Con Giulio Andreotti scompare un altro pezzo della nostra Storia: inutile negarlo. Una romanità ‘epigrammatica’, figlia dell’arte di arrangiarsi, del sapersi barcamenare in ogni situazione. Un’abilità figlia di quella Roma nata a pochi chilometri dal mare che il fato volle imperatrice del Mediterraneo. Per obbedire al proprio destino e non rimanere vittima della Storia stessa, che tante civiltà ha sepolto tra i millenni, i Romani dovettero inventarsi un modo per combattere come se fossero sulla terraferma. Era scomodo dover assaltare le imbarcazioni cartaginesi, soprattutto con il mare in tempesta: meglio, perciò, agganciarle e trascinarle a sé, costringendo i nemici a combattere sopra larghe passerelle di legno come in un’arena. Il retaggio antropologico più antico di Roma è esattamente questo: la pigrizia creativa, l’indolenza cinica, l’amore verso tutto ciò che è comodo o può risultare funzionale in specifici frangenti. Il tema della bugia che realizza la verità o della verità pericolosa, quella verità stesa lì per terra proprio sulle strade di Roma, rapiva Andreotti asceticamente, fino a portarlo a teorizzare un qualunquismo colto, un individualismo ironico e surreale. Il suo pensiero l’ho sempre giudicato un ‘conservatorismo sornione’. Ma tale definizione fornisce una categorizzazione troppo intellettuale, filologica, tardo-marxista. Il suo legame di fondo rimaneva quello con una romanità antica, una ‘caciara controllata’. Era questa la sua contraddizione: stare al contempo dalla parte di se stesso e contro se stesso. Nel corso della mia carriera ho incontrato Giulio Andreotti diverse volte. Impossibile che ciò non accadesse, vivendo a Roma: egli era praticamente ovunque. Sostenne per decenni l’attività editoriale di alcuni miei parenti. E voleva a tutti i costi ‘infilare’ mio padre presso la Zecca dello Stato per via della sua nota onestà morale, poiché Andreotti sapeva sempre tutto di tutti. In cambio, chiedeva un’appartenenza strettissima, incondizionata, quasi fideistica alla Dc. E mio padre, un socialista ‘nenniano’ divenuto critico anche nei confronti del Psi per la svolta ‘centrista’ degli anni ’60, si lasciò sfuggire quell’occasione. Negli anni più recenti cominciarono una serie di nostri incontri assolutamente casuali, dovuti ai più svariati motivi: una consegna di agende poco prima delle feste natalizie; alcuni scambi ripetuti di libri (che talvolta smarriva…); qualche convegno in cui mi capitò di ‘incrociarlo’ nei primi anni di esercizio della professione. Gli piaceva la mia risata, che un giorno definì “gutturale, inconfondibile: quando la sento arrivare dalla platea”, mi disse, “la riconosco immediatamente, pur mescolata alle altre. E capisco di aver fatto ‘centro’. Lei ha una gran bella voce, dotata di un timbro incisivo”, concluse, “faccia la radio: glielo consiglio da collega…”. Dopo la caduta della Giunta guidata da Franco Carraro piazzò a Roma un paio di sindaci ‘suoi’: Giubilo e Signorello, se non ricordo male. Ma tutto dipendeva da lui, dai concerti rock ai teatri all’aperto. Il ritratto di Andreotti fornito da Sorrentino ne ‘il Divo’, in verità è ‘caricato’, dipinto addosso all’attore Toni Servillo al fine di utilizzarne le grandi capacità interpretative. Una trovata interessante, artisticamente. Ma non del tutto aderente alla realtà. Era più vicina al vero l’imitazione che ne faceva Oreste Lionello al ‘Bagaglino’, poiché in fondo era l’allegria la sua vera religione, non un cattolicesimo millenarista. Come disse una volta Montanelli: “De Gasperi parlava con Dio, Andreotti col prete…”. Un romano furbo e colto, con la risposta sempre pronta, di grande spessore, benché perennemente in malafede, stracolmo di ‘retropensieri’ su tutto e tutti. Era abilissimo a nascondere e a dissimulare, ma sapeva sempre rimanere negli ambiti del rispetto umano. “La smentita è una notizia data due volte”; “il potere logora chi non ce l’ha”; “a pensar male si fa peccato, ma raramente si sbaglia”: sono rimasti memorabili alcuni suoi ‘ipse dixit’. L’ultimo di questi mi confessò di averlo ‘rubato’ a Togliatti, “un ‘latinista’ eccelso”, aggiunse, immergendosi tra i ricordi. E’ francamente impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sanno cosa abbia significato Giulio Andreotti per la Storia della politica italiana. Non era un nemico. Non per lo meno nell’accezione strettamente militare di questo termine. La politica che egli praticava era una sorta di ‘arte della collocazione’ finalizzata a disinnescare, o a far ‘brillare’, tutta una serie di ‘ordigni’ che potevano esplodere in maniera deflagrante. Immaginiamo un agile plotone di artificieri e pensiamo a qualcuno cui affidarne il comando: chi meglio di lui? Soprattutto questo è stato Andreotti: ha militato in un Partito, la Democrazia cristiana, facendo in modo che essa rimanesse sempre al centro del potere, restringendo in tal modo il campo di ogni ‘spartizione’. Perché per riuscire a perpetuare il potere democristiano era necessario aumentare di molto la possibilità che quello stesso potere, prima o poi, tornasse a lui: il potere per il potere. E’ anche fondata l’ipotesi dell’esistenza di un cosiddetto ‘cerchio magico’, benché si trattasse di un cerchio all’interno di numerosi altri cerchi, che finivano col formare una vera e propria ‘ragnatela’ di conoscenze e rapporti: un sistema sofisticato di contatti e relazioni interpersonali che precorreva Facebook. Ecco perché non fu mai segretario nazionale della Dc: lui non credeva nelle progettualità collettive. E non riteneva nemmeno così necessario guidare un Partito: gli bastava farne semplicemente parte, galleggiandone all’interno. Con tale metodo era riuscito, nel corso dei lunghi decenni della prima Repubblica, a trasformare se stesso da mera ‘scialuppa di salvataggio’ di De Gasperi a vero e proprio ‘incrociatore’ della politica. La Dc, infatti, non era una ‘balena bianca’, come spesso si pensa o si dice secondo un’ottica eccessivamente ‘distante’, ma più semplicemente una vera e propria ‘flotta’ di esponenti, secondo un sistema di ‘navigazione’ del Partito ispirata da una matrice fortemente ‘marinaresca’, dall’idea di “un’Italia sul mare”. In quest’ultima citazione sono nascosti, sintetizzati assieme, svariati messaggi ‘cifrati’. Me ne scuso con i lettori, ma più di questo non posso dire, se non che tale ‘disegno’ possedeva una serie di presupposti politici, militari e di politica internazionale molto seri. Era un’idea semplice, apparentemente ‘geografica’ - ma in realtà ‘geostrategica’ - del nostro Paese, da cui sono discese, per lunghissimi decenni, tutta una serie di conseguenze militari, storiche e politiche ben precise all’interno di un mondo in ‘stallo’ tra due blocchi contrapposti, tra due modelli economici ben distinti tra loro. La contraddizione di fondo di Andreotti non è mai stata quella di essere un uomo di ‘raccordo’ tra potere mafioso e potere politico, come se ciò fosse dettato da implicazioni esclusivamente ‘interne’: è assai provinciale pensarla così. Tutto discendeva dal modo in cui gli americani avevano liberato la Sicilia e il resto del Paese nel 1943-‘45. Era perciò necessario che qualcuno ricoprisse una serie di ruoli, che incarnasse in sé un ‘progetto’ di sviluppo già deciso ‘a monte’. Per quanto ‘malsano’, si trattava di un disegno reale, effettivo, dotato di conseguenze concrete. Il modello di sviluppo imposto all’Italia doveva essere funzionale a contrastare le grandi ideologie di massa del novecento, di destra o di sinistra che fossero. La centralità della Dc rappresentava, in sostanza, la centralità stessa degli americani, l’architrave di riferimento principale di tutta la nostra politica estera dopo i goffi sogni di potenza ‘mussoliniani’. Non c’era nient’altro che questo dietro Andreotti, oltre al Vaticano naturalmente (il quale ha svolto anch’esso un preciso ruolo all’interno di questo disegno). Andreotti era il riferimento di tutta una serie di gruppi di interesse messi lì appositamente per tenere sotto controllo l’Italia, impedendole di andare a ‘sbattere’ almeno fino a quando non avesse appreso da sola come stare nel novero delle potenze occidentali. Tutto discendeva da qui: l’utilizzo dei servizi, del denaro pubblico, la mafia, Gladio, la massoneria deviata, il Vaticano, i Paesi arabi. Tutto e il contrario di tutto, il male al servizio del bene. Ripeto: era un sistema ‘malsano’, un enigma dentro a un enigma, un metodo di mantenimento dell’Italia a mera provincia dell’impero americano di cui, per coloro che possiedono gli elementi intellettuali e culturali corretti per giudicare, non è difficile individuarne la provenienza. Nessun segreto particolare emergerà dalla morte di Andreotti, se non qualche dettaglio, qualche episodio, qualche aneddoto in più. Anche perché, molte cose egli stesso le aveva già ‘sparse’ qua e là nei suoi libri, assai ben scritti, debbo dire. La guerra contro il cinema, i registi e gli artisti in generale fu, a mio parere, l’aspetto culturalmente più grave e nefasto della lotta intestina avvenuta in Italia, da lui condotta in prima persona per lungo tempo. E’ questa la ‘colpa’ che personalmente non gli potrò mai perdonare: l’Italia sarebbe un Paese più povero, oggi, ma con princìpi più saldi, non così perennemente a rischio di affondare nel qualunquismo di massa, non così ipocrita e ‘doppio’, non così fragile nelle proprie radici identitarie. E tuttavia, qualcuno questo ‘giuoco di doppiezze’ lo ha accettato, a suo tempo. Con egual cinismo.
Direttore responsabile dei siti www.laici.it e www.periodicoitalianomagazine.it