Il Prof. Giuliano Pisapia, è parlamentare del Partito della Rifondazione Comunista alla Camera dei Deputati e stimatissimo avvocato penalista.

Prof. Pisapia, che cosa significa ‘dignità della vita umana’?
“Il concetto di dignità è soggettivo, in quanto comprende un insieme di diritti e di valori che mutano a seconda dell’evoluzione della personalità dell’individuo e della trasformazione della società in cui vive; è relativo, dato che ciò che può essere considerato ‘indegno’ per qualcuno, per altri può essere espressione del massimo di dignità. Si pensi alla povertà: condizioni di vita che, nel mondo occidentale, sono considerate ‘indegne’, possono, in altri paesi del mondo, rappresentare una condizione di privilegio. Dignità significa rispetto delle opinioni e delle valutazioni diverse dalle proprie e, quindi, libertà, per il singolo di auto-determinarsi in scelte fondamentali come quelle che riguardano la sua vita e la sua morte. Vita e ‘vita umana’ sono concetti distinti. La vita meramente vegetativa non può essere considerata vita umana, dal momento che quest’ultima ricomprende necessariamente una complessità di elementi quali sensazioni, emozioni, spiritualità e dignità. Per alcuni, una vita ‘di sopravvivenza’ è una vita senza dignità, ma c’è anche chi la pensa diversamente. Dato che il concetto di vita dignitosa e di morte dignitosa è diverso per ciascuno di noi, ognuno dovrebbe avere la possibilità di decidere – soprattutto in presenza di una malattia terminale, di una situazione di grande sofferenza e della impossibilità di autodeterminazione – ciò che ritiene dignitoso e quali siano invece le condizioni di sopravvivenza che non ritiene più tali”.

E qual è il compito della medicina in questo senso?
“La medicina e la ricerca scientifica devo continuare la lotta contro ogni malattia e cercare di offrire al malato una vita, appunto, ‘dignitosa’. Nel caso di un individuo, affetto da patologie non curabili e pervenute alla fase terminale, credo sia giusto riconoscere la facoltà di scegliere le modalità della fine della propria esistenza, cui deve correlarsi il diritto a non essere sottoposti a trattamenti sanitari senza il proprio consenso. Principio sancito non solo dall’art. 32 della Costituzione, ma anche dal codice di deontologia medica e dalla Convenzione Europea per la protezione dei diritti umani e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina (sottoscritta ad Oviedo il 4.4.97 e ratificata dal nostro Paese con la legge 28.3.2001, n. 154)”.

Qual è la compatibilità tra volontà del singolo e dovere del medico? Esiste un limite preciso e, se sì, dove si pone?
“E’ fondamentale che a nessuno sia imposta una decisione non voluta. Si deve salvaguardare la libertà del paziente e l’autonomia del medico. Al singolo spetta la facoltà di autodeterminarsi in scelte fondamentali quali quelle che riguardano la sua vita e la sua morte, fatto salvo, ovviamente, il rispetto dei diritti dei terzi e delle esigenze di tutela della collettività. Al medico, ovviamente, spetta la facoltà di esercitare la professione, rispettando il proprio sentire ed i propri canoni di etica e morale, diversi da medico a medico. L’indagine, svolta nei venti centri di terapia intensiva di Milano tramite questionari a risposta anonima, che verte sul comportamento dei medici rianimatori chiamati ad assistere persone in condizioni estremamente critiche, ha portato ai seguenti risultati: 4% dei rianimatori praticherebbe la cosiddetta ‘eutanasia attiva’, somministrando farmaci letali ai pazienti terminali che dipendono solo da un respiratore, mentre l’80 % avrebbe ammesso di aver attuato almeno una volta quella passiva, cioè di aver ‘staccato la spina del respiratore’, spesso senza consultare i pazienti (notizia riportata da “Il Corriere della Sera” del 12.11.2002). Alcuni medici hanno da anni avanzato proposte finalizzate alla legalizzazione dell’eutanasia. Anche il codice di deontologia medica, nella versione del 1998, dopo aver precisato, all’art. 30, il diritto del malato a ricevere la più idonea informazione da parte del medico, afferma, all’art. 34, che il “medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e della indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona”. Anche la giurisprudenza italiana ha ribadito che il rifiuto del paziente ad un trattamento terapeutico deve essere rispettato dal medico, indipendentemente dalla valutazione di quest’ultimo sull’utilità della somministrazione della terapia. Se è ormai quasi unanimemente riconosciuto che, quanto meno, il medico deve fare di tutto e usare i farmaci necessari per lenire il dolore, ben più problematica e delicata è la questione relativa al ruolo del medico, soprattutto se si parla di ‘eutanasia passiva’. Il medico deve avere il diritto a non compiere quell’atto estremo che è ‘staccare la spina’: in caso di legalizzazione dell’eutanasia, ogni medico deve avere il diritto alla “obiezione di coscienza”. Non solo, ma, più in generale, sono dell’opinione che non debba essere il medico, salvo una sua precisa scelta e convinzione, ad avere un comportamento attivo. Il diretto interessato, però, deve essere messo nelle condizioni di poterlo fare e, se si trova in condizioni psico-fisiche che non glielo permettono, dovrebbe essere una persona che condivide quella scelta, indicata dallo stesso malato o a lui particolarmente vicina. Perché ciò possa avvenire, però, è indispensabile eliminare la sanzione penale e dare la possibilità concreta di poter avere, in presenza di condizioni tassative e inequivoche, quelle sostanze che possano permettere una “dolce morte” per porre fine a una “crudele sopravvivenza”.

Quale validità formale-giuridica può avere il testamento di vita se la vita non è un bene disponibile?
“Il diritto alla vita e l’indisponibilità del bene ‘vita umana’ non possono tradursi in una coercizione a vivere una ‘non vita’ ovvero una ‘vita disumana’. Occorrerebbe, per rispondere a questa domanda, stabilire che cosa è la vita. Il concetto di vita, quale essenza complessa, non può non avere connotazioni di carattere etico, filosofico e religioso. In altre parole, la vita è indisponibile, ma la situazione del malato terminale sottoposto a sofferenze non più sopportabili è, secondo alcuni, una ‘non vita’. Lo Stato ha l’obbligo di tutelare la vita come patrimonio individuale e quindi la vita di chi intende non essere privato, o limitato, nella sua scelta e nel suo diritto di vivere. L’indisponibilità della vita è sancita dal codice civile, il diritto ad una vita dignitosa è tutelato dalla Costituzione. Il tema è delicato. Il testamento biologico, più che un mezzo con cui si dispone genericamente della propria vita, va interpretato come un mezzo per scegliere le modalità della morte ormai certamente imminente. Scegliere, in caso di sofferenza insopportabile, sopravvivenza che mortifica la dignità personale, malattia terminale irreversibile, tra morte ‘naturale’ o morte ‘dolce’…”.

Il testamento biologico è, come molti sostengono, una via per riaprire il dibattito sull’eutanasia o, per così dire, il passaggio non è obbligato? Dire sì al testamento biologico significa un sì anche per l’eutanasia o esiste (se c’è, qual è) una differenza?
“Testamento biologico ed eutanasia sono concetti distinti. Il testamento biologico è una dichiarazione di ‘fine del trattamento’ e, quindi, rappresenta la volontà di interrompere le cure mediche cui si è sottoposti. Nella proposta di legge a mia firma e sottoscritta da altri deputati di diversi gruppi parlamentari, il testamento biologico è una dichiarazione scritta, revocabile in qualsiasi momento e da riproporre periodicamente, in cui si attesta la propria decisione - in caso di malattia terminale, incurabile, di una vita non più dignitosa, in presenza di un dolore e di un’angoscia insopportabili – di scegliere la morte e di essere aiutato ad uscire da una situazione di ‘non vita’ o di ‘vita solo apparente’. L’attestazione – cioè il Testamento Biologico - deve essere fatta con atto pubblico davanti a testimoni che garantiscano la totale e libera volontà e consapevolezza del richiedente; la verifica, da parte di una équipe di due medici e uno psicologo dello stato terminale della malattia, del livello insopportabile del dolore, di una situazione di ‘non dignità’ della sopravvivenza. Il testamento biologico comporta la non punibilità dell’art. 579 del codice penale – omicidio del consenziente – che oggi invece è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Diversa sarebbe la legalizzazione dell’eutanasia, ovvero della interruzione volontaria della propria vita, indipendentemente dalla situazione concreta e sulla base della volontà del singolo, senza vincoli. In tal caso, non si avrebbe ‘non punibilità’ bensì ‘l’abolizione’ del reato di cui all’art. 579 c.p. e si stabilirebbe il principio che il “consenso dell’avente diritto” – che può essere anche momentaneo e determinato da circostanze del tutto contingenti – sarebbe sufficiente ad evitare la sanzione penale. Il testamento biologico consente di operare l’eutanasia solo in presenza di numerosi presupposti, quali quelli sopra accennati, che garantiscano non solo che non vi siano abusi, ma anche che una simile condotta sia accertata e verificata da circostanze oggettive e da valutazioni scientifiche”.

Il sì al testamento biologico implica necessariamente una riformulazione dell’idea di vita e, insieme, un ripensare l’idea e la pratica della medicina?
“L’idea di vita, come abbiamo detto, è complessa, soggettiva, relativa e, quindi, non potrà mai trovare una ‘formulazione’ definitiva che corrisponda al sentire di ciascuno. Il testamento biologico può contribuire a promuovere ed arricchire il dibattito in modo che l’argomento della “dolce morte” venga affrontato, trattato e ampliato e non circoscritto nell’ambito del proprio credo ideologico o confessionale. Solo sensibilizzando la società si può arrivare a sensibilizzare il singolo individuo, così che, se lo vuole, potrà discuterne apertamente non solo in incontri pubblici ma anche in famiglia, con gli amici, con il proprio medico e maturare una presa di posizione consapevole. Analogamente, non credo che implichi un ripensamento della pratica della medicina perché il medico, prima di essere medico, è un uomo, con i propri sentimenti e la propria coscienza. Il Comitato nazionale di bioetica ha presentato un documento, firmato da 54 saggi, che andrà ora all’esame del Parlamento. Importante sarebbe, ripeto, promuovere un dibattito nel quale si affrontino tutte le implicazioni di carattere etico, filosofico e religioso dell’interruzione volontaria della sopravvivenza, senza tentare di dare una risposta a dilemmi etici ma tentando, attraverso lo strumento normativo, di dare una risposta concreta a coloro che, affetti da un male incurabile, da una sofferenza insopportabile, da una sopravvivenza che li priva di ogni dignità e li rende del tutto dipendenti da altri, desiderano interrompere la loro ‘non vita’…”.

Può esistere un confine etico o politico alla scienza?
“Certo. Un confine etico esiste a tutto! Questo confine, nella scienza medica, è stato ampiamente superato in tante occasioni. Quando, tanto per fare un esempio, si sono sperimentati vaccini su bambini del sud del mondo utilizzati come vere e proprie cavie, quando si sono studiati gli effetti dei farmaci anti-retro-virali su donne africane per poi lasciarle morire senza cure e farmaci; quando si parla di clonazione umana o di arrivare ad un momento in cui si potrà decidere se concepire un bambino biondo o bruno; alto o basso; con gli occhi marroni o blu. Quando, invece, la scienza medica, si interessa di tematiche come l’eutanasia, si pone un obiettivo nobile per garantire a tutti, appunto, una ‘vita dignitosa’. La scienza, concludendo, è fatta di persone e sono queste persone, medici, studiosi, professionisti o semplici cittadini che devono porsi, ciascuno, il confine etico dettato dalla propria coscienza. Una scelta che rispetti la volontà del malato terminale e non contrasti con la propria coscienza professionale non può e non deve essere punita con il carcere, così come oggi previsto dal nostro ordinamento. In altri Paesi, tra i quali Svizzera, Inghilterra e Olanda, si è trovato un giusto equilibrio: è importante che, al di là dei dibattiti e dei confronti scientifici e culturali, si incominci ad avviare in Parlamento, su questo delicato tema, un confronto senza pregiudizi ideologici”.

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