Francesca Buffo"In ogni mio lavoro, da quando ho scelto, forsennatamente, la danza come percorso di vita, cerco di parlare delle persone, di noi, delle cose che ci muovono”. Con queste parole la coreografa Federicapaola Capecchi ha inaugurato l'apertura del III Festival della coreografia d'arte presso lo ‘Spazio Tadini’ di Milano: un'immersione di sette giorni (fino al 30 novembre 2012) nell’arte, nel teatro e nella scena. Studi coreografici ispirati alla pittura: quella di Emilio Tadini, ma anche di numerosi altri artisti di cui questo spazio culturale è da anni crocevia. L'evento è una delle ormai rare occasioni di confronto per i milanesi con il teatro-danza e la sperimentazione coreografica contemporanea. Una scelta coraggiosa, che lascia spazio ai giovani, alle avanguardie e al confronto, finalizzata a riappropriarsi della forza primaria dell'arte scenica, fortemente condizionata, nel nostro Paese, dalla cultura dell'ovvio imposta dai modelli televisivi. Un omaggio a un pubblico appassionato che, in Italia, è un po' trascurato, come ci racconta la stessa Federicapaola Capecchi.

Federicapaola Capecchi, coreografia, arte e tanta sperimentazione: il teatro-danza, in Italia, vive una fase particolare?

"Purtroppo, è un settore al quale viene lasciato poco spazio. In confronto alla dinamicità internazionale, ci rendiamo conto che si tratta di una crisi prevalentemente italiana, poiché esiste una non-cultura della danza. Del teatro, no. A teatro, si è più attenti perché gli si riconosce una sorta di patente di validità. Invece, nei confronti della danza c'è una non conoscenza e una non abitudine molto accentuata, paradossalmente proprio da parte di chi dovrebbe gestire il patrimonio culturale del nostro Paese, perché di pubblico desideroso di danza contemporanea e di teatro-danza ce n'è tantissimo. Ci sono moltissimi appassionati che, addirittura, affrontano viaggi lunghissimi per andare a vedere gli spettacoli. In Italia, la danza è trascurata in tutti i sensi: non c'è un organismo che tuteli i formatori, gli insegnanti. È di questi giorni, per esempio, un documento in cui i professionisti del settore chiedono l'adozione di un manifesto di regole da adottare per la formazione. Non è possibile che tutti indistintamente possano insegnare: insegnare danza e coreografia significa lavorare sul corpo delle persone. E ciò richiede competenze specifiche, altrimenti si possono generare danni fisici".

Da cosa nasce quest'assenza di regole?

"Si è diffusa una leggerezza rispetto al linguaggio-danza che, in realtà, è sinonimo di disinteresse. Per esempio, il teatro-danza, in Italia, è arrivato tardi. E quel che è arrivato non è la vera espressione di ciò che rappresenta veramente questa forma di espressione: c'è proprio un’incultura che sta impedendo alla danza italiana di sopravvivere”.

Quindi, anche di sperimentare?
"Certo. Basta confrontare la realtà italiana con la coreografia internazionale: all'estero, un coreografo valido può ricercare, vale la meritocrazia e, quindi, si creano occasioni di ospitalità (residenze e persone che ti supportano nel creare una tua produzione). In Italia, per avere visibilità, nell'85% dei casi, o ti affitti il teatro, oppure ti crei una serie di situazioni in cui sei poi costretto a non sopravvivere. Questo perché si è creato un meccanismo nel quale i teatri italiani non possono ospitare compagnie che non siano finanziate dal ministero. Ovvero, i teatri sovvenzionati dal ministero ospitano solo compagnie a loro volta sono finanziate dallo stesso ministero. In questo modo, l'ospitalità ha costo zero. Ma con questo sistema viene negata alle compagnie indipendenti la possibilità di un confronto effettivo con gli addetti ai lavori e con il pubblico, anche quando queste sono disposte a pagare, ad assumersi un rischio imprenditoriale con accordi sull'incasso (solitamente, una suddivisione 70/30% fra teatro e compagnie), perché il teatro non ha nessuna convenienza a correre rischi quando ha già una soluzione a costo zero a portata di mano”.

Dunque, poche occasioni anche per il pubblico?
"Difatti, una città come Milano non ha una stagione di danza: il 2012 è stato il primo anno in cui si è cominciato a vedere un po' di giornate, una dietro l'altra, dedicate alla danza. In questo mese di novembre, per esempio, grazie a Barbara Toma (direttrice artistica del PIMoff di Milano) sono andate in scena ben 15 giornate di danza. Adesso iniziamo noi allo Spazio Tadini, con sette giornate dedicate al festival della coreografia. Ma tutto questo non basta per una città che è sempre stata un punto di riferimento culturale e artistico per tutta l’Italia. Dovrebbe esserci una stagione intera, fitta di appuntamenti sia di danza, sia di prosa”.

Esistono, se non in Italia almeno in Europa, dei punti di riferimento per la formazione che ricordino la Juliet che ci racconta il cinema americano?

"Sì, in Olanda: ad Amsterdam ci sono alcuni importantissimi centri per la formazione, sia per la danza, sia per i master di coreografia. Poi ci sono anche Parigi e Bruxelles”.

L'Italia, insomma, offre proprio poco professionalmente?
"Io stessa continuo a domandarmi se non sia meglio tornare a lavorare all'estero. Anni di studio e di costante aggiornamento per poi ritrovarsi ai limiti della sopravvivenza. Ho incontrato Pina Bausch - la ‘madre’ del teatro-danza europeo - e sinceramente sono tornata nel mio Paese pensando di poter trasmettere nella formazione e negli spettacoli tutta l'esperienza professionale maturata all'estero. Invece, è stata una delusione, nonostante la gratificazione di una risposta di pubblico altissima. Non sono una coreografa di fama internazionale, ma ho sempre lavorato moltissimo e sono arrivata a debuttare al ‘VI Festival internazionale della danza contemporanea' alla Biennale di Venezia. Ho un mio pubblico, che mi segue costantemente. Tante soddisfazioni, ma il fine mese resta una lotta. In questo tipo di realtà non c'è ricerca, non ci sono opportunità residenziali. Poche opportunità e troppi limiti: massimo 35 anni, progetti con un limite di ‘tot’ minuti, che quando uno ha tanto materiale è un limite difficile da rispettare. In pratica, all'artista viene richiesto di investire tutte le proprie risorse economiche. Ma non cìè solo il dover ‘pagare per lavorare’, bensì il doversi battere quotidianamente per veder riconosciuta una reale dignità alla danza. Nella danza contemporanea non sono gli ‘stacchetti’ musicali che vediamo in televisione. Parlo di coreografie moderne, di teatro-danza. La situazione internazionale è in continuo sviluppo, ricerca e, soprattutto, consente a chi sceglie questo mestiere - e, naturalmente, a chi merita - di sviluppare un proprio linguaggio artistico-creativo”.

Anche nella danza c'è la fuga dei talenti?
"In Italia ci sono dei danzatori e dei coreografi molto validi che se avessero il giusto supporto potrebbero fare molto. I teatri dovrebbero concedere la residenza, ovvero per un tempo determinato, tre-sei mesi, al fine di provare, per formare uno staff (il designer, la costumista ecc) che supportino la realizzazione dello spettacolo”.

Tuttavia, dal punto di vista della produzione teatrale, un tale investimento ha dei i costi che poi non si recuperano, perché la crisi influisce anche sulle presenze di pubblico…
"È anche vero, però, che da troppi anni il teatro tutto (compresa la danza, quindi) non vuole comprendere come il pubblico sia composto di persone appassionate. Andare in scena vuol dire mettersi in dialogo diretto con la gente, non essere autoreferenziali. Quando l'artista ha veramente qualcosa di necessario da dire, il pubblico lo percepisce, si emoziona, si esalta. Ma questo avviene se sul palco si è messo in scena un lavoro in grado di cogliere il bagaglio immaginativo degli spettatori. Se lo spettatore si riconosce in ciò che vede, scatta qualcosa. Tu sei sul palco e lui è lì conte. Laddove manca questo meccanismo, la risposta non c'è e non ci può essere. Si è diffusa una mancanza di rispetto verso il pubblico: si tratta di persone vive, sono soggetti appassionati, non soggetti passivi ai quali puoi propinare la qualsiasi. La danza, così come la recitazione, devono comunicare qualcosa. Soprattutto in questi anni di crisi economica, la gente ha bisogno di ricominciare a 'sentirsi comunità'. E andare a teatro può essere una ‘mossa’ vincente. Non solo perché la cultura può risollevare lo spirito di un Paese, oltreché arricchirlo, ma perché può essere un momento oggettivo quotidiano nel quale ciascuno può essere in un luogo fisico in cui si vive la magia del ‘qui e ora’, riscoprendo il valore del vivere in comunità”.


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