La società europea è matura per estendere il diritto di voto a tutti gli immigrati? Non sarebbe auspicabile un simile provvedimento anche per integrarli compiutamente dove già lavorano e vivono? Domande scomode che vengono sollevate dal libro-ricerca Immigrati e partecipazione, realizzato dalla Caritas italiana, e che offre una riflessione ben circostanziata sulle scelte di partecipazione alla vita politica che l’Unione Europea sarà chiamata inevitabilmente a compiere - ma che forse avrebbero dovuto già essere impostate - a “vantaggio” degli immigrati extracomunitari che qui lavorano e producono (in realtà a vantaggio innanzitutto degli Stati che ne fanno parte, che avrebbero tutto da guadagnare da una vera integrazione di questi “cittadini separati” e - soprattutto! - dei loro figli). L’approfondimento principale spetta al diritto di voto - questione sulla quale la Caritas vanta da anni competenze da rigoroso ed autorevole centro studi - e, in particolare, a quello nelle città: è infatti nelle aree metropolitane che si concentrano maggiormente i gruppi extracomunitari. È presente poi un vero e proprio focus giuridico sulla cittadinanza, dove sono ben evidenziate le esperienze degli Stati Ue che concedono - a determinate condizioni - il diritto di voto agli stranieri extracomunitari residenti da un certo numero di anni: strano a dirsi, ma questi Paesi sono la maggioranza nel perimetro dell’Unione. L’Italia, insieme a Germania, Austria, Grecia, Lussemburgo e Francia, fa parte invece di quei Paesi che non prevedono questo diritto di voto. Una situazione di disparità di condizioni che andrebbe risolta senza perdere tempo inutile, per implementare su una base comune le politiche sociali volte all’inserimento degli extracomunitari. Ma il tema giace inopinatamente nei cassetti, ogni volta che si programmano nuovi vertici e conferenze eurocomunitarie: come sappiamo, gli attuali suoi leader da tempo hanno messo in stand-by il “problema”. L’analisi svolta dalla Caritas offre al riguardo un’utile traccia: riconoscere gli immigrati come nuovi cittadini, attori a pieno titolo della società, non solo come lavoratori ma anche come soggetti della produzione sociale. Approdo peraltro che non si può misconoscere loro se l’Unione Europea ambisce ad essere un’area politica protagonista del XXI secolo. Dati alla mano, la fotografia “scattata” dal libro contiene anche un secco monito: ripensare la cittadinanza al fine di riconoscerla come categoria storicamente situata e in continua evoluzione. Non dovrebbero sussistere dubbi – si sostiene a nostro parere correttamente – sull’utilità del diritto di voto esteso agli immigrati lavoratori e residenti nell’Unione Europea. Non si tratterebbe solo di un segnale di civiltà, come spesso viene affermato (con il rischio di derubricare questa decisione a mera sottolineatura valoriale, cioè simbolica e quindi tutto sommato non necessaria); va inteso invece come un elemento facilitatore per una integrazione “naturale”, come è già accaduto negli Stati Uniti d’America. La mancanza del diritto di voto non è compensata da una maggiore facilità di accesso alla cittadinanza, alla quale, peraltro, non tutti i residenti stranieri sono interessati. Il voto agli stranieri è esplicitamente previsto in diversi testi normativi, anche internazionali. La Convenzione di Strasburgo del 1992 prevede sia l’attribuzione del diritto di voto, sia la costituzione di organi consultivi o l’attuazione di altre disposizioni a livello istituzionale, proprio per un’adeguata rappresentanza dei residenti stranieri nelle collettività locali. È una possibilità già pensata più di vent’anni fa per arrivare gradualmente a una società più partecipata. Questa è la sfida del nostro tempo alla quale l’Europa è chiamata a dare una concreta risposta: sarà in grado di procedere velocemente alle sue riforme strutturali, da troppo tempo disattese, includendo anche il diritto di voto agli immigrati regolari?
(articolo tratto dalla rubrica ‘Der punkt’ - ‘Il punto’ del settimanale bilingue ‘Bolzano’)