezione serve a coprire una povertà di volontà politica che ormai ha usurato ogni ipotesi di cambiamento. La stessa decadenza di Berlusconi, giusta e sacrosanta, su cui la sinistra ripete una liturgia quotidiana, serve a distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica. Non è un caso che alla conclusione del Festival dell'Unità il segretario del Pd Epifani, che preferivamo nella sua veste di combattivo sindacalista, abbia parlato sotto un tendone a qualche migliaio di attivisti e non al popolo della sinistra. Ciò significa che il Pd sta raccogliendo, in parte, l'eredità della Dd, che amministrava lo Stato sulla base del suo rapporto con i gangli del potere di governo, sottogoverno e delle amministrazioni locali. Una continua corsa per l'omologazione alle teorie centriste - e non centrali - è il maggior pericolo che si corre a sinistra.