Vittorio LussanaAlla fine della seconda guerra mondiale, pochi nutrivano fiducia nella resurrezione dei socialisti: letteralmente polverizzato dalle scissioni del 1921 e del 1924, ricomposto nel 1930 in seguito a una ‘ricucitura’, ordita da Pietro Nenni e tesa a generare alcuni nuclei antifascisti attivi sul campo, sottoposto a una durissima concorrenza da parte dei comunisti - che hanno sempre mirato a svuotarlo di ogni istanza autonoma - e dal movimento ‘Giustizia e Libertà’ - fortemente impegnato a essiccarne le radici teoriche - il Partito fondato da Treves e Turati sembrava una forza ormai debole, spossata, abulica. Le altre formazioni politiche italiane ponevano in discussione alcune sue evidenti responsabilità storiche: un riformismo soporifero, un massimalismo grossolano e attendista che, nella sostanza, non era riuscito a sbarrare la strada al fascismo. Inoltre, durante la lotta partigiana di liberazione, il suo ruolo militare era apparso fortemente lacunoso, specie se paragonato a quello di comunisti e azionisti. Tuttavia, il Psiup ebbe la fortuna di trovare, alla fine della guerra, l’uomo giusto al momento giusto: Pietro Nenni, un romagnolo sanguigno, dotato di un’oratoria irruente. Egli aveva compreso come i socialisti italiani dovessero uscire dallo stato comatoso in cui versavano presentandosi, per un verso, come il Partito della Repubblica, cavalcando cioè l’esigenza di un referendum popolare per il cambiamento della forma di Governo del Paese; per un altro, in quanto formazione amichevolmente critica nei confronti dei ‘cugini’ comunisti; per un altro ancora, dedicandosi alla cosiddetta politique d’abord “nella coscienza” - come era solito affermare lo stesso Nenni - “che ogni problema sociale diviene problema politico e che ogni problema economico diviene un problema di potere”. In una prima fase, le cose non sembrarono funzionare a dovere: il patto di unità d’azione stretto con i comunisti nel 1934, denunciato subito dopo l’accordo Molotov – von Ribbentrop e rinegoziato alla fine di settembre del 1943, conteneva obbligazioni sottintese e inespresse. Tant’è vero che il ‘Partito della Repubblica’ dovette rassegnarsi a entrare nel secondo governo Badoglio al seguito di Togliatti e riuscì a malapena a rimanere fuori dal governo Bonomi, verso il quale propose, comunque, “un’opposizione costruttiva”. La politique d’abord di Nenni si ridusse a qualche scambio di idee con il Partito d’Azione attorno a un programma di transizione condensato in tre punti: Repubblica, riforma agraria, nazionalizzazione dei trust. Un piano accolto trionfalmente da Ugo La Malfa che, tuttavia, ebbe vita brevissima, poiché Togliatti comprese immediatamente come il ‘centrismo’ del futuro leader del Pri puntasse esplicitamente a far saltare il patto di unità d’azione tra Pci e Psiup. Date simili premesse, anche i più ottimisti attesero con molta apprensione l’esito delle elezioni per l’Assemblea costituente del 2 giugno 1946, tenutesi in concomitanza con il referendum istituzionale tra Monarchia e Repubblica. E invece, inaspettato, arrivò il successo: 20,7% dei voti, 115 seggi e i comunisti sorpassati di due punti. Cos’era successo? Come si era potuto verificare un simile ‘miracolo’? Semplicemente, grandi masse di italiani si erano rese conto di dover recitare un ‘heri dicebamus’, di dover riprendere un’opera interrotta con la violenza nel 1919, avevano percepito l’obbligo di riassaporare un’antica nostalgia per una tradizione di cooperazione e di buongoverno municipale. In pratica, venti anni di fascismo non erano riusciti a disperdere i frutti di un’educazione civile e morale di milioni di contadini e operai che, a dispetto di tanti errori, rappresenta da sempre il grande merito storico del riformismo italiano. In quel primo Psiup erano confluiti vari gruppi, tra cui quello appartenente alla corrente che faceva riferimento alla rivista storica del riformismo italiano, la gloriosa “Critica sociale” (Giuseppe Modigliani, Giuseppe Faravelli, Ugo Mondolfo, Alessandro Schiavi). Ma non era esattamente a costoro che l’elettorato italiano si era rivolto: molti avevano voluto semplicemente ribadire la propria fedeltà a un antifascismo ‘antico’, antropologicamente impregnato di austerità laburista e di umanitarismo religioso. Tuttavia, nonostante l’elettorato fosse prevalentemente riformista, sia pure in un’accezione ‘culturale’ prima ancora che politica, quadri e dirigenti del Partito erano, in larga maggioranza, ‘rivoluzionari’. Gli esponenti di maggior spessore, ognuno dei quali possedeva un proprio seguito personale che ha sempre contribuito a una planimetria correntizia ‘interna’ a dir poco ‘labirintica’, professavano una visione ‘ripensata’ del marxismo nel tentativo di smussarne l’immagine ‘determinista’ senza sacrificarne lo spirito egualitario. Lo stesso Pietro Nenni era un massimalista classico, mentre Lelio Basso del marxismo conosceva rivoli e rigagnoli. Poi c’era Rodolfo Morandi, il quale propugnava l’obiettivo di un controllo operaio sulle fabbriche attraverso lo strumento del Consigli di gestione. Infine, vi era un’ala destra, capeggiata da Giuseppe Saragat. Ma anche Saragat non si discostava più di tanto dal pensiero del filosofo di Treviri, pur sposandone un’elegante versione umanista, assai vicina a quella dei neo-kantiani dei primi del novecento. Divergenze di siffatta natura non erano da sottostimare: si trattava di differenziazioni che, a seconda della fase politica, a volte si ingarbugliavano, altre volte si confondevano, altre volte ancora scomparivano del tutto, in continui ribaltamenti di alleanze e di scontri tra la corrente ‘autonomista’ e quella ‘fusionista’ che hanno sempre scosso la vita interna dei socialisti italiani. Prendiamo Rodolfo Morandi: dopo il 1949 si adattò a uno ‘stalinismo di ferro’ teso a difendere strenuamente una classe operaia assediata da ogni parte, mentre negli anni ’46 - ’48 non era affatto tenero con l’idea di un ‘blocco unico’ delle sinistre, poiché il sistema politico italiano, secondo lui, aveva bisogno “di essere elasticizzato, non di venir irrigidito attraverso una polarizzazione selvaggia di forze contrapposte, in un contesto internazionale già difficilissimo”. Prendiamo, poi, Lelio Basso: dopo la sconfitta del Fronte democratico popolare alle elezioni politiche del 18 aprile 1948 aveva iniziato a teorizzare una diffusione di contropoteri nella società civile. Ma, durante gli anni che avevano preceduto quella fondamentale consultazione elettorale era stato, invece, un ‘fusionista’ intransigente, pur nella consapevolezza che la forte impronta burocratica dei comunisti avrebbe potuto generare una riunificazione totalmente ‘verticistica’ dei due spezzoni storici della sinistra italiana. Vi era poi il gruppo di ‘Iniziativa socialista’, che faceva capo a Matteo Matteotti, Mario Zagari e Lucio Libertini, i quali erano soliti cadere nella tendenza ‘schizoide’ di invertire le parti tra destra e sinistra, a seconda che si discutesse di linea politica generale o di unità di classe con i comunisti. Il programma di questa ‘corrente’, in verità, era incardinato sui principi del neutralismo tra i due blocchi contrapposti in politica estera – quello sovietico e quello atlantico - e sul federalismo da attuare in politica interna. Ma Matteotti e i suoi puntarono in seguito le proprie ‘carte’ intorno a una caratterizzazione del Partito “nella sua individualità rivoluzionaria, legata a quell’Internazionale dei lavoratori che è strumento di solidarietà di tutto il proletariato mondiale”. Tali concetti sembravano avvicinare molto questo gruppo alla sinistra di Lelio Basso, dalla quale, però, si discostavano nei rimproveri al Pci per la sua natura antidemocratica e per i giorni di ‘buon vicinato’ con la monarchia sabauda. Tali critiche, alla fine, portarono questo gruppo a convergere con quello di ‘Critica sociale’, in un’alleanza che venne formalizzata a Firenze nel corso del primo Congresso nazionale successivo alla liberazione. Proprio a Firenze, infatti, accadde qualcosa di estremamente importante. Le diffidenze reciproche, le forzature polemiche e la cattiva fede degli epiteti scagliati a destra e a manca, oltre a rinverdire l’immagine del ‘circo Barnum’ di ‘gramsciana’ memoria, crearono uno scenario da psicodramma, che già preparava l’imminente rottura: la famosa scissione di Palazzo Barberini. Tale evento, infatti, non si concretizzò in quanto conseguenza delle interferenze finanziarie provenienti da alcuni sindacalisti italo-americani facenti capo alla Amalgamated Clothing Workers - i quali si sarebbero accontentati di un semplice spostamento a destra di tutto il Partito - bensì a causa della presunzione ‘saragattiana’ di volersi impossessare della ‘testa’ di tutto il movimento socialista italiano. In pratica, a Firenze gli autonomisti, seppur di poco, avevano vinto il Congresso. In ragione di ciò, Saragat, al fine di garantirsi da ogni ‘imboscata’, propose, alla chiusura dell’assise, il rinnovo del patto di unità d’azione con i comunisti, un tatticismo che all’interno del suo disegno doveva servire a tranquillizzare il Pci e a prendere tempo per costruire, all’interno del Partito, la propria proposta politica più autentica: quella di una forte formazione socialdemocratica da porre al centro degli schieramenti nazionali e in grado di egemonizzare l’intera area laica. Se a ciò aggiungiamo che alle porte del Psiup cominciavano a bussare gli esuli del Partito d’Azione, ormai in via di scioglimento, verrebbe da pensare che tutto si stesse muovendo in favore di questo preciso progetto. Ma purtroppo, l’analisi dello stato interno del Partito divenne talmente nevrotica da causare veri e propri gesti inconsulti, che finirono col portare alla sconfitta sia Nenni, sia lo stesso Saragat, il quale si vedrà ‘imbalsamato’ nel ruolo di vicepresidente del Consiglio di Governi moderati come quelli di Giuseppe Pella e Mario Scelba, ‘impaludando’ gli scissionisti in uno ‘stagno centrista’ dal quale non riuscirono più a emergere.

La scissione di palazzo Barberini
Intorno a questa vicenda ho dibattuto personalmente, in passato, con gli storici Scoppola e Ventrone. In pratica, sulla questione della sconfitta delle sinistre alle elezioni del 18 aprile del 1948, Scoppola e studiosi a lui vicini hanno sempre sostenuto la teoria di un flusso ‘sotterraneo’ di voti che, storicamente, si sarebbe sempre alternato, a seconda delle distinte fasi politiche, tra il mondo cattolico e quello comunista. Personalmente, non ho mai ritenuto più di tanto valida tale valutazione storiografica. O, quantomeno, non in relazione a quanto avvenuto in ‘quella’ consultazione: l’influenza del comunismo cattolico e del riformismo cristiano-sociale nei travasi di voti tra Dc e Pci, nel 1948 rappresentava un fenomeno ancora meramente ‘in nuce’, mentre decisive risultarono, invece, ai fini della clamorosa vittoria della Dc, proprio le decisioni assunte da Giuseppe Saragat, il quale indebolì fortemente tutto il mondo socialista. Riassumendo, i fatti che si succedettero furono i seguenti: nel novembre del 1946, Saragat rilasciò un’intervista al quotidiano ‘Il Giornale d’Italia’ nella quale imputò alla corrente ‘fusionista’ del Psiup “battuta a Firenze e ripescata per amore dell’unità di Partito” di “tramare sott’acqua per rovesciare i rapporti di forza interni”. La replica di Nenni non si fece attendere: “Il compagno Saragat non trova niente di meglio da fare che concedere un’intervista che si risolve in un atto di sfiducia completa nella politica del Partito socialista e in un indiretto incitamento agli elettori a negargli la fiducia”. A quel punto, la scissione era già consumata. E tutto ciò che poi accadde durante il Congresso straordinario del gennaio del 1947 rappresentò solamente un amaro atto di ratifica. Forse, Saragat aveva iniziato a temere che il suo sogno socialdemocratico potesse essere colonizzato dai comunisti; forse, sperò in un’adesione massiccia alle sue idee da parte della base del Partito, cosa che in realtà non avvenne, poiché il Psli riscosse uno scarsissimo successo tra gli iscritti e i lavoratori sindacalizzati; forse, Saragat si era lasciato prendere la mano dall’oltranzismo dei ‘giovani turchi’ della corrente di ‘Iniziativa’; o forse ancora, egli aveva vagheggiato Governi di centro-sinistra ‘avant la lettre’ che gli avrebbero conferito la rappresentanza dell’intero movimento operaio senza chiudere brutalmente la porta in faccia a ‘nenniani’ e comunisti. Fatto sta che un simile modo di agire risultò in clamorosa antitesi con quanto diagnosticato da egli stesso solamente una anno prima, nel corso dell’assise congressuale fiorentina. E che tale decisione finì col risucchiare il Psli – che in seguito divenne Psdi - nell’area ‘centrista’ italiana.

Autolesionismo socialista
Intanto, nel Psiup, tornato a chiamarsi Psi, il contraccolpo per la spaccatura rappresentò un improvviso affievolimento del suo potere di contrattazione col Pci, trasformando l’esperienza della campagna elettorale della primavera del 1948 in una sorta di ‘incubo’: il Partito, infatti, riuscì a portare in parlamento solamente 39 deputati, poiché i comunisti furono, a loro volta, lestissimi nell’approfittare delle sue difficoltà al fine di confinare i candidati socialisti nelle ‘fasce basse’ delle liste del Fronte (questo dato è stato varie volte confermato da alcune pubblicazioni di Bettino Craxi, il quale ha sempre imputato al Pci la mancata elezione alla Camera del padre, l’avvocato milanese Vittorio Craxi). Ma proprio il fallimento di una politica così autolesionista offrì al gruppo dirigente uscito dalla sconfitta del 1948 l’occasione per occupare nuovi spazi che non fossero a mezzadria ideologica o a insediamento fisso, recintati cioè da una fedeltà assoluta all’ortodossia marxista. Com’era naturale, furono gli ex azionisti i più indicati a guarire il Psi dalle sue ricorrenti infermità esistenziali. Infatti, nel corso del Congresso straordinario di Genova del luglio 1948 spettò a Riccardo Lombardi esporre una nuova strategia in grado di svincolare il Partito dalle sue ‘psicotiche logomachìe’ sulla propria ragion d’essere – logiche che lo hanno spesso ‘ammanettato’ in uno sterile giuoco di ‘conventicole’ interessate esclusivamente alla conquista delle leve di comando ‘interne’ – restituendolo alla lotta politica armato di idee assai utili per la successiva maturazione democratica italiana. Attraverso una serie di suggestioni dalla chiara impronta ‘rosselliana’, Riccardo Lombardi riuscì a far intendere ai socialisti come fossero assolutamente necessari, per la ricostruzione dell’Italia, gli aiuti americani; giudicò possibile la collaborazione tra classi sociali diverse; invitò la Cgil a lasciar perdere le rivendicazioni salariali “che lasciano il tempo che trovano” per munirsi di strumenti di controllo sui piani d’investimento dei fondi Erp; convinse tutto il Psi a una neutralità sincera sul versante della politica internazionale e lo chiamò a battersi in favore di profonde riforme di struttura nel settore agrario, in quello industriale, in quello urbanistico e nell’istruzione pubblica. La vittoria divenne nettissima: ‘Riscossa socialista’, la corrente di Lombardi e Pertini, incamerò la maggioranza dei delegati isolando la sinistra interna. La partita ormai era chiusa, anche se alcune esitazioni dello stesso Lombardi impedirono un chiarimento definitivo che, probabilmente, avrebbe annientato con largo anticipo la corrente ‘frontista’, mentre altri passi falsi (la linea sostanzialmente ‘cominformista’ durante i giorni dello scisma jugoslavo operato da Tito nei confronti del blocco sovietico) minarono fortemente la credibilità interna dei neoriformisti, permettendo la rivincita di quei ‘funzionari di carriera’ che amministravano le risorse del Partito e che erano, quasi tutti, affiliati all’ala sinistra. Nel giro di un anno, perciò, tutto venne nuovamente rimesso in discussione e, già nel corso del successivo Congresso, gli ‘unitari’ ripresero facilmente il controllo della macchina partitica con il 51% dei delegati, relegando in un angolo lo stesso Lelio Basso. Si delineava, così, un’altra caratteristica ‘genetica’ del Psi: la coriacea durezza del proprio apparato interno, al quale Morandi dedicò tutte le sue energie al fine di evitare ulteriori ‘ruzzoloni’ congressuali e proteggere il Partito da ogni rischio di smembramento, da ogni incursione, da ogni tentativo di annessione. A tal proposito, si pensi che persino Pietro Nenni finì vittima di questo rigidissimo ‘apparato’, allorquando a Venezia, nel 1957, nel corso dell’assise congressuale in cui il leader romagnolo presentò la propria proposta per una nuova politica di centrosinistra, vinse il Congresso con la propria mozione ritrovandosi tuttavia in minoranza nella Direzione nazionale eletta dai delegati. In ogni caso, contrariamente a quanto spesso si crede, gli anni che vanno dal 1949 al 1953 non furono quelli di un rovinoso ‘appiattimento’ dei socialisti sui comunisti: anche grazie al dinamismo interno impresso da Nenni e Morandi, il Psi comprese la cosa più preziosa, che ha sempre rappresentato la sua più profonda essenzialità, il proprio e più autentico ‘ubi consistam’: la funzione di ‘presidio di frontiera’ lungo tutto il fianco destro del Pci, nella consapevolezza che la propria identità riformista lo trasformava in un fratello avveduto e curioso, ma non per questo dimissionario o cedevole, dei comunisti. In sostanza, si trattava di un valore culturale e identitario affermato per via di negazione – ciò che non siamo, ciò che non vogliamo – il quale, tuttavia, è sempre stato il vero punto di forza dei socialisti. Dopo il 1953, quando la dissoluzione della maggioranza centrista della Dc rese impossibile a quest’ultima di governare senza gli apporti più o meno clandestini dell’estrema destra, i primi timidi ‘vagiti’ di un’apertura a sinistra da parte dei democristiani avvertirono il Psi che il suo ruolo di ‘cerniera’ del sistema dei Partiti poteva assicurare un plusvalore politico dalle proporzioni tutt’altro che modeste. E, dopo il 1956, quando la crisi dei comunisti seguita all’invasione sovietica dell’Ungheria sprigionò energie intellettuali assopite e la ripresa della corrente autonomista riaccese prepotentemente il dibattito interno, il vecchio ‘circo Barnum’ iniziò finalmente a tramutarsi in un fervoroso laboratorio di idee per tutta la sinistra italiana: con le inchieste sul neocapitalismo di Raniero Panzieri e la sua rivista ‘Mondo operaio’; con iniziative editoriali quali ‘Ragionamenti’ e ‘Tempo presente’, che iniziarono ad aggiornare le esperienze partecipative e consiliari delle più diverse provenienze; con le nuove tesi di Riccardo Lombardi, favorevoli a una pianificazione pubblica dell’economia in grado di trasformare l’Italia in un Paese più moderno e più equo nella propria redistribuzione di ricchezza, di reddito e di potere.

Il primo centrosinistra

Il tentativo di collaborazione fra democristiani e socialisti espresse quasi tutti i Governi della Repubblica italiana dal 1962 al 1972. Essa fu l’unica formula politica progettata con una qualche chiaroveggenza, provvista di un ‘input’ strategico e preceduta da un dibattito di ragguardevole dignità culturale. Di ‘apertura a sinistra’ si era già cominciato a parlare dopo le elezioni politiche del 1953, quando l’ingresso nella maggioranza del Partito guidato da Pietro Nenni si profilò come l’unico rimedio possibile al logoramento del blocco ‘centrista’. Le mosse che vennero predisposte in vista della sua realizzazione, innanzitutto servirono a garantire l’elezione di ben tre presidenti della Repubblica (Giovanni Gronchi nel 1955, Antonio Segni nel 1962 e Giuseppe Saragat nel 1965), mentre le posizioni favorevoli o contrarie all’adozione di un simile esperimento si cristallizzarono in ‘correnti’ organizzate all’interno di tutti i Partiti. Il dibattito sulla sua opportunità e, prima ancora, sulla sua liceità, finì con lo scuotere ambienti e istituzioni che andavano dalle gerarchie ecclesiastiche alla Confindustria, dai sindacati alla stampa indipendente. Ma l’interrogativo che, a questo punto, sorge spontaneo, è il seguente: perché una formula preparata per quasi dieci anni, negoziata con estrema prudenza e uscita vittoriosa da discussioni piccole e meno piccole si rivelò, poi, particolarmente arida di frutti concreti? A un simile quesito, posso proporre tre tipi di risposte, ognuna delle quali dotata di un proprio grado di fondatezza.

Le cause del fallimento
Una prima causa del ‘mezzo fallimento’ dei primi Governi di centrosinistra fu dettata dalle straordinarie resistenze che questa formula incontrò in diversi ambienti: alti comandi dell’Esercito e dell’arma dei Carabinieri, prefetti e questori in carriera sin dal ventennio fascista e servizi di sicurezza abituati a lavorare con la Cia nell’ambito delle strutture della Nato non si persuasero praticamente mai che l’unico modo per isolare i comunisti fosse quello di offrire portafogli ministeriali ai socialisti. Una seconda causa, invece, è da ricercarsi nella reciproca ‘sordità di intenti’ che si ingenerò tra intellettuali e politici: i primi, in particolare tra i cattolici, concepirono l’accordo in un modo quasi ‘teologico’, ovvero come una grande occasione per garantire equità distributiva, uguaglianza assistenziale e giustizia tributaria a tutti i cittadini; i secondi, invece, primo fra tutti Aldo Moro, apprezzavano la formula in quanto tale per il suo intrinseco valore di ‘intesa costituente’ che, attraverso l’allargamento dell’area democratica, avrebbe posto una volta per tutte il sistema politico italiano al riparo da ogni genere di minaccia di carattere eversivo o rivoluzionario. Siro Lombardini, per esempio, nel suo pamphlet intitolato: “Fondamenti e problemi dell’economia del benessere”, aveva teorizzato un sistema di sviluppo e di modernizzazione improntato a un’etica cristiana che doveva porsi l’obiettivo di giungere a una “massimizzazione dell’utile sociale”, mentre Pasquale Saraceno, segnalando gli squilibri territoriali del nostro sistema economico, aveva criticato severamente il modello di industrializzazione che era stato imposto a causa della latitanza dei poteri pubblici, poiché esso non era riuscito “a esaudire la giusta domanda del lavoratore di essere utilizzato, ai saggi di retribuzione correnti, nel luogo in cui egli risiede e per la prestazione che egli vuole fornire”. All’opposto, Aldo Moro, nell’introdurre l’VIII Congresso nazionale della Democrazia cristiana, con modalità apparentemente ‘soporifere’ si augurò che “nessuno, nella Dc”, sostenesse “la tesi qualunquista della preminenza e sufficienza del programma”, precisando, a scanso di equivoci, che l’obiettivo dello scudocrociato doveva esser quello di “conseguire una più solida garanzia e un più completo sviluppo di uno stabile equilibrio in seno al sistema democratico italiano, cooptando senza rischi - e anzi con vantaggio - il Psi per la guida politica del Paese e per la difesa delle istituzioni”. La terza risposta al quesito sopra espresso risale, infine, allo stato di salute con il quale proprio il Psi affrontò, per la prima volta, la questione della propria coabitazione al Governo del Paese con le forze moderate. Innanzitutto, il Partito di Nenni e Lombardi era profondamente diviso tra una corrente autonomista - che propugnava un accordo a ogni costo con la Dc - e due correnti di sinistra che, invece, lo avversavano, ora in ossequio all’unità di classe con il Pci (i ‘carristi’ di Tullio Vecchietti e Dario Valori), ora in nome della disseminazione di ‘contropoteri’ nella società borghese (Lelio Basso). Pertanto, diversamente dai democristiani, che potevano tacitare le proprie opposizioni interne con incarichi di potere nel Partito o nel ‘parastato’, i socialisti non possedevano alcun mezzo di compensazione del proprio dissenso interno.

Le ‘carte’ di Nenni
Oltre a ciò, non sempre gli autonomisti interpretarono il centrosinistra nello stesso modo: secondo Pietro Nenni, si trattava di “far entrare nella stanza dei bottoni i rappresentanti delle masse popolari, allo scopo di attuare una politica delle cose”, ovvero in base a un’accezione sostanzialmente laburista dell’impegno socialista, mentre invece, per Riccardo Lombardi, occorreva procedere a una serie di “riforme di struttura (demolizione dei monopoli, nuove leggi in materia fiscale, urbanistica e scolastica) in grado di modificare i rapporti fra le classi sociali italiane, trasformando la natura stessa dello Stato”. Tale piattaforma programmatica è stata definita dallo storico Luciano Cafagna “ideologismo dimostrativo”. E si pose come disegno di fondo di tutti i provvedimenti di riforma che il Psi tentò di stimolare in cambio della propria collaborazione al Governo. Un primo cenno sui limiti di tale progettualità può innanzitutto intravedersi in relazione a quanto accadde durante la nota questione della nazionalizzazione dell’energia elettrica: quell’operazione, infatti, tramite alcuni rimborsi alle società espropriate, introdusse nei fortilizi del capitalismo italiano alcuni elementi di disordine e di ‘pirateria finanziaria’ che non riuscirono minimamente a scalfire il potere degli ex monopoli, sbarrando altresì la strada a ogni progetto di ‘azionariato diffuso’ senza nemmeno raggiungere lo scopo fondamentale di ridurre i costi energetici o di applicare tariffe differenziate, le quali avrebbero potuto favorire concretamente un equilibrato sviluppo del Paese su scala regionale, elettrificando l’agricoltura e stimolando maggiormente l’industrializzazione del Mezzogiorno. Ma anche nell’impatto sociale che ebbe un altro provvedimento assai qualificante del primo centrosinistra - l’acconto sull’imposta complementare richiesto ai possessori di azioni da una legge del dicembre del 1962, il quale si riprometteva di coprire l’onere di spesa pubblica già deliberata e di reprimere l’evasione fiscale attraverso la nominatività dei titoli - prevalsero di gran lunga effetti negativi: il fatto che ai percettori stranieri di utili azionari fosse consentito di versare un’aliquota del 15% in forma di ‘cedolare secca’ invogliò, infatti, a una precipitosa fuga di capitali verso la Svizzera e determinò un grave turbamento degli indici di borsa. Insomma, l’ideologismo dimostrativo di Lombardi finì col determinare, a un certo punto, un vero e proprio panico tra gli operatori economici e, quindi, ulteriori diffidenze verso la formula del centrosinistra, dando luogo a nuovi arroccamenti, a improvvise controffensive, a inattesi ‘agguati parlamentari’, nonché a un sostanziale abbandono di ogni seria ipotesi di creazione di un efficiente sistema di ‘welfare’.

Le ragioni di Saragat
In buona sostanza, il disegno ‘lombardiano’ si dimostrò quanto mai inadatto alla situazione, ma Nenni non aveva ‘in mano’ nient’altro. L’analisi di Giuseppe Saragat (“Qui occorrono più case, più scuole, più ospedali…”) era, in realtà, il ‘suggerimento corretto’: aveva il solo difetto di provenire da un pulpito puramente predicatorio e sterilmente saccente. Ma più gravi difetti possedeva la cultura socialista che, allora, lo dileggiò: cosa mai avrebbe potuto impedire alla finanza pubblica italiana non dissestata dei primi anni ’60 del secolo scorso di impostare una seria politica di riforme sociali? E perché mai la Dc avrebbe dovuto rifiutarla? Solamente in quel modo, la ‘svolta’ del centrosinistra avrebbe significato veramente, per gli italiani, un qualcosa di concreto. Invece, cominciarono lunghe e travagliatissime disquisizioni sulla riforma urbanistica, sulla riforma scolastica, su quella regionale e su quella sanitaria.

La nota aggiuntiva alla relazione sulla situazione economica del Paese
Il radicalismo di Lombardi, in realtà, era assai meno ‘temerario’ di quanto non apparisse a prima vista. Anche perché s’ispirava a quella specie di manifesto filosofico del centrosinistra denominato: “Nota aggiuntiva alla relazione generale sulla situazione economica del Paese per il 1961”, redatta dall’allora ministro del Bilancio, Ugo La Malfa, che sintetizzava in un atto di Governo analisi variamente motivate fondandosi sul denominatore comune del riformismo laico e di quello cattolico. Ponendo in evidenza come gli svolgimenti del mercato fossero stati corretti, nel decennio precedente, da interventi discontinui e non sempre coordinati di politica economica, i quali avevano accentuato il carattere ‘dualistico’ dell’economia italiana determinando, sotto l’aspetto territoriale, una distinta velocità di sviluppo tra Nord e Mezzogiorno, disordinati fenomeni di migrazione interna, una ‘compressione’ dei consumi più essenziali a beneficio di quelli più opulenti e, quindi, un vero e proprio ‘sfasamento’ tra l’arricchimento della società e il suo effettivo progresso sociale e civile, La Malfa aveva inteso patrocinare una programmazione dell’intervento pubblico che permettesse di superare gradualmente gli squilibri e mantenere, attraverso una razionale ‘politica dei redditi’, tassi elevati ed equilibrati di crescita anche in fasi congiunturali economicamente sfavorevoli.

L’atteggiamento delle ‘due chiese’
In ogni caso, a tale elenco di fattori ‘frenanti’ si debbono anche aggiungere le modalità, del tutto particolari, dell’opposizione comunista. Ufficialmente, il Pci denunciò nell’operazione “il tentativo di dividere la classe operaia occupandone una parte cospicua, al fine di farle accettare il sistema di produzione vigente, neutralizzandone le capacità di lotta per un autentico rinnovamento sociale”. Tuttavia, il mantenimento di molti rapporti unitari con i socialisti nelle amministrazioni di numerosi enti locali e in alcune organizzazioni di massa, dai sindacati alle cooperative, consigliava di evitare ogni scontro frontale anche allo scopo, come diceva Togliatti, “di non fare il gioco del nemico”, visto che la destra democristiana aveva cominciato a reclamare l’uscita dei socialisti dalla Cgil e il ricambio delle giunte ‘rosse’ in una logica di omologazione tra centro e periferia. Parecchi comunisti, però, iniziarono a ‘scalpitare’ non riuscendo a digerire il ‘voltafaccia’ di compagni in altre epoche ubbidienti. Ciò anche a causa della loro storica sensibilità verso la ‘questione cattolica’, che li portava al gioco, rischiosissimo, dell’amoreggiamento con le correnti democristiane - dalla ‘Sinistra di base’ di Nicola Pistelli a ‘Forze nuove’ di Carlo Donat Cattin - le quali, a loro volta, amavano scavalcare a sinistra il Psi mostrando insofferenza per la sua scarsa iniziativa. Ma una simile propensione verso i ‘giri di valzer’ poteva produrre solamente ‘danni’ per il Pci, poiché incattivì i socialisti, che non mutarono nemmeno le opinioni più discutibili, annichilendo ogni velleità di confronto dei ‘comunistelli di sagrestia’. D’altronde, l’avversione della Chiesa al centrosinistra fu compatta e senza incrinature. La natura specifica di un simile ‘veto’ si basava sull’assoluta inconciliabilità tra cattolicesimo e marxismo, anche nelle sue forme più temperate e umanistiche, giacché il socialismo rappresentava, secondo le gerarchie Vaticane, “un sistema ideologico interamente rivolto alla prassi”. Se un simile atteggiamento seminò delusione e sconforto tra le avanguardie cattoliche, che avevano scorto nell’abbraccio con i ‘diversi’ una feconda possibilità di sconfiggere l’integrismo clericale e confessionalista, esso creò imbarazzi anche nella stessa sinistra democristiana, variamente imbevuta di umanesimo religioso. Dunque, anche allorquando il centrosinistra divenne formula politica inevitabile, a garantire che nulla si sarebbe realizzato, né sul piano dei principi, né su quello dell’azione, provvidero i ‘dorotei’, una corrente ‘centrista’ della Democrazia cristiana assolutamente maestra nella mediazione, nel moderatismo empirico e nella ‘politique d’abord’.

Ora o mai più
Dunque, la vastità delle opposizioni al centrosinistra indusse i protagonisti di quell’esperimento a una fretta angosciosa, quella “dell’ora o mai più”, che li portò a mettere in moto, quasi disperatamente, una serie di tentativi di riforma di interi settori della società. Tentativi che ebbero, però, una ‘vita’ difficilissima. Fu così, per esempio, per la riforma della scuola e per quella urbanistica. La prima tra queste può esser presa come il classico esempio relativo al clima di tensione che si veniva a creare ogni qual volta sembrava esserci l’intenzione di modificare seriamente un settore pubblico qualsiasi. In un primo momento, infatti, venne posta in discussione al Senato una proposta di legge comunista, la ‘Donini – Luporini’, che i socialisti condividevano praticamente per intero. Il ministro della Pubblica istruzione, il democristiano Giuseppe Medici, decise allora di approntare un proprio progetto di legge che, tuttavia, non si discostava di molto dal vecchio disegno ‘bottaiano’. La proposta venne criticata da più parti per il proprio immobilismo e le sue evidenti incongruenze. Ma, allorquando il presidente del Senato, il liberale Cesare Merzagora, minacciò di portare in discussione il disegno di legge del Pci, il Governo si decise finalmente a dar vita a un “Medici 2” che congiunse ‘gattopardescamente’ la differenziazione degli accessi alle scuole superiori non più a una quadripartizione istituzionale dei corsi, bensì in base alle opzioni compiute dagli alunni nel secondo anno di scuola media inferiore. Nel frattempo, però, gli eventi precipitarono, con la costituzione del Governo Tambroni e i moti genovesi del luglio 1960. E della riforma scolastica non se ne parlò più sino all’insediamento di un nuovo ‘monocolore’ democristiano presieduto da Fanfani, sostenuto all’esterno dai Partiti laici e la ‘benevola’ astensione dei socialisti (il famoso Governo delle “convergenze parallele”). Il nuovo esecutivo, infatti, attraverso l’azione del ministro Giacinto Bosco tentò di aggirare ogni ostacolo sperimentando, per via amministrativa, fino a 304 cicli di scuola media inferiore unificata, presentando, al contempo, presso la VI commissione del Senato, una serie di emendamenti che accoglievano in gran parte le richieste socialiste, compresa la soppressione dei corsi post elementari. I giochi sembravano fatti. Ma la sostituzione al ministero della Pubblica Istruzione di Bosco con Luigi Gui - un ‘doroteo’ dal temperamento ‘spigoloso’ - scompigliò nuovamente gli equilibri raggiunti, inondando Palazzo Madama di emendamenti che cancellarono totalmente il lavoro del precedente ministro. Il conflitto divenne, a quel punto, apertamente politico. E venne risolto in sede di trattativa dal cosiddetto ‘compromesso Codignola – Gui’ il quale, dopo opportuna ‘blindatura’, venne portato in Aula e approvato anche se rappresentativo di una riforma ‘monca’, che non incideva più di tanto sul vecchio assetto ‘umanistico-gentiliano’ della scuola italiana. Se la riforma della scuola dell’obbligo aveva comunque trovato un compromesso faticosissimo, così non fu per numerosi altri disegni di legge: la riforma urbanistica del democristiano Fiorentino Sullo, tanto per citare un altro esempio, venne completamente insabbiata e giudicata un vero e proprio attentato alla proprietà privata. Nel 1963, il nuovo ministro dei Lavori Pubblici di un esecutivo quadripartito di centrosinistra ‘organico’, presieduto da Aldo Moro in persona, il socialista Giovanni Pieraccini, tentò di riparare alla totale mancanza di una razionale regolamentazione della materia introducendo una serie di principi legislativi fondamentali. Ma la discussione divampò nuovamente, poiché intorno alla questione degli espropri amministrativi buona parte della Dc iniziò a accusare i socialisti di tentare una sorta di “nazionalizzazione della casa”, in ciò ‘spalleggiata’ da quei settori dell’imprenditoria edile i quali, già da decenni, praticavano le più ‘sanguinarie’ speculazioni giuocando sulle ‘plusvalenze territoriali’, sull’abusivismo imperante e sulla completa assenza di ogni limitazione normativa.

Errori socialisti
Insomma, tenendo presente anche il cattivo esito della riforma sanitaria nazionale, la quale, dopo una discussione interminabile, finì con l’essere attuata solamente ‘all’alba’ del 1978 attraverso un sistema mutualistico tutto imperniato attorno a delle Unità sanitarie locali che immediatamente divennero un vero e proprio ‘terreno di caccia’ dei politici, ingenerando gravissime forme di ‘clientelismo’ a scapito di ogni competenza meritocratica e di ogni funzionalità medico-scientifica, il problema sostanziale che si stava ormai delineando era quello di un Psi che proprio non riusciva a imporre la propria volontà politica a una Dc che, al contrario, aveva dimostrato tutta la propria ‘voracità’. Il Psi di quegli anni, infatti, continuava a rimanere persuaso che il continuo rinvio di riforme essenziali per la creazione di un normalissimo sistema di ‘welfare state’ derivasse dalla propria limitata consistenza elettorale. Per di più, nel Partito di Nenni rimaneva radicata l’idea secondo la quale non fosse necessario bonificare le istituzioni, tenere aperto un contenzioso permanente con la Dc sul buon andamento della macchina pubblica e destituire i cattivi servitori dello Stato per attingere alla competenza di funzionari e di tecnici politicamente neutrali, ma ligi alla lettera allo spirito delle leggi e della Costituzione, bensì che si dovesse riformare tutto e tutti, a ogni costo, senza mai sopprimere organi, enti o magistrature inutili creandone, al contrario, delle nuove, nell’erronea convinzione che l’obiettivo di una buona efficienza dello Stato potesse essere raggiunto semplicemente incoronando qualche ‘esperto d’area’ da affiancare ai manager o ai ‘tecnici’ democristiani (come avvenne, per esempio, ai tempi della nascita dell’Enel, in cui il socialista Luigi Grassini affiancò, in qualità di vicepresidente, il democristiano Di Cagno, dando il via, di fatto, a una vera e propria ‘lottizzazione politica’ di tutti gli incarichi dei vari enti dello Stato e del parastato, compresa la Rai…).

Moro l’ipnotizzatore
Una delle accuse che i socialisti imputavano alla Dc era quella di aver affidato la gestione della nuova fase a un politico ‘ipnotico’ e particolarmente dilatorio: Aldo Moro. Moro era un pugliese originario di Maglie che abbinava una intensa vita di devozione al pessimismo antropologico del ‘credente in partibus’. La sua concezione della politica era influenzata da una religiosità pudica, mai invocata per vidimare scelte pubbliche e da un gusto tutto meridionale per le sfumature e i ‘cavilli’ del diritto. Non si sentiva attratto né dalle lusinghe dell’utopia, né dal fascino delle decisioni ‘maschie’, quanto piuttosto da un’ideale di ‘assenza di contrasti’ e di armonia tra tutti gli interessi legittimi che, di volta in volta, venivano posti sul ‘tappeto’ delle questioni da affrontare. Il suo stesso linguaggio, sintatticamente impervio, alludeva sempre senza connotare mai, proprio perché si preoccupava di non ledere, di non ferire, di non generare fratture. In effetti, Moro non era molto amato neppure all’interno del proprio Partito, poiché nei confronti della Dc egli assumeva l’atteggiamento ‘pastorale’ del curato che le impediva di infliggersi colpi con le sue stesse mani, preservandola dal ‘cannibalismo’ e da ogni genere di lacerazione interna. Questa sagacia, tuttavia, all’interno dello ‘scudocrociato’ risultava assai preziosa, poiché riusciva a risolvere situazioni alle volte decisamente ingarbugliate. Come avvenne durante l’elezione di Giuseppe Saragat alla presidenza della Repubblica, una ‘empasse’ risolta solamente al ventunesimo scrutinio delle due Camere riunite, per più di quindici giorni consecutivi, in seduta comune. Oppure, quella ingeneratasi durante la crisi del secondo Governo Rumor, nel corso della quale era intervenuto addirittura il Vaticano al fine di impedire l’approvazione della legge ‘Fortuna – Baslini’ sul divorzio. Andando ad analizzare le vicende proprio di questa storica ‘battaglia laica’, che in effetti rappresentò un ‘passaggio’ assolutamente ‘capitale’ al fine di comprendere alcuni aspetti significativi delle contingenze politiche di quell’epoca, nel febbraio del 1970, dopo la caduta del secondo Governo Rumor, le trattative tra i Partiti del centrosinistra per la costruzione di un nuovo esecutivo vennero seccamente paralizzate da un intervento del Vaticano, un’ingerenza tutta protesa a impedire l’approvazione definitiva del disegno di legge ‘Fortuna – Baslini’ sul divorzio, già munito del voto favorevole della Camera. In sostanza, il Vaticano tese a ribadire che, in quella proposta legislativa, si configurava una palese violazione dell’articolo 34 dei Patti Lateranensi laddove era espressamente prevista la competenza dei Tribunali ecclesiastici sugli annullamenti dei matrimoni celebrati secondo il rito religioso. La questione già da tempo stava surriscaldando il clima politico poiché, in una solenne dichiarazione del novembre del 1969, la Conferenza episcopale italiana (Cei) aveva fatto sapere che “in uno Stato democratico come quello italiano, nel quale i diritti della famiglia come società originaria, precedente lo Stato, vengono riconosciuti dalla Costituzione, non si può, in ogni caso, modificare la struttura fondamentale della famiglia stessa senza aver direttamente accertato il pensiero e la volontà della maggioranza del popolo, tutto ciò prescindendo dalla immodificabilità, per unilaterale iniziativa dello Stato italiano, della situazione disciplinata dall’art. 34 del Concordato”. I vescovi, in sostanza, stavano già esplicitamente pensando al referendum abrogativo. Come, del resto, gli stessi democristiani, i quali dovettero constatare l’esistenza di una larga maggioranza laica e ‘divorzista’ all’interno del Parlamento italiano. In ogni caso, il povero Rumor di certo non era un esponente politico in grado di resistere a un ‘urto frontale’ con la curia romana. Pertanto, si affrettò a rimettere il proprio incarico “ritenendo inconciliabili le posizioni della Dc con i propri alleati intorno a una questione così delicata”. La mano passò, dunque, ad Aldo Moro, il quale ribaltò immediatamente l’impostazione del problema rammentando che “Stato e Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, proponendo altresì di non immischiare il nuovo esecutivo intorno a una legge che, comunque, doveva ancora completare il proprio iter legislativo. In pratica, Moro si fece letteralmente ‘crocifiggere’ dalla stessa Dc, la quale non poteva permettersi che proprio un suo uomo la costringesse a ‘bere l’amaro calice’ della sconfitta su una questione di principio. Ma il varco per la soluzione della crisi di governo era ormai scavato. E un Mariano Rumor ormai liberato dalla responsabilità di dover interpretare la parte del ‘notaio’ di un cedimento, riuscì finalmente a raggiungere l’intesa con Pri, Psdi e Psi in base all’impegno a non ostacolare il cammino in Senato della legge ‘Fortuna – Baslini’.

Il democristiano per eccellenza
Il 1° dicembre 1970, insomma, lo strumento del divorzio entrò definitivamente all’interno dell’ordinamento giuridico italiano. Considerando quanto i comunisti si erano adoperati, nei mesi precedenti, per aiutare la Dc a circoscrivere i danni di una normativa che indispettiva anche una buona parte del proprio elettorato, il frangente politico ora esposto dimostra inequivocabilmente come Aldo Moro fosse, in quella precisa fase storica, l’uomo più influente della vita politica italiana, il personaggio che scongiurava le battaglie, che addormentava le tensioni, che ricuciva gli ‘strappi’, che non intendeva affrontare praticamente nulla ‘di petto’. Egli non era insensibile alle esigenze di ammodernamento della società civile italiana. Tuttavia, non credeva che spettasse alla politica il compito di elaborare risposte anticipate o di esercitare compiti di orientamento culturale: i Partiti, le istituzioni e lo Stato dovevano solamente ‘autenticare’ le situazioni bilanciando, pacificando e riequilibrando tutti gli interventi con estrema cautela, al fine di sottrarre la vita democratica italiana da ogni genere di frattura.

La grande vittoria dei laici
Il ‘pacchetto’ di norme sul divorzio si dimostrò tanto misurato quanto efficace: a parte i casi di completa insussistenza del vincolo matrimoniale o di vistosa penalizzazione di uno dei due coniugi, l’art. 1 consentì lo scioglimento del matrimonio “anche quando l’assenza di comunione materiale e spirituale fra marito e moglie è attestata da almeno 5 anni di separazione legale o di fatto”. Negli anni successivi, tra l’altro, non si registrò affatto la ‘marea di divorzi’ paventata dal clero. Ma i cattolici ‘integralisti’ erano rimasti ugualmente ‘inviperiti’, nella convinzione che la maggioranza del Paese fosse contraria a un provvedimento del genere. Dunque, riunitisi in un Comitato presieduto da Gabrio Lombardi, decisero di raccogliere le firme necessarie per ottenere un ricorso alle urne. Inoltre, non senza furberia, decisero di impostare una campagna tutta tesa a sottolineare i pericoli sociali e culturali che sarebbero derivati dalla ‘rottura’ del matrimonio: libero amore, depravazioni, crisi della famiglia, disorientamento dei figli con relative turbe psichiche. Lo stesso Segretario nazionale della Dc, Amintore Fanfani, iniziò a girare in lungo e in largo per l’Italia paventando grottescamente tutte le malizie erotiche e le perversioni sessuali a cui il divorzio avrebbe ‘spalancato la porta’. Tuttavia, il 12 maggio 1974, fra lo stupore generale, il 59,3% degli italiani rispose un secco 'No' all’abrogazione di quella norma. L’avvenimento fu, per una volta, effettivamente ‘storico’, poiché sancì il tramonto della cultura cattolica ufficiale che aveva dominato l’Italia per oltre 40 anni: non delle ‘culture’ cattoliche, attenzione, né tantomeno dell’adesione a una fede e a una speranza cristiana di salvezza, bensì DELL’AMBIZIONE CATTOLICA A IDENTIFICARSI CON UNA DOTTRINA MORALE ‘NATURALE’ E DELLA SUA PRETESA DI ANNETTERE UN’INTERA SOCIETA’ A UN’UNICA VISIONE DEL MONDO, A UN SOLO MODO DI INTENDERE E DI IMPOSTARE LA VITA PRIVATA, I RAPPORTI SESSUALI, I LEGAMI DI PATERNITA’ E DI MATERNITA’. Certo, per la neonata laicità italiana si trattava ancora di una modernità più patita che vissuta consapevolmente, di un’accettazione di costumi instauratisi inavvertitamente, dunque ancor priva di ogni capacità di elaborazione di autonomi e coerenti modelli di valore. Tuttavia, un primo segnale era stato dato: l’Italia voleva modernizzarsi, voleva scuotersi dal proprio ‘torpore secolare’. E la tal cosa venne poi confermata dal successivo referendum per l’abolizione della legge n. 194 sull’aborto non terapeutico, svoltosi il 17 maggio 1980, in cui il 67% degli italiani decise di confermare una normativa che poneva, per la prima volta, al centro di ogni decisione di maternità le donne italiane. E solamente esse.

Epilogo
Tra i risultati più importanti della collaborazione tra democristiani e socialisti vi furono anche l’approvazione del nuovo ‘Statuto dei lavoratori’ (legge n. 300 del 1970), il quale finalmente pose un freno alle numerose ingiustizie e ai gravissimi casi di sfruttamento della classe operaia e dei ceti meno abbienti da parte di imprenditori e datori di lavoro senza scrupoli (anche se tale normativa fu soprattutto il frutto delle durissime lotte operaie scatenatesi nel famoso ‘autunno caldo’ del 1969, nonché dell’influenza fondamentale della ‘triade’ sindacale composta da Cgil, Cisl e Uil, la quale riuscì a imporre al Governo un’impostazione finalmente ‘garantista’ dei rapporti di lavoro), insieme al varo di un nuovo ordinamento regionale. Ma, a ben vedere, tutta questa prima fase di collaborazione tra democristiani e socialisti dovette sopportare una numerosa sequenza di diffidenze reciproche e di discussioni estenuanti che, sostanzialmente, ne svuotarono il carattere di ‘svolta’, esautorando di ogni significato la portata reale dei cambiamenti posti in essere.

La crisi comunista
Alla fine di febbraio del 1956, Palmiro Togliatti aveva ricevuto un plico riservatissimo proveniente da Mosca: era il rapporto segreto di Nikita Chruscev, il quale elencava al Segretario generale del Pci una lunga lista di crimini impressionanti che avevano costellato la storia dell’Unione sovietica, nonché un’impietosa requisitoria contro Giuseppe Stalin e il suo mito. Togliatti, nei giorni successivi, fece di tutto per mostrarsi sereno. Ma, in realtà, era letteralmente fuori di sé. Infatti, la leggenda del ‘paradiso sovietico’ rappresentava un ingrediente fondamentale del consenso elettorale del Pci, uno strumento assolutamente necessario per mobilitare la ‘base’ e catturare un elettorato ‘proletario’ che poteva adattarsi a un’esclusione a tempo indeterminato dal potere solo facendo riferimento a un luogo, realmente esistente, in cui era stato possibile sopprimere la tirannia del capitale e la schiavitù del lavoro. Pertanto, quando il New York Times, qualche mese dopo, pubblicò integralmente il testo del ‘Rapporto Chruscev’, il ‘migliore’ decise di rilasciare un’intervista alla rivista culturale ‘Nuovi argomenti’, diretta da Alberto Carocci e Alberto Moravia, al fine di tranquillizzare i militanti del proprio Partito e denunciare quel “culto della personalità che, tuttavia, non ha inficiato la validità teorica del marxismo – leninismo”. Togliatti si illuse di aver chiuso la partita. Ma le cose non andarono affatto così: alla fine di giugno, gli operai polacchi della città di Poznan si sollevarono contro il Poup (Partito operaio unificato polacco) affrontando la polizia in accesi scontri che provocarono decine di morti e centinaia di feriti. Il Segretario comunista della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, rivendicò come legittime le rivendicazioni di quei lavoratori. Ma Togliatti, pochi giorni dopo, decise di prendere posizione su ‘l’Unità’ dettando un articolo nel quale attribuiva la sommossa “a un complotto del capitalismo internazionale”. L’errore fu gravissimo: pochi mesi dopo, infatti, proprio il Poup si vide costretto a richiamare alla testa del partito Wladimir Gomulka, un leader che era stato privato di ogni carica sin dal 1948 e tenuto in carcere per più di quattro anni con l’accusa di ‘titoismo’. Ma Togliatti e i suoi non ebbero nemmeno il tempo di respirare, poiché alcuni mesi dopo si rivoltarono gli ungheresi. In un primo momento, la situazione sembrò tranquillizzarsi subito grazie al leader comunista Imre Nagy, il quale decise di dar vita ad un nuovo Governo estromettendo lo spietato dittatore Rakosi. Il Pci, in un fondo non firmato su ‘l’Unità’, decise di assumere una linea imprudentemente antisommossa che parlava espressamente di “forze controrivoluzionarie”. Ma solo dopo qualche giorno, allorquando Mosca decise di riconoscere il Governo Nagy e di ritirare quei reparti meccanizzati dell’Armata rossa che già erano entrati in territorio magiaro, fu costretta a una frettolosa rettifica. Nelle settimane immediatamente successive, a Budapest la situazione esplose nuovamente in seguito a un’improvvisa sollevazione ‘libertaria’, promossa da giovani studenti e operai, che costrinse Nagy a ripudiare il Patto di Varsavia: tanto bastò ai sovietici per invadere nuovamente l’Ungheria, reprimere ‘sotto ai cingoli’ la sommossa ungherese, destituire e far impiccare Nagy, ripulire il Paese per mezzo di un drammatico ‘bagno di sangue’ che ‘l’Unità’ applaudì incondizionamente. Il segno era ormai passato: questa volta, in seno al Pci le reazioni non potevano venire a mancare: mentre il gruppo dirigente, con le sole eccezioni di Giorgio Amendola e Giuseppe Di Vittorio, fece quadrato contro la ‘canea’ della ‘stampa borghese’, ben 101 intellettuali italiani tra storici, giuristi, filosofi e giornalisti sottoscrissero un manifesto che, oltre a lamentare la decapitazione dell’Ungheria democratica, chiamò direttamente in causa i metodi ‘staliniani’ ancora in vigore nel Partito guidato da Palmiro Togliatti. Un idillio era ormai finito. E con essa anche l’ambizione di un’egemonia comunista su tutto il mondo intellettuale italiano.

I riflessi sul Psi
Le traversie del Pci avrebbero dovuto affrettare un’irreversibile conquista di autonomia da parte del Psi e l’avvento, in Italia, di quei Governi di centrosinistra lungamente annunciati negli anni precedenti. I fatti di Ungheria, in effetti, erano stati così traumatizzanti da fugare, nei socialisti, ogni dubbio residuale. E infatti, durante il Congresso di Venezia del 1957, delimitando le nuove frontiere ideologiche del proprio Partito, Pietro Nenni decise di pronunciare parole chiare e precise contro il “massimalismo comunista, troppo attraversato da suggestioni rivoluzionarie e altresì poco attento a quelle lotte quotidiane dei lavoratori tese a conquistare nuovi diritti sociali”. Ma proprio nel momento in cui l’avvicinamento tra democristiani e socialisti sembrava ineludibile, la Dc decise di temporeggiare. A rigor di logica, la nuova spaccatura creatasi a sinistra avrebbe dovuto diradare molti timori nel mondo moderato. Invece, accadde esattamente il contrario: caduta ogni diffidenza verso un Psi succubo di Mosca, l’ala destra dello ‘scudocrociato’ svelò tutta la propria indisponibilità verso le proposte programmatiche dei socialisti italiani.

I bizantinismi della Dc
In quel preciso periodo storico, il segretario della Dc era Amintore Fanfani, il dinamico leader aretino proveniente dalla vecchia ala ‘dossettiana’ del Partito. Fanfani, tuttavia, dovette prendere atto che il grosso della formazione politica che egli guidava avversava fortemente un’apertura di credito nei confronti dei socialisti. E venne costretto a barcamenarsi tra antipatiche ‘beghe’ interne. In una prima fase, fu costretto ad appoggiare un ‘gabinetto Zoli’ sostenuto da liberali e monarchici, il quale naufragò immediatamente poiché aveva ottenuto la fiducia solamente grazie ai voti del Msi. Dopodiché, anche in seguito a un discreto recupero elettorale della Dc alle elezioni politiche del 1958, Fanfani venne finalmente ‘incoronato’ dal presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, nuovo premier di un governo bicolore Dc-Psdi sostenuto dall’astensione di cinque deputati repubblicani e programmaticamente improntato verso una ‘attenzione sociale’ che avrebbe dovuto svolgere una funzione di prima moderata apertura nei confronti del Psi. Ma anche questa volta, frenato dai continui ‘mal di pancia’ interni al mondo cattolico, regolarmente bersagliato dalle critiche del Cardinale Ottaviani e perennemente ‘impallinato’ in Aula sotto i colpi dei cosiddetti ‘franchi tiratori’, già l’anno dopo Fanfani fu costretto a ‘passare la mano’. Quella crisi di Governo fu particolarmente profonda: non essendo ancora praticabile la via del centrosinistra, anche per il fatto che repubblicani e socialdemocratici erano ormai esacerbati da una Dc che scaricava le proprie incertezze interne sul Governo e sul parlamento, al povero presidente Gronchi non restò che riesumare un secondo ‘Gabinetto Segni’, il quale non poté a sua volta far nulla contro quei voti ‘neofascisti’ che, in Parlamento, gli si ‘appiccicarono’ subito addosso.

I fatti di Genova
Della grave difficoltà in cui versava il sistema dei Partiti italiani - e in particolare la Dc - era particolarmente consapevole Aldo Moro. Il quale, divenuto nuovo Segretario nazionale dello ‘scudocrociato’, riuscì a convincere la maggioranza della ‘balena bianca’ a spostarsi con tutta la propria mole su posizioni più favorevoli a un nuovo esecutivo di centrosinistra. Immediatamente, i liberali tolsero il proprio appoggio ad Antonio Segni. Ma dopo tre tentativi completamente falliti di formare un nuovo Governo sostenuto dal Psi (i socialisti pretendevano l’inserimento programmatico del loro piano di nazionalizzazione dell’energia elettrica, un’idea che incontrava fortissime resistenze in seno alla Dc), Moro decise di favorire un esecutivo Tambroni fatto a bell’apposta per dimostrare la necessità di una ormai inevitabile apertura ai socialisti. Tuttavia, la reiterazione di questi ‘Governi pendolari’ cominciava a essere un ‘giuoco’ alquanto rischioso. E infatti, Tambroni iniziò a far approvare una serie di misure di stampo ‘peronista’ tese a dimostrare come la Dc fosse in grado di sperimentare una propria politica ‘sociale’ nell’illusoria convinzione di poter realizzare una politica di centrosinistra senza il concorso dei socialisti. Ma Tambroni non aveva fatto i conti con l’Msi, il quale, consapevole di come i propri voti fossero fondamentali per garantire la vita stessa dell’esecutivo, decise di annunciare l’apertura del proprio Congresso nazionale in quel di Genova, città medaglia d’oro al valore civile per la Resistenza. La cosa suscitò una valanga di indignazione in tutto il Paese: la Cgil dichiarò lo sciopero generale, mentre nella città che aveva dato i natali a Cristoforo Colombo scoppiò il finimondo, con veri e propri focolai di guerriglia urbana. Le dimostrazioni iniziarono a diffondersi anche in altre città: a Reggio Emilia, cinque giovani dimostranti vennero assassinati dalla polizia, mentre a Roma un battaglione di cavalleria caricò la folla picchiando con solerzia tutti quanti.

La questione comunista
Si è spesso ripetuto che i fatti di Genova abbiano rappresentato uno ‘spartiacque’ decisivo della nostra Storia repubblicana. In un certo senso è così, poiché quei moti denunciarono l’esistenza di una ‘questione comunista’ che era ancor più controversa di quella socialista. Il Pci manteneva, nonostante passasse da una crisi all’altra, un proprio fortissimo consenso elettorale di base che rendeva praticamente impossibile una sua emarginazione ‘ad aeternum’. Oltretutto, aveva partecipato a pieno titolo alla stesura della Carta costituzionale, fornendo un contributo, culturale e giuridico, tutt’altro che insignificante. A Genova, nel luglio del 1960, in sostanza si scontrarono una legalità imperniata attorno a una legittimazione di fatto (la maggioranza parlamentare qualificata dai ‘missini’) e una basata su una legittimazione di diritto (le norme costituzionali violate proprio dalla composizione di quella stessa maggioranza). In ciò, Aldo Moro aveva perfettamente ragione: solo un centrosinistra vigoroso avrebbe potuto ridimensionare la forza del Pci ‘falciandogli l’erba sotto ai piedi’ e riguadagnando ai socialisti il controllo della cosiddetta ‘subcultura rossa’. Ma proprio una simile prospettiva, che avrebbe mantenuto intatto il peso elettorale complessivo della sinistra italiana - e anzi lo avrebbe addirittura aumentato - non piaceva alla Dc, poiché essa intendeva approfittare del fattore “K” al fine di avvalersi del Psi solamente come di una struttura partitica ‘di serivzio’. Furono proprio questo genere di analisi che portarono un giovane dirigente sassarese del Pci, Enrico Berlinguer, a riflettere intorno ad alcuni ‘punti in comune’ che i due più grandi Partiti di massa (Dc e Pci) possedevano, al fine di formulare un’ipotesi di stabilità governativa che fosse in grado di far superare al Paese quelle situazioni di ‘empasse’ che, di volta in volta, si venivano a generare.

Il compromesso storico
Nel decennio 1960 - ‘69, il Pci si era pertanto ritrovato all’improvviso nelle condizioni di dover reagire alla grave crisi di leadership venutasi a creare dopo la scomparsa di Togliatti (1964). Fu a quel punto che iniziò a emergere la figura di Enrico Berlinguer. Prima di diventare vicesegretario e poi segretario generale del Pci, il leader sassarese aveva studiato a fondo le caratteristiche fondamentali dei distinti elettorati comunista e democristiano. E aveva scoperto come essi non fossero così dissimili. Gli iscritti al Pci erano per il 39% operai, per il 13% braccianti, per il 16% contadini, per il 5% artigiani e commercianti, per il 3% impiegati e intellettuali, per il 13% casalinghe e per il 7% pensionati. La Dc, a sua volta, era composta per il 17% da operai, per il 5% da braccianti, per il 16% da contadini, per il 7% da artigiani e commercianti, per il 22% da impiegati, per il 25% da casalinghe e per il 6% da pensionati. Dunque, secondo Berlinguer, si trattava di due Partiti che condividevano “un’anima profondamente ed eminentemente popolare”. E su tale base iniziò a elaborare una propria teoria esposta per la prima volta nell’opuscolo: “Riflessione dopo i fatti del Cile”, pubblicato nel 1973. Berlinguer, inoltre, era un uomo ‘nuovo’, poiché non apparteneva, da un punto di vista generazionale, alla leva comunista uscita dalla Resistenza, mentre le sue origini culturali di matrice familiare erano di derivazione schiettamente laica e liberaldemocratica (il padre, Mario, era stato un dirigente del Partito sardo d’azione). Di carattere schivo, anche a causa di una certa timidezza, aveva subito anche l’influsso di periodici cattolico – comunisti quali “Dibattito politico” di Mario Melloni e Ugo Bartesaghi o come la “Rivista trimestrale” di Claudio Napoleoni e Franco Rodano. In sintesi, la tesi che egli predispose era la seguente: come la tragica fine di Salvador Allende in Cile aveva dimostrato, uno Stato capitalista non può essere governato con il 51% dei voti o, comunque, con maggioranze composite e risicate. Occorreva, dunque, una vasta confluenza di forze tra loro compatibili per il loro comune radicamento sociale – Dc, Pci e Psi – le quali sacrificassero una parte delle proprie aspirazioni (non le loro identità…) addivenendo a un ‘compromesso storico’ in nome del risanamento economico, della solidarietà nazionale e della necessità di una nuova etica civile. L’uso dell’aggettivo ‘storico’, per il Pci configurava, da una parte, l’archiviazione di molta ‘zavorra’ ideologica: dalla teoria ‘leninista’ sulla distruzione del sistema capitalistico, alla tesi ‘gramsciana’ dell’alleanza tra contadini e operai; dall’altra, sul piano strettamente politico, l’ossimoro si presentava come l’inizio di un ‘nuovo corso’ che portava a compimento la vecchia strategia ‘togliattiana’ della ‘mano tesa’ ai moderati, da tempo predisposta dall’ala intellettuale dei ‘comunisti cattolici’ che faceva riferimento ad Adriano Ossicini e, soprattutto, a Franco Rodano. Nella sua Relazione al Comitato centrale, Berlinguer lo spiegò nitidamente: “La politica del compromesso storico, da una parte è qualcosa di più di una nuova formula di Governo, dall’altra vuole essere, già oggi, l’indicazione di un metodo di azione e di rapporti politici che, mentre contribuiscono ad agevolare la soluzione di problemi urgenti, sospingono i Partiti e le forze democratiche, nelle istituzioni rappresentative, in altre sedi e in tutto il Paese, a cercare la comprensione reciproca e l’intesa”. L’ascendenza ‘rodaniana’ di queste considerazioni era più che trasparente: il disegno era praticamente quello di una società ‘organica’, in cui la mediazione e la ‘comprensione’ avrebbero dovuto annullare sistematicamente ogni conflitto, ogni problema, ogni scontro, la stessa ‘lotta di classe’…

Dissacrazione di un ossimoro
Forse poche volte, nel corso della Storia, un gruppo dirigente politico commise un errore così grave come quello che il Pci fece allorquando adottò il compromesso storico come propria ‘linea’ politica generale. E già alla fine di luglio del 1976 se ne videro le conseguenze, allorquando la Camera dei deputati incoronò Giulio Andreotti presidente del Consiglio di un Governo monocolore democristiano benevolmente atteso dal Pci, sopportato da tutti per un anno e sostituito, l’anno successivo, da un altro ‘monocolore Andreotti’ con maggioranza ‘esapartitica’, divenuta poi ‘pentapartitica’ per il ritiro dei liberali. Nella condizione di non poter disporre neppure di un sottosegretario alle Poste e costretto, per propria deliberata scelta, nelle ‘spire immobiliste’ della Dc, il Pci tentò comunque di dare la stura ai più improbabili propositi di austerità economica, a nuovi modi di governare, a nuovi modelli di sviluppo sociale. Ma dietro ognuna di queste espressioni non vi era il benché minimo progetto per un fare realistico, la benché minima idea di come quelle cose potessero essere realizzate insieme alla Dc. L’attività legislativa del triennio 1976 - 1979 fu a dir poco miserevole per quantità e qualità, poiché partorita dopo negoziati sfibranti ed estremamente nervosi, come regolarmente capita quando una parte dubita della buona fede dell’altra. Per esempio, le misure economiche di austerità non riuscirono mai ad andare oltre a una riduzione delle festività civili e religiose, a una parziale disincentivazione della scala mobile e a un blocco, anche questo assai parziale, delle indennità di buona uscita. Il tutto, in un quadro complessivo di durissima crisi fiscale, con un fabbisogno tributario pari al 13% del reddito nazionale (contro il 4,5% degli anni ’60), di gravissimo indebitamento dello Stato e di inflazione in caduta libera (nel 1980 si arrivò a sfiorare il 22%). Il che si tradusse in un obbligo a provvedimenti aspri, di totale rinuncia alla crescita. L’abbaglio di Berlinguer non fu tanto quello di aver tratteggiato una democrazia ‘consociativa’, poiché coalizioni anche molto composite avevano guidato Paesi come l’Olanda, il Belgio, l’Austria e la Germania, scossi da tensioni etniche o religiose notevolmente più acute di quelle dell’Italia, bensì nell’aver immaginato una consonanza quasi perfetta fra le diverse subculture ‘storiche’ di Dc e Pci e le domande ‘sociali’ che questi due Partiti esprimevano, nell’aver postulato una docilità naturale delle istituzioni e della burocrazia statale, nell’aver giudicato insignificante la questione degli uomini chiamati a tradurre in opere concrete ogni ipotesi politica. Invece, sia la Dc che lo stesso Pci possedevano un ‘corpo’ ben altrimenti ‘vorace’ rispetto alla frugale ‘anima popolare’ che sostenevano di ospitare, mentre gli apparati amministrativi dello Stato non si rivelarono affatto disponibili o neutrali. Con ciò, non intendo affermare che i cosiddetti Governi di ‘solidarietà nazionale’ furono totalmente ‘abulici’, quanto piuttosto che ogni provvedimento di riforma che venne varato in quella fase finì con lo scontare, nel passaggio dalla teoria all’applicazione, una serie di dirottamenti e di intralci che li fecero apparire frutto di demagogia o di prese di posizione meramente ideologiche, mentre invece si trattava di faticosi tentativi di riordinare alcuni settori della vita collettiva in cui imperavano retaggi quasi atavici di inciviltà giuridica e morale. Così avvenne, tanto per citare un caso, con la normativa n. 180 del 1978, la cosiddetta “legge Basaglia”, la quale impose la chiusura dei manicomi al fine di affidare l’assistenza psichiatrica dei malati di mente ad apposite strutture territoriali: la norma finì col venir disattesa proprio nella sua parte costruttiva e assistenziale. E la cura dei pazienti ‘cronici’ venne brutalmente ‘scaricata’ sulle famiglie, col semplice risultato di diffondere nella società un’insana nostalgia verso il manicomio, un microcosmo ‘orripilante’ che ha sempre ipocritamente permesso ai ‘sani’ di distogliere il proprio sguardo dal doloroso ‘pozzo’ delle patologie mentali. Insomma, nel giro di tre anni il tentativo del Pci finì col naufragare in un mare di tragedie legislative, umane e politiche (riforma della Rai, rapimento e uccisione di Aldo Moro, recrudescenza del fenomeno terrorista di estrema sinistra, riforma del sistema sanitario nazionale, riforma della normativa sugli affitti). E sembrava ormai annunciarsi all’orizzonte il solito destino ‘tutto italiano’ di Governi deboli e infingardi. Invece, accadde qualcosa destinato a dare, in futuro, discreti frutti: il Congresso Nazionale del Psi, svoltosi all’Hotel Midas di Roma nell’estate del 1976, decise di ‘defenestrare’, pur con rispetto e urbanità, l’ormai vecchio e stanco De Martino. E, attraverso una ‘stranissima’ alleanza tra l’ala ‘manciniana’ del Partito e la corrente di sinistra facente capo a Gianni De Michelis, venne trovato un compromesso sul nome di Benedetto Craxi, detto Bettino, a nuovo segretario nazionale. Craxi era il ‘pupillo’ di Nenni e aveva ricoperto per molti anni la carica di vicesegretario. Tuttavia, questo milanese di origine siciliana, sulle prime sembrò un esponente di seconda o, addirittura, terza fila. Nessuno comprese, in quel momento, che la sua carriera politica era stata lenta solamente perché apparteneva a una sparuta minoranza interna, quella dei socialisti liberali, che non aveva mai voluto abdicare a una propria ferrea coerenza ideale. Ma, sfoderando gli ‘artigli’ che aveva saputo tenere ben nascosti, di lì a poco Craxi avrebbe fatto irruzione come un ‘ciclone’ nelle acque ‘stagnati’ della politica italiana.

Er sor Bettino
Benedetto Craxi, detto Bettino, primogenito dell’avvocato milanese Vittorio Craxi originario di San Fratello, una località del messinese, nacque a Milano il 24 febbraio del 1934. Negli anni della II guerra mondiale, la famiglia lo iscrisse al collegio cattolico ‘Edmondo de Amicis’ di Cantù, al fine di proteggerlo dai pericoli che potevano derivare dall’attività antifascista del padre che, dopo la liberazione, assunse la carica di viceprefetto di Milano e poi quella di prefetto a Como. Nel 1953 entrò nella Federazione milanese del Psi e, quattro anni dopo, venne eletto nel Comitato centrale del Partito. Nel 1965 divenne membro della Direzione nazionale diventando, negli anni successivi, prima consigliere comunale a Sant’Angelo Lodigiano e, in seguito, assessore al comune di Milano. Alle elezioni politiche del 1968, che segnarono una grande avanzata delle sinistre, venne eletto deputato per la prima volta. Nel 1970 venne nominato vicesegretario nazionale del Psi su indicazione di Giacomo Mancini e, nel 1972, con l’elezione di Francesco De Martino a segretario nazionale del Partito, Craxi fu riconfermato nel suo ruolo con l’incarico di curare i rapporti internazionali. Proprio in questi anni iniziò a stringere stretti legami con Felipe Gonzales, Willy Brandt, Mario Soares, Francois Mitterand e Andreas Papandreou, iniziando a finanziare economicamente i Partiti socialisti messi al bando dalle dittature dei rispettivi Paesi, in particolar modo il Partito socialista spagnolo, quello greco e quello cileno di Salvador Allende, suo amico personale. Nel 1976, un fondo sull’Avanti! del segretario De Martino provocò le elezioni anticipate, che si conclusero con una crescita impressionante del Pci di Enrico Berlinguer. Per il Psi, invece, quelle consultazioni rappresentarono una pesante sconfitta: la percentuale di voti raccolta scese sotto la soglia psicologica del 10% e De Martino, che puntava a una nuova alleanza con i comunisti, fu costretto alle dimissioni. Si aprì dunque, all’interno del Psi, una grave crisi. E, nel corso di un drammatico Congresso svoltosi presso l’Hotel Midas di Roma nell’afosa estate del 1976, il Partito evitò di spaccarsi in due tronconi grazie a una ‘stranissima’ alleanza tra l’ala ‘manciniana’ e la corrente di sinistra facente capo a Gianni De Michelis, trovando un compromesso proprio sul nome di Benedetto Craxi, detto Bettino, a nuovo segretario nazionale. Sulle prime, egli apparse un esponente di seconda o, addirittura, terza fila: nessuno comprese in quel momento che la sua carriera era stata lenta solo perché apparteneva a una sparuta minoranza interna al Partito, quella dei socialisti liberali, che non aveva mai voluto abdicare a una propria ferrea coerenza ideale. Nel frattempo, alla fine del 1978, il Pci fu costretto a constatare come l’esperimento della ‘solidarietà nazionale’ si fosse rivelato insoddisfacente. Berlinguer decise allora di passare dalla formula del compromesso storico alla strategia della ‘alternativa democratica’, cioè alla costituzione di un largo fronte politico progressista in grado di mandare la Dc all’opposizione. Tuttavia, nelle more di un simile progetto diveniva giuoco forza necessario fare i conti con il Psi e con il suo nuovo leader, che stava cominciando a dimostrare tutta la propria ragguardevole ‘statura’. Craxi non aveva alcuna intenzione di lasciarsi logorare nel ruolo di comprimario della grande forza elettorale comunista e ritenne che il Pci stesse teorizzando un ‘ripiegamento operaista’ che rischiava di preludere a gravissimi errori. Cosa che regolarmente accadde durante il voto parlamentare del 12 dicembre 1978, allorquando il Pci decise di ‘affondare’ l’intera maggioranza parlamentare avversando l’adesione dell’Italia al sistema monetario europeo, nonostante Bruxelles avesse garantito alla vecchia e malandata ‘liretta’ una ‘banda di oscillazione’ più ampia di quella delle altre monete in circolazione nella Comunità economica europea, non escludendo eventuali svalutazioni concordabili. Paventando una brusca virata deflattiva e una assai poco comprensibile contrazione dell’export, Berlinguer temette che l’inserimento dell’Italia nel cosiddetto ‘serpentone monetario’ si sarebbe ripercosso sull’occupazione e sul potere di acquisto dei salari, senza tener conto del fatto che un regime di ‘cambi semifissi’ come quello ipotizzato avrebbe invece incoraggiato nuovi investimenti finanziari proprio nelle nazioni caratterizzate dalla circolazione di monete deboli. Craxi, perciò, si ritrovò nella fortunata coincidenza di poter approfittare di un gravissimo errore di politica economica dei comunisti. E iniziò a ‘svincolarsi’ definitivamente dal Pci. Nel corso di una lunghissima crisi di Governo, in cui Pertini aveva affidato a Ugo La Malfa l’incarico di riguadagnare il sostegno parlamentare comunista superando l’aut - aut di Berlinguer e Pajetta (“O al governo, o all’opposizione”) proprio tramite i ‘buoni uffici’ del Psi, Craxi rifiutò di entrare in un Governo di centrosinistra ‘aperto’ al consenso parlamentare di ‘Botteghe oscure’, rendendo ineludibile il ricorso alle urne. Il 3 giugno 1979 gli italiani si recarono, dunque, nuovamente alle urne, le quali diedero i seguenti risultati: flessione democristiana, impercettibile progresso del Psi e, soprattutto, sonora ‘batosta’ per il Pci, il quale perse, in una volta sola, 4 punti in percentuale (circa 1 milione e mezzo di voti in meno). Cosa era successo? Semplicemente, i ceti medi italiani avevano all’improvviso cambiato ‘bandiera’ e giudicato ormai concluso un ‘ciclo’ politico preciso, avendo compreso la ‘suicida’ involuzione ideologica impressa dai comunisti alla loro linea politica generale. In seguito a quella grave sconfitta comunista, la prima dopo quasi due decenni di ‘impetuose avanzate’, la Dc si accinse perciò a saldare definitivamente i conti con la fase di solidarietà nazionale e con le accuse comuniste di aver fatto di tutto pur di non mutare, nemmeno di una virgola, gli equilibri politici nel Paese. Dunque, durante il XIV Congresso dello ‘scudocrociato’ che elesse Flaminio Piccoli nuovo segretario nazionale, Carlo Donat Cattin fece approvare un asciutto ‘preambolo’ che escludeva, per il presente e per il futuro, ogni genere di collaborazione politica con la formazione guidata da Berlinguer. Nel frattempo, Craxi decise di ‘mandare in soffitta’ l’alternativa democratica e iniziò a predisporre il progetto di un polo laico-socialista forte, in grado di trattare da pari a pari con la Dc, mentre il nuovo Governo, presieduto da Arnaldo Forlani, cercò di arginare l’altissimo tasso di inflazione riducendo drasticamente il volume di circolazione monetaria, elevando così il costo del denaro. La recessione fu istantanea. E i comunisti colsero immediatamente l’occasione per rilanciare una campagna di scioperi e di malcontento che non li obbligava a particolari sforzi di fantasia. Persino il ‘dolce’ Enrico Berlinguer arrivò a patrocinare un lungo sciopero dei dipendenti Fiat di Mirafiori della durata di 35 giorni, una protesta che si concluse in modo disastroso, senza alcuna assunzione di oneri da parte dell’azienda torinese e con una profonda spaccatura tra i lavoratori, anche quelli delle qualifiche più basse, molti dei quali finirono con l’accodarsi alla ‘marcia dei 40 mila’ organizzata dai ‘colletti bianchi’ di Luigi Arisio che attraversò Torino chiedendo di rientrare in fabbrica. Tuttavia, anche Forlani durò poco, poiché nel maggio del 1981 scivolò goffamente sullo scandalo ‘P2’, una lista di 935 ‘fratelli massoni’ scoperta a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, che costrinse il Governo alle dimissioni allorquando venne provato, inoppugnabilmente, di averla tenuta nascosta per proteggere i nomi ‘scottanti’ che vi figuravano. Sembrava si fosse ormai giunti a una vera e propria crisi di regime: autosegregatisi i comunisti nella loro supponente ‘diversità’, moralmente annichilita la Dc come ‘Partito-Stato’, ancora allo stadio dei vagiti il polo laico-socialista, il sistema dei Partiti italiani barcollò paurosamente. Invece, con un ‘colpo d’ala’ dei suoi, Sandro Pertini riuscì a evitare il disastro affidando la formazione di un nuovo Governo al laico Giovanni Spadolini il quale, attraverso l’innesto dei liberali sul vecchio tronco del centrosinistra ‘organico’, riuscì a ‘mimetizzare’ un accordo tra le diverse forze politiche tra le ‘pieghe’ di un impegnativo ‘patto sociale’ per il rientro dell’inflazione e il risanamento economico. Era nato il ‘Pentapartito’, che nel giro di un anno e mezzo riuscì a convogliare le principali energie del Governo sulla mediazione tra Confindustria e sindacati per il contenimento del costo del lavoro. Sull’onda di una discreta ripresa congiunturale internazionale, si registrò ben presto qualche primo buon effetto, anche se le trattative tra le parti sociali continuarono a ristagnare e, all’interno della nuova composita maggioranza, cominciarono ad acuirsi i dissensi tra alcuni ministri. Infatti, tra i dicasteri delle Finanze e quello del Bilancio iniziarono a confrontarsi due linee economiche ben distinte: quella del socialista Rino Formica, tesa ad adottare una politica più ‘espansiva’ finalizzata ad approfittare dell’insperata situazione favorevole per ‘agganciare’ la ripresa in atto e quella, decisamente più prudente, del democristiano Beniamino Andreatta, il quale non intendeva allentare le briglie del rigore almeno sino a quando non fosse stato completato il riaggiustamento valutario e definitivamente eliminati tutti i differenziali negativi dell’Italia, in termini di produttività e di efficienza globale, rispetto agli altri Paesi della Cee. L’inconciliabilità tra le due visioni portò alla remissione dell’incarico dello stesso Giovanni Spadolini. Era ormai giunto il momento di Bettino Craxi: dotato di un ‘fiuto’ straordinario, egli si era reso conto di poter sopperire all’inconsistenza del polo laico-socialista puntando su una più che probabile punizione elettorale della Dc, eventualità che lo avrebbe reso assolutamente arbitro della costituzione di qualsiasi Governo, accrescendo di molto la sua ‘rendita di posizione’ e il suo potere di ‘interdizione’. Di conseguenza, decise di mandare rapidamente ‘a monte’ un gabinetto di ‘attesa’ del redivivo Fanfani e chiese fiducioso lo scioglimento delle Camere. Puntualmente, dopo qualche sondaggio infruttuoso, Pertini fu costretto a prendere atto della situazione. E il 26 giugno 1983 gli italiani tornarono ancora una volta al voto. Le previsioni di Craxi si avverarono pienamente: mentre i comunisti, seppur lentamente, continuavano a ‘dissanguarsi’, la Dc perse quasi 6 punti in percentuale nonostante avesse cercato di limitare i danni della sconfitta chiamando alla segreteria nazionale l’avellinese Ciriaco De Mita. Ma con quel ‘bruciante’ 32,9% tra le mani, De Mita non poteva far altro che attendere a piè fermo gli eventi. Pertanto, il 4 luglio 1983 Bettino Craxi divenne il primo socialista italiano ad assumere la carica di presidente del Consiglio dei ministri. L’uomo, mediamente, non piaceva: sembrava arrogante, cinico, iracondo, inutilmente gnomico nelle sue allocuzioni tutte pause e sentenze. Ma le cose non stavano affatto così. Craxi aveva in mente un ‘piano’ lucidissimo: restituire identità e immagine al socialismo italiano, strappandolo dall’alveo marxista per reinserirlo nella sua più autentica tradizione riformista, mutualista, laburista e umanitaria, avvilita per più di un secolo dalle ‘suggestioni ideologiche’ del socialismo cosiddetto ‘scientifico’. L’adozione del simbolo del Garofano in luogo della vecchia falce e martello alludeva a un revisionismo ideologico analogo a quello intrapreso, in Francia, da Francois Mitterrand sotto le insegne della ‘Rosa’. Mentre il nuovo ‘Vangelo socialista’, un saggio su Proudhon pubblicato da ‘l’Espresso’ nell’estate del 1978, conteneva essenzialmente una polemica antiburocratica, anticolletivista e antistatalista mirante a recidere ogni ‘cordone ombelicale’ con il comunismo, chiudendo definitivamente un’epoca in cui i contrasti tra i due Partiti operai sembrava potessero essere solamente di natura pragmatica, topologica o contingente. Progetti altrettanto precisi Craxi aveva in serbo per l’intero sistema politico italiano: unico tra i leader di Partito a coltivare un profondo orgoglio nazionale – era un appassionato collezionista di cimeli garibaldini – egli riteneva che la prassi dei ‘veti incrociati’ avesse fatto ‘strame’ di quella governabilità senza la quale ogni società moderna è destinata a deperire. E governabilità, per Craxi, era sinonimo di ricorso a poteri ‘intrinsecamente sovrani’ rispetto agli ‘unanimismi preventivi’ che derivavano dalle bizantine abitudini della nostra democrazia alle consultazioni e ai compromessi extra-istituzionali. In sostanza, il Governo non doveva preoccuparsi di guadagnare consensi, poiché ciò era compito precipuo dei singoli Partiti, bensì esercitare un’autorità che, per quanto delegata dal rapporto di fiducia parlamentare, non poteva non essere rigorosamente autonoma. La situazione complessiva di ‘bipartitismo imperfetto’ e la ‘conventio ad excludendum’ che pesava sui comunisti rendeva, inoltre, irrealistiche anche le ‘alternanze periodiche’, non solo quelle ‘di sistema’. Dunque, l’unica possibilità per un reale affrancamento dell’Italia dall’inamovibilità dell’oligarchia democristiana era quello di sottrarre ai moderati l’esclusiva del loro potere di coalizione, dando vita a meccanismi di avvicendamento interni al sistema democratico nazionale delimitati dalla Costituzione ‘materiale’. Craxi rimase a Palazzo Chigi per quattro anni, imprimendo grande efficacia e speditezza all’azione del suo Governo incurante delle accuse di ‘bonapartismo’ che gli piovevano addosso da tutte le parti. Già nell’ottobre del 1983, ignorando le querimonie dei pacifisti, inaugurò un proprio stile ‘decisionista’ dando il suo assenso all’installazione dei missili ‘Pershing’ e ‘Cruise’ presso le basi militari italiane della Nato, collocazione che era già stata concertata a Washington e a Bruxelles al fine di fronteggiare la schiacciante superiorità degli SS 20 sovietici sullo scacchiere strategico continentale. Tuttavia, egli non era affatto, come lo aveva accusato il milione di manifestanti pacifisti mobilitati dal Pci in piazza della Repubblica, a Roma, un “servo degli americani”. E lo dimostrò pienamente nell’ottobre del 1985, durante la cosiddetta ‘notte di Sigonella’, allorquando ordinò ai nostri reparti dell’Esercito di impedire che truppe scelte statunitensi, dopo aver costretto all’atterraggio un aereo che trasportava alcuni palestinesi sospettati di essere coinvolti nel dirottamento del transatlantico ‘Achille Lauro’, si impadronissero di quel gruppo di appartenenti al Fronte di liberazione della Palestina in pieno territorio italiano. Ma la vera prova del fuoco del decisionismo ‘craxiano’ è legata alle vicende della ‘notte di San Valentino’: nel 1975, Confindustria e sindacati avevano unificato il ‘punto’ dell’indennità integrativa speciale - la cosiddetta ‘scala mobile’ - a un livello talmente elevato da determinare un cospicuo aumento del costo del lavoro. Negli anni successivi, ogni proposta di ‘raffreddamento’, a onta delle ristrettezze economiche, era stata ostinatamente respinta dalle organizzazioni dei lavoratori, fino a che la Confindustria, nel 1982, si vide costretta a comunicare agli interessati l’immediata disdetta di quell’accordo. Dopo laboriosi ma inconcludenti negoziati tra le parti, il 14 febbraio 1984 Craxi decise perciò di intervenire ‘per imperio’, emanando un decreto che tagliava 4 punti di ‘contingenza’. Si trattò di un gesto che non si era mai visto: il Governo che decretava in materia di contratti! Solo la frazione comunista della Cgil si ribellò: Cisl, Uil e la minoranza socialista della Cgil approvarono e sottoscrissero. I sindacalisti comunisti, inferociti, deciso di raccogliere le firme necessarie per indire un referendum, al fine di abrogare quel decreto. Ma sbagliarono completamente i loro calcoli e, l’anno successivo, quando scattò l’appuntamento referendario, finirono col raccogliere solamente un 45,7% di ‘Sì’ contro un 54,3% di ‘No’. Il ‘raffreddamento’ della scala mobile, insieme alla nuova redditività delle imprese pubbliche, consegnate a manager di notoria esperienza come Romano Prodi e Franco Reviglio, divennero il fattore decisivo di una vera e propria ‘rinascita economica’ dell’Italia negli anni 1983 – 1990: l’inflazione venne letteralmente ‘abbattuta’ al 4,6%; il Pil iniziò a crescere del 2,5% medio annuo; la borsa di Milano aumentò la propria capitalizzazione di oltre quattro volte; e le nostre industrie tessili e meccaniche cominciarono a esportare a tutto ‘spiano’. Gli italiani, insomma, grazie all’azione del Governo Craxi tornarono all’opulenza del ‘boom’ economico, anche se le ‘tare di fondo’ del nostro ‘sistema-Paese’ non erano state eliminate. La principale di queste è sempre stata rappresentata dal nostro debito pubblico, connesso ai molti ‘sprechi clientelari’ e a un forte eccesso di spesa pensionistica e sanitaria, il cui volume, nel 1989, finì col superare l’ammontare dell’intero prodotto interno lordo. Questa vertiginosa ascesa del debito è dipesa, soprattutto, dal divorzio avvenuto tra Banca d’Italia e ministero del Tesoro, cioè dall’indisponibilità del nostro istituto di emissione a finanziare il deficit dell’erario mediante l’immissione in circolazione di nuova carta moneta. Tale indisponibilità, peraltro, intensificò la collocazione di titoli presso le banche e i risparmiatori privati, concorse a tenere sotto controllo l’inflazione e, in un certo senso, riuscì, per qualche tempo, a stabilizzare il quadro politico. Insomma, quando Bettino Craxi fu costretto a uscire di scena in seguito all’esplosione dello scandalo di Tangentopoli, il bilancio politico della sua azione era, in realtà, nettamente positivo. E gli errori più autentici da lui commessi possono essere riassunti nelle seguenti ‘disattenzioni’: a) Craxi ha lasciato crescere troppe ‘male erbe’ all’interno del proprio Partito, aveva cioè ‘disossato’ il Psi soffocando ogni istanza di dibattito interno, al fine di trasformarlo in un congegno di puro rifrangimento della propria immagine; b) per pura sbadataggine ha stretto relazioni ‘pericolose’ e protetto personaggi inqualificabili; c) ha ostentato non curanza per la ‘questione morale’, ovvero per la diffusione a ritmo esponenziale di ruberie, malversazioni, truffe ed estorsioni in cui finirono col rimanere ‘impigliati’ molti suoi compagni di Partito, ‘democristianizzati’ dalla facile imitazione di comportamenti illeciti anche per via dell’afflusso, sottoposto a scarsa sorveglianza, di arrampicatori e faccendieri su un ‘carro’ divenuto, improvvisamente, vincente; d) ha favorito il fenomeno del ‘rampantismo’, ovvero dell’ambizione disgiunta rispetto ai meriti, scambiandolo come un risvolto fisiologico della modernizzazione in atto. Questi - e solamente questi - furono gli errori politici di Bettino Craxi. Ma da qui a farne il ‘capro espiatorio’ di un sistema illecito di finanziamento dei Partiti ce ne passa, poiché egli si ritrovò semplicemente a gestire un Paese a fronte di una situazione ‘di sistema’ già avviata nei lunghi decenni di ‘gestione democristiana’ del potere. Che è quanto egli continuò a sostenere durante gli ultimi anni di esilio in Tunisia, né più e né meno: il metodo di finanziamento illecito utilizzato dai Partiti italiani, da tempo immemorabile era esattamente quello. E ciò era fatto notorio da almeno un ventennio.

La politica interna di Craxi
Uno dei principali successi dell’attività politica di Bettino Craxi fu il nuovo Concordato con la Città del Vaticano, firmato, nel 1984, a Villa Madama con il cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato della Santa Sede. Secondo gli accordi di revisione raggiunti, il cattolicesimo abbandonava lo ‘status’ giuridico di religione di Stato della Repubblica italiana e veniva abolita la ‘congrua’. Venne invece istituito il contribuito volontario dell'8 per mille per i finanziamenti alla Chiesa cattolica e alle altre religioni, mentre l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole diventò facoltativo.

Il taglio della scala mobile
Il taglio di quattro punti della scala mobile, a seguito del cosiddetto decreto di San Valentino, ottenuto con la sola concertazione della Uil e della Cisl. La Cgil abbandonò le trattative e diede vita a massicce manifestazioni di massa con la collaborazione del Pci, il quale in parlamento iniziò a praticare un duro ostruzionismo. Il decreto passò con la fiducia e il Pci si decise ad avviare una raccolta di firme che portò al referendum abrogativo della primavera del 1985. Craxi partecipò attivamente alla campagna elettorale a sostegno della propria riforma, riuscendo a ottenere, a sorpresa, un’importante vittoria.

Politica economica
Proprio negli anni dei suoi due Governi (1983 – ‘87) l’inflazione scese dal 16% al 4% e lo sviluppo economico italiano fu secondo solamente a quello del Giappone, con una crescita sostanziale dei salari di quasi due punti al di sopra dell’inflazione e il momentaneo sorpasso, in termini di reddito nazionale e pro capite, del Regno Unito, che fece avanzare l’Italia al quinto posto tra i Paesi industriali più avanzati del mondo.

Lo scontrino fiscale
La lotta all’evasione fiscale nel settore del commercio al dettaglio produsse l’introduzione obbligatoria dei registratori di cassa e dello scontrino fiscale, una riforma condotta a buon fine dall’allora ministro delle Finanze, Bruno Visentini.

Il condono
Il condono edilizio del 1985 introdusse un sistema di norme penali  assai rigorose e una diretta attribuzione di responsabilità alle amministrazioni comunali per il contrasto e la lotta  agli abusi urbanistici e ambientali.

Il decreto sulla televisione commerciale
A seguito della decisione dei pretori di Torino, Roma e Pescara di oscurare i canali televisivi della Fininvest, di proprietà di Silvio Berlusconi, il Governo Craxi varò un decreto che stabiliva la legalità delle trasmissioni dei grandi network privati. Il provvedimento suscitò aspre critiche, poiché finì col favorire espressamente il gruppo Fininvest rispetto ad altri soggetti presenti sul mercato delle frequenze nazionali di trasmissione. Il decreto fu comunque approvato dal Parlamento, anche se tramite voto di fiducia.

La Grande Riforma
Craxi tentò di approntare un grande progetto di una riforma costituzionale in senso presidenziale che desse maggiore efficienza ai poteri pubblici. Il disegno non raggiunse mai la maggioranza parlamentare necessaria a varare un primo impianto di ‘ragionamento’, ipotesi intorno alla quale, peraltro, si registravano alcune oscillazioni e diverse suggestioni nello stesso entourage ‘craxiano’ tra il modello americano puro e quello semipresidenzialista francese.

La lira pesante
Sull’ esempio di simili operazioni realizzate in passato nella Germania di Adenauer e, successivamente, in Grecia, Craxi propose la cosiddetta ‘lira pesante’, un progetto di equivalenza e di riallineamento valutario della lira da mille a uno. L’ipotesi non ebbe seguito.

La politica industriale
Durante il Congresso della Cgil del 1986, Craxi accusò l’alta oligarchia industriale dell’Italia settentrionale di “lucrare senza pagare”, ricevendo dalla platea operaia un caloroso applauso. L’impressione fu quella di una riflessione, ancora in fase di maturazione, favorevole a una redistribuzione maggiormente equilibrata della ricchezza prodotta nel Paese. Alcune manovre di disturbo provenienti dalla sinistra democristiana convinsero tuttavia il Pci a un atteggiamento attendista teso a isolare il Psi, togliendo a Craxi ogni margine di manovra a sinistra. Al contempo, Confindustria iniziò a muovere una pesante offensiva nei suoi confronti, accusandolo di chiedere agli industriali di contribuire al benessere della collettività senza che a ciò corrispondesse una condotta più rigorosa nella gestione del denaro pubblico.

I poteri forti
Assai criticati furono i tentativi del Governo Craxi in favore di una remissione del mandato di Enrico Cuccia da presidente di Mediobanca e l’opposizione alla vendita del complesso alimentare Sme, a quei tempi di proprietà dell’Istituto di ricostruzione industriale.

La politica estera
In politica estera, Craxi rimase sostanzialmente fedele alla politica atlantista, garantendo l’appoggio del Psi all’installazione in Sicilia degli ‘euro - missili’ posizionati contro l’Urss. Senza i missili Pershing e Cruise a riequilibrare il peso degli SS 20 sovietici sullo scacchiere europeo, probabilmente la guerra fredda non sarebbe stata vinta. E senza il Psi di Craxi non sarebbe stato possibile prendere quella decisione. Craxi si dimostrò dunque un protagonista determinante degli equilibri internazionali in un momento assolutamente decisivo. Tuttavia, Craxi era interiormente e personalmente sensibile ad alcune cause terzomondiste, come già aveva lasciato intendere nei primi anni ’80 decidendo il sostegno del Psi all’Argentina contro l’Inghilterra, nel corso della breve crisi delle Falkland. In seguito, stipulò accordi con i Governi di Turchia e Jugoslavia, sostenne il dittatore della Somalia, Muhammad Siad Barre, fornì ripetutamente appoggio alla causa palestinese intrecciando relazioni diplomatiche con l’Olp e il suo leader, Yasser Arafat, di cui divenne amico personale. Probabilmente, la sua riflessione di fondo era quella di trasformare il peso politico dell’Italia da ‘provincia strategica’ dell’Impero americano a media potenza del Mediterraneo. In questa direzione portano tre episodi che considero particolarmente indicativi, poiché videro l’Italia coinvolta nelle vicissitudini politiche interne di Palestina, Egitto, Libia e Tunisia.

Sigonella
L’episodio più noto è senz’altro quello di Sigonella: nel 1985, alcuni membri del Fronte di liberazione della Palestina, un movimento guerrigliero palestinese d’ispirazione marxista, s’impadronì della nave da crociera italiana ‘Achille Lauro’. Craxi e Andreotti scelsero la via della trattativa con i terroristi, decidendo di concedere a tutti i membri del commando, compreso il leader Abu Abbas, inviato da Arafat a mediare, la fuga dall’Egitto tramite trasporto aereo in cambio del rilascio dei prigionieri. Poco prima dell’arrivo di Abu Abbas sulla nave, il commando aveva però ucciso un passeggero paraplegico, Leon Klinghoffer, un ebreo di nazionalità statunitense. Il presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, venuto a conoscenza del delitto, ordinò all’aviazione della marina americana di intervenire con la forza, al fine di catturare il commando e trascinarlo presso la base Nato di Sigonella, in Sicilia. In quel momento, Abu Abbas era su un Boeing 737 con destinazione Tunisi insieme ai 4 palestinesi che avevano sequestrato l’Achille Lauro. Ma poco prima del decollo l’aereo venne affiancato da quattro F - 14 americani. Una telefonata proveniente direttamente dalla Casa Bianca chiese a Craxi di far atterrare l’aereo presso la base Nato di Sigonella. Non appena atterrato, il veivolo venne circondato da 250 uomini fra avieri di leva e carabinieri. Ma dal lato americano della base sbarcarono anche 50 teste di cuoio della Delta Force, che sfidarono i militari italiani circondandoli a loro volta, con l’intento di prelevare i palestinesi e portarli negli Stati Uniti. Craxi, però, voleva che gli uomini del commando palestinese venissero processati in Italia e ordinò ad altri carabinieri di circondare gli americani: italiani e americani giunsero quasi a contatto fisico, puntarono le armi gli uni contro gli altri iniziando a minacciarsi a vicenda. Alle 2 di notte, Reagan telefonò a Roma chiedendo personalmente la consegna dei quattro uomini, ma Craxi rifiutò risolutamente di acconsentire alla richiesta. La tensione fra Italia e Stati Uniti giunse alle ‘stelle’: il confronto tra i due Paesi non era mai stato così aspro da quando erano alleati. Nel corso della polemica telefonica, Craxi fece prevalere le ragioni della sovranità nazionale: il reato era stato commesso in territorio italiano, quindi solo la giustizia italiana aveva diritto a giudicare Abu Abbas e i membri del commando. Craxi ventilò addirittura un intervento armato dell’Esercito italiano contro gli americani, ma lo stallo venne diplomaticamente superato attraverso una prima decisione di trasferimento dei palestinesi da Sigonella a Ciampino. Nel corso del volo, un aereo americano violò lo spazio aereo italiano seguendo il veivolo con a bordo il commando palestinese fino a destinazione. Atterrati a Ciampino, i 5 palestinesi vennero presi in consegna dai Carabinieri. In seguito, Abu Abbas riuscì tuttavia a fuggire venendo catturato dalle truppe americane solo nel 2004, durante le operazioni militari immediatamente successive all’invasione dell’Irak. Quando Craxi si presentò in Senato per riferire la vicenda, ottenne quasi un’ovazione da parte dei comunisti: la sua affermazione secondo cui anche Giuseppe Mazzini era considerato, ai suoi tempi, un terrorista, mentre in realtà era a capo di un movimento di liberazione nazionale allo stesso modo di Yasser Arafat produsse l’effetto di un’immediata uscita dal Governo del Pri, fedele alleato degli Stati Uniti. Questa presa di posizione rese esplicita l’alleanza che Craxi aveva intrecciato con il leader palestinese dell’Olp, Yasser Arafat. Si trattava di una politica che si richiamava direttamente - e con piena ragione - al socialismo arabo, sulla base della convinzione che il socialismo potesse svolgere una funzione di razionalizzazione, se non di vera e propria secolarizzazione, dei precetti religiosi, civili e più propriamente politico-sociali dell’islam. Tale intuizione è da considerare un ragionamento assai prezioso, al fine di comprendere come riuscire a stemperare, oggi, le tensioni esistenti tra occidente e mondo islamico, scongiurando ogni pericolo di uno scontro tra civiltà.

Gheddafi
Nell’aprile del 1986, nel corso dell’attacco americano alla Libia nel golfo della Sirte, con conseguente bombardamento di Tripoli, il ruolo di Craxi fu reputato assai cauto, anche per la mancata reazione italiana rispetto al lancio di due missili libici su Lampedusa. Di recente, è emersa una nuova versione dei fatti, secondo i quali Craxi avrebbe addirittura avvertito Gheddafi dell’attacco, consentendogli in tal modo di salvarsi la vita. Si tratterebbe, in effetti, di una ricostruzione conforme alle posizioni del Governo italiano di quel tempo, che considerava la ritorsione americana, scaturita dalla politica di appoggio al terrorismo da parte della Libia, un atto eccessivo, che non doveva coinvolgere in nessun modo l’Italia. Tale versione appare coerente con la ricostruzione delle traiettorie dei missili lanciati verso Lampedusa dalla contraerea libica, balisticamente così mal calcolate proprio al fine di ‘coprire’ l’Italia agli occhi degli americani. Tale ricostruzione tuttavia non spiega come Craxi fosse al corrente dell’attacco con due giorni di anticipo, visto che il Governo italiano non era stato minimamente preso in considerazione nella sua preparazione. A smentire questo punto, per 22 anni ritenuto quasi incontrovertibile, è stata la testimonianza del consigliere diplomatico di Craxi a palazzo Chigi, l’Ambasciatore Antonio Badini, secondo cui Reagan inviò Vernon Walters a informare il nostro Governo dell'imminente attacco a Gheddafi. Craxi, non essendo riuscito a convincere gli americani a desistere, avrebbe perciò deciso di avvertire segretamente Gheddafi al fine di evitare un’esplosione di instabilità in un Paese islamico diretto ‘dirimpettaio’ dell'Italia.

Ben Alì
Nel novembre 1987, l’età ormai avanzata dell’allora presidente della Repubblica democratica di Tunisia, Habib Bourguiba, indusse la diplomazia francese a cercare di ‘pilotare’ un proprio candidato alla successione. Le cose andarono però diversamente, poiché la questione si ritrovò improvvisamente superata da un colpo di Stato incruento di  Zine El – Abidine Ben Alì, al quale Craxi offrì subito sostegno internazionale. Alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, un memoriale dell’ammiraglio Fulvio Martini, allora capo del Sismi, rivelò come non vi sia stato solamente il concordato riconoscimento internazionale italiano del nuovo Governo tunisino, ma che addirittura la scelta del nuovo presidente sarebbe stata preparata dall’Italia al fine di battere sul tempo Parigi.

Lo scontro con De Mita
Sempre nel 1986, il segretario della Democrazia cristiana, Ciriaco De Mita, ottenne che il secondo incarico conferito a Craxi dal nuovo presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, fosse vincolato a una informale quanto stravagante ‘staffetta’, che avrebbe dovuto vedere di lì a un anno nuovamente un democristiano alla guida del Governo per condurre a termine la legislatura. Per mesi Craxi tacque su questo accordo, per poi sconfessarlo apertamente in un’intervista a Giovanni Minoli nel corso della trasmissione ‘Mixer’. De Mita fece immediatamente cadere il Governo e, attraverso un nuovo esecutivo Fanfani, portò il Paese alle urne. Craxi rispose alla sfida dichiarando che non gli interessava guidare il Governo durante il periodo elettorale, perché “non siamo in America latina, dove è il Prefetto che decide l’esito delle elezioni in una provincia”. Tuttavia, l’esito elettorale delle politiche del 1987, che nonostante un clamoroso tracollo comunista di quasi 7 punti non portò alcun vantaggio al Psi, lasciò le cose nella più totale ambiguità. La Dc non fu più disponibile a dare la fiducia a Craxi, preferendo sostenere come presidente del Consiglio prima Giovanni Goria e, poi, lo stesso De Mita. La spiegazione che De Mita fosse il principale punto di riferimento della sinistra democristiana, ovvero dell’ala maggiormente vicina al Pci, spiega molto le ragioni di Craxi e assai poco quelle cattolico–democratiche, se non alla luce di un cervellotico tentativo democristiano, nascostamente appoggiato dal Pci per bieche motivazioni di fastidio epidermico nei confronti della ‘spregiudicatezza craxiana’, di riguadagnare una breve posizione di egemonia assai poco costruttiva rispetto all’esigenza di un nuovo equilibrio effettivamente saldo e stabile. Ma la reazione di Craxi non si fece attendere: riesumando un vecchio accordo con Arnaldo Forlani, segretamente sostenuto da Giulio Andreotti, riuscì ben presto a ‘scalzare’ De Mita dalla segreteria del Partito prima e della presidenza del Consiglio poi. Di quella fase politica, largamente dominata da quello scontro di vertice e molto poco dalle questioni concrete riguardanti gli italiani, è rimasta solamente l’approvazione di una modifica dei Regolamenti parlamentari che abolì il voto segreto nell’approvazione delle leggi di bilancio, una questione che era stata sollevata più volte da Craxi quando era presidente del Consiglio e che venne conseguita nelle more delle trattative per l’affondamento di De Mita.

Consigliere speciale all'Onu
In merito a questi anni appare necessario sottolineare i due importanti ruoli che Craxi ricoprì per conto delle Nazioni Unite: nel 1989 fu nominato rappresentante del Segretario generale dell’Onu, Peréz de Cuéllar, per i problemi dell’indebitamento dei Paesi in via di sviluppo. In seguito, venne nominato Consigliere speciale per i problemi dello sviluppo e del consolidamento della pace e della sicurezza, incarico poi rinnovatogli, nel marzo 1992, da Boutros Ghali. Particolarmente significativa risulta la relazione che Craxi presentò presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite relativa alle condizioni economiche interne del Paesi poveri, un’analisi ‘lucidamente terzomondista’, che non solo denunciava senza mezzi termini il ‘neocolonialismo’ occidentale, esclusivamente teso a sfruttare le risorse del Terzo Mondo determinando, in maniera incontrastata, anche gli andamenti dei loro mercati interni, ma reclamava con coraggio l’attivazione di innovative politiche finanziarie (nuove forme di microcredito e possibili cancellazioni, anche solo parziali ma incisive, dell’ammontare debitorio di molti Paesi in via di sviluppo) finalizzate a sostenere gruppi di potere locali in grado di contenere l’avidità delle grandi multinazionali straniere. Tutte idee che risultano oggi sorprendentemente di attualità, poiché alla base di quasi tutte le polemiche contrarie alle diverse forme di sfruttamento ricattatorio da decenni in atto nei riguardi dei Paesi poveri.   

L’Unità socialista
Dopo il 1989, in seguito alla crollo del muro di Berlino, ritenendo ormai prossima la crisi del Pci, Craxi tentò il lancio di un progetto annessionistico a sinistra con la parola d'ordine della ‘Unità socialista’, una formula che venne anche aggiunta all’interno della ‘corona’ del simbolo del Partito. Ma il rapporto coi comunisti rimaneva travagliato. L’impulso alla creazione di un grande Partito della sinistra italiana in senso occidentale risultava fortemente annessionistica, fagocitante, inglobante. Quando però il Pci di Achille Occhetto decise di trasformarsi nel Pds per costituire un’unica forza politica ispirata al riformismo socialdemocratico, la strategia di Craxi sembrò ridursi a una metodologia di forzosa annessione formale, non sempre attenta ai nuovi contenuti che venivano maturando sul fronte della secolarizzazione della società italiana: in pratica, sembrò limitarsi a ragionare semplicisticamente sulla sommatoria tra Psi, Psdi e Pds attraverso un disegno esplicitamente egemonico. C’è da dire che Craxi fu anche favorevole all’ingresso del neonato Partito democratico della sinistra nell'Internazionale socialista, di cui era Vicepresidente. E che il progetto di alcune limitatissime liste comuni, sperimentato nelle elezioni amministrative del 1992 non sembrò riscuotere molto successo.

Il CAF
In ogni caso, nel 1989 Craxi decise di giocarsi un’altra ‘partita’ delle sue contro la maggioranza della Democrazia cristiana, espressione della sinistra ‘dossettiana’: era deciso a ritornare a Palazzo Chigi e, per riuscirci, aveva bisogno di nuovi alleati che lo aiutassero a far uscire il Paese al più presto dall’impronta prettamente umanistica, culturalmente assai rispettabile ma lontana miliardi di galassie da ogni forma di concretezza, di Ciriaco De Mita. Craxi perciò chiuse un accordo di ‘ferro’ con i democristiani Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, che venne definito il CAF, dall’acronimo derivante dalle iniziali dei cognomi dei 3 leader. Al termine del LXII congresso del Partito, dopo esser stato rieletto Segretario con una maggioranza schiacciante, fece perciò approvare una mozione che suonò come un’esplicita sfiducia al Governo De Mita, che qualche tempo dopo dovette rassegnare le dimissioni da presidente del Consiglio dopo aver già perduto la Segreteria della Dc, finita nelle mani di Arnaldo Forlani. Andreotti assunse la guida di due governi che ressero, in qualche modo, fino al 1992. Furono anni di assoluto immobilismo: il Governo sembrò incapace di prendere decisioni concrete e nel Paese iniziava a diffondersi un forte malcontento, accentuato dall’esplosione dello scandalo Gladio. In questa fase, Craxi confidava apertamente in un logoramento democristiano con la prospettiva di porre definitivamente il Psi al centro della scena politica, assumendo un ruolo–guida della società italiana che, sin dal dopoguerra, era appartenuto alla Dc. Si mostrò fiducioso anche quando il referendum sulla preferenza unica, tenutosi nell’estate del 1991, una consultazione promossa da Mario Segni a cui si era opposto invitando gli italiani “ad andare al mare”, a sorpresa raccolse un vasto consenso. I progetti di Craxi non si verificarono, paradossalmente, per alcune titubanze dello stesso Craxi: nei confronti dell’evoluzione comunista non vi fu alcuna spinta a forme, anche semplicemente contingenti, di convergenza - o quantomeno di assistenza - nei confronti di un movimento che aveva perduto ogni genere di bussola ideologica di riferimento e che, dunque, si ritrovava ad attraversare un ‘deserto’ privo di ogni mappa; sul fronte moderato, sottovalutò come non fosse in atto un normale processo di logoramento dell’egemonia moderata della Dc, ma un vero e proprio tracollo del sistema politico preso nel suo complesso, poiché la recessione economica, la crisi politica della prima Repubblica, l’aumento del debito pubblico e l’affermazione delle prime liste regionali della Lega Lombarda stavano cominciando a minare alle fondamenta tutto il vecchio modo di fare politica. Infine, le inchieste giudiziarie causarono la sua caduta definitiva.

Mani pulite
La città ‘fulcro’ del potere ‘craxiano’ era Milano. Nel dicembre del 1986, alla carica di sindaco del grande capoluogo lombardo era giunto Paolo Pillitteri, cognato di Craxi, sorretto da una giunta monocolore socialista appoggiata dall’esterno da altre forze laiche e dall’astensione del Pci. Ma il 17 febbraio 1992, l’ingegnere Mario Chiesa, anch’egli esponente del Psi ed ex assessore con ambizioni parlamentari, venne arrestato e, dopo circa cinque settimane di carcere, iniziò a confessare svelando ai pubblici ministeri dell’inchiesta ‘Mani pulite’ il complesso sistema di tangenti che coinvolgeva i dirigenti milanesi del Psi, primo fra tutti proprio Paolo Pillitteri. Craxi respinse ogni accusa, sostenendo che il suo impegno per dare al Paese un Governo che affrontasse i momenti difficili non poteva essere infangato “da un mariuolo che getta un’ombra sull’immagine di un Partito, che, a Milano, non ha mai avuto un esponente condannato per reati contro la pubblica amministrazione”. Nel frattempo, a Roma il Governo Andreotti VII veniva travolto dalle ‘picconate’ del presidente Cossiga. Quest’ultimo, accogliendo le dimissioni del presidente del Consiglio, decise di indire elezioni anticipate e Craxi, fiducioso in un tracollo imminente della Dc, organizzò una massiccia campagna elettorale puntando esplicitamente alla presidenza del Consiglio. Intanto, le inchieste di Tangentopoli, guidate da Antonio Di Pietro e dagli altri magistrati della Procura di Milano, proseguivano in tutta Italia. E le elezioni del 5 e 6 aprile 1992 si tennero in un clima quasi surreale: l’intero Pentapartito crollò, iniziavano ad avanzare formazioni tradizionalmente escluse dal potere come il Msi, il Pds e la Lega Nord. Il Psi a suo modo ‘tenne botta’, passando dal 14,3 al 13,5%: “Un piccolo calo”, commentò Craxi “rispetto alla crisi dei Partiti di Governo”. In virtù di ciò, Craxi chiese dunque la guida del nuovo Governo per “portare il Paese fuori dal caos”, ma il nuovo presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, rifiutò di concedere incarichi a politici vicini agli inquisiti. Craxi fu dunque costretto a farsi da parte e, al suo posto, venne nominato Giuliano Amato. Chiarito finalmente a se stesso che la vera emergenza in atto era quella di un vero e proprio attacco al sistema dei Partiti proveniente soprattutto da ambienti ‘esterni’ alla politica, Craxi iniziò dunque ad approntare, purtroppo con grave ritardo, una prima linea difensiva, che espose per la prima volta alla Camera dei deputati il 3 luglio del 1992. In quella sede, Craxi per la prima volta affermò lucidamente che tutti i Partiti avevano bisogno di denaro per finanziare le loro attività e che, spesso, lo ricevevano illegalmente. Raggiunto dai primi avvisi di garanzia della Procura di Milano,  nell’autunno del 1992, in un corsivo pubblicato sull’Avanti! attaccò Di Pietro: “Non è tutto oro, quello che luccica: col tempo scopriremo che quel giudice di cui si sente tanto parlare è tutt’altro che l’eroe che crede la gente”. Ecco in quale clima si giunse al noto discorso del 29 aprile del 1993, attraverso il quale Craxi espresse appieno il proprio punto di vista intorno alla questione degli assai onerosi costi della politica e sui finanziamenti illeciti o provenienti da aiuti stranieri a cui tutti i Partiti, da tempo immemorabile, hanno sempre fatto ricorso.


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mario - italia - Mail - lunedi 21 gennaio 2013 19.56
peccato ci siano ancora atteggiamenti irriguardosi sulla figura di Bettino. Uomo di grande elevatura politica che ebbe il coraggio di affrontare la casta dei "partiti" e della magistratura senza esclusione di colpi. ( chi ha provato a farlo ha sempre pagato a caro prezzo) Come ebbi a intervenire in altre circostanze, la storia rileggerà come lungimirante la politica di Bettino quando una parte di generazione si silenzierà naturalmente portandosi con sè quell'invidia di non essere stati grandi come Bettino, che aveva già capito che era necessaria anche una modifica radicale della costituzione verso un sistema di tipo presidenziale europeo. Tutti sono saliti sul carro del vincitore quando Craxi portò l'Italia nei primi posti delle nazioni produttive d'Europa. Purtroppo ci salirono anche gente poco raccomandabile. Vero che mentre la sinistra è sempre riuscita a gettare il sasso e nascondere la mano (furbi), Bettino la sua mano l'ha sempre lasciata ben in vista.
ARBOR - MILANO - Mail - lunedi 21 gennaio 2013 18.13
Una bella analisi della politica italiana del dopoguerra, rovinata dal santino finale per Bettino.


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