Maria Luisa Di Pietro, docente di bioetica all’Università cattolica di Roma, è componente del Comitato Nazionale di Bioetica.

Prof.ssa Di Pietro, cosa significa dignità della vita umana, secondo lei?
“La vita fisica è il valore fondamentale dell’essere umano, poiché, pur non esaurendone tutta la ricchezza, è attraverso la vita fisica che l’essere umano entra nel tempo e nello spazio, si manifesta, si esprime. Dal valore fondamentale deriva il diritto fondamentale dell’essere umano: quello della tutela della vita fisica e della salvaguardia della salute”.

Qual è il compito della medicina in questo senso?
“Il compito degli operatori sanitari è di mettersi a servizio dell’uomo per aiutarlo, da una parte, a tutelare e promuovere la propria salute e, dall’altro, per offrire competenze e mezzi in caso di malattia, alleviando la sofferenza e prendendosi cura del paziente qualora non sia più possibile - a causa dell’evolvere della malattia - intervenire in senso terapeutico”.

Qual è la compatibilità tra volontà del singolo e dovere del medico? Esiste un limite preciso e, se sì, dove si pone?
“Il rapporto medico - paziente è un incontro tra una fiducia e una coscienza: la fiducia dell’uomo che soffre e che si affida non solo alla competenza ma anche alla coscienza del medico. Sia il paziente sia il medico devono confrontarsi, nell’ambito di questo rapporto, con il valore fondamentale che la vita fisica ha per il paziente, la quale va promossa, tutelata, curata, ma mai soppressa”.

Quale validità formale (giuridica) può avere il testamento di vita se la vita non è un bene disponibile?
“Un testamento di vita che contenesse la volontà del paziente di rifiutare interventi, il cui effetto secondario, prevedibile e prevenibile, fosse l’anticipazione della propria, entrerebbe senz’altro in conflitto con il diritto vigente, retto per l’appunto dal principio di indisponibilità e inviolabilità della vita umana, non potrebbe avere alcuna validità giuridica e potrebbe sconvolgere, tra l’altro, il significato stesso della professione medica”.

Il testamento biologico è, come molti sostengono, una via per riaprire il dibattito sull’eutanasia o, per così dire, il passaggio non è obbligato? Dire di sì al testamento biologico significa un sì all’eutanasia o esiste (se c’è quale è) una differenza?
“Come viene concepito nel dibattito bioetico e giuridico il testamento biologico o le direttive anticipate sono inevitabilmente una strada verso l’eutanasia, perché anche qualora venisse escluso come oggetto di decisione l’eutanasia cosiddetta “attiva”, rimarrebbe di fatto aperta la possibilità dell’eutanasia cosiddetta “passiva”, cioè da sospensione di terapie di sostegno vitale al di fuori di qualsiasi ipotesi di accanimento terapeutico. Diverso sarebbe il caso in cui le dichiarazioni anticipate del paziente avessero come contenuto i desideri del paziente relativi al non essere oggetto di abbandono terapeutico, alle cure, all’assistenza religiosa, all’intenzione di donare o di non donare gli organi, al luogo di cura (in casa o in ospedale), all’accompagnamento nel processo del morire. Ritengo, invece, inutile che tra i contenuti di una dichiarazione di volontà ci possa essere il rifiuto dell’accanimento terapeutico, ovvero del ricorso a terapie sproporzionate rispetto alle condizioni del paziente, pur nella continuità delle cure. Perché evitare l’accanimento terapeutico è un dovere del medico, non semplicemente secondario ad una dichiarazione di volontà del paziente. La necessità è, allora, quella di dare ai medici una adeguata preparazione scientifica, che sia informata ad una corretta impostazione dell’etica degli interventi in ambito sanitario”.

Il sì al testamento biologico implica necessariamente una riformulazione dell’idea di vita e, insieme, un ripensare l’idea e la pratica della medicina?
“In un tale contesto, il principio di autodeterminazione del paziente diventerebbe l’unico fondamento dell’attività medica, venendo meno quel principio di beneficialità su cui si basa l’operato medico, soprattutto nelle condizioni in cui il paziente – per condizioni legate all’età (il caso di minori) o alla malattia – non è in grado di esprimere in modo cosciente e responsabile il proprio parere. Verrebbe, inoltre, meno quella posizione di garanzia del medico, delegittimato nel suo operare da decisioni prese dal paziente anche – tra l’altro – al di fuori delle condizioni per le quali queste decisioni vengono formulate. Il medico deve sempre essere responsabile in prima persona delle proprie azioni, per le quali dovrà considerare la propria coscienza, guidata dai doveri professionali, giuridici e deontologici”.

Esiste un confine etico o politico alla scienza?
“La ‘scienza’ è fatta dagli uomini: è oggetto di scelte o di rinunce, che hanno – in quanto frutto della libera volontà di uomini – una valenza etica. La questione non è, allora, se porre dei ‘paletti’: quanto piuttosto educare chi fa la scienza e chi della scienza si avvale a fare scelte che rispettino l’uomo, il suo valore, la sua dignità. E, di fronte ad una vita che va spegnendosi, questa scelta deve portare a ‘piegarsi’ sulla persona che soffre, per somministrarle le cure necessarie, per alleviare le sofferenze, per sostenerla – se cosciente - psicologicamente e umanamente, evitando che il desiderio di morte – anche espresso anticipatamente - possa essere il risultato della paura di essere abbandonati”.

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