Chiara ScattoneÈ appena uscito il decalogo del ‘Grillo-Mosé’, una lunga lista di regole rivolte agli iscritti e a tutti i ‘dummies’ che partecipano al M5S. Un elenco di precetti, obblighi e moniti che il ‘portavoce’ del movimento spesso elenca e illustra utilizzando la prima persona singolare. Grillo dunque non si placa, non ferma la sua nota irruenza verbale e, dopo aver lanciato una ‘fatwa’ contro la consigliera bolognese Federica Salsi, rea di aver partecipato al programma di Giovanni Floris, esplode in un decalogo senza appello per i suoi iscritti. La virulenza del linguaggio non trova pace: le parole sono scagliate come sassi e non lasciano alcun dubbio, né alcuna possibilità di dialogo. Già, perché è proprio il dialogo quello che sembra mancare all'interno del Movimento. Il Grillo portavoce si dimentica spesso di parlare "in nome di" e si scaglia virtualmente, quasi fosse un comizio, contro i suoi, ultimamente troppo spesso rei di non adeguarsi a regole che nel M5S avrebbero dovuto essere sostituite da modelli di non-statuto e di democrazia orizzontale. L'effetto finale è triste e lascia basiti. Perché oltre a dover rinunciare a parte dello stipendio, alla limitatezza dei mandati, all'obbligo di dimissioni in caso di elezione ad altre cariche elettive e ad altre regole condivisibili - e che probabilmente dovrebbero essere insite nell'etica stessa dell'uomo di Stato - il portavoce esplode nel rimarcare il suo secco divieto alle apparizioni nelle trasmissioni televisive. E il problema non sembra essere solo l'opinione personale di Grillo sulla pessima informazione dei ‘talk show’ italiani, quanto piuttosto il timore del confronto, del dibattito, del dialogo. I dibattiti, si sa, sono l'anima dei ‘talk’: da Lerner, Formigli o Floris gli ospiti sono necessariamente tenuti a confrontarsi gli uni con gli altri, senza una platea uniforme e uniformata al pensiero del leader al microfono. Forse, il portavoce del M5S, un po' come Berlusconi e altri leader di Partito del passato, teme il confronto con l'avversario politico, così quanto il libero arbitrio e la libera espressione dei suoi esponenti che, se ‘derazzano’, diventano oggetto di insulti e offese, scomuniche e ‘fatwa’. Un comportamento ben poco democratico per un movimento che si autoproclama portatore dei valori della democrazia diretta. Ma, allora, sarebbe bene non dimenticare la Storia del passato comune, dove il popolo, chiamato in causa troppo spesso in questo periodo, diventa cruento e crudele amministratore del bene comune, ottuso ai bisogni dello Stato, intransigente nei desideri del gruppo attraverso il quale si afferma. In una democrazia, in uno Stato che si vuole democratico, il bene comune non è il bene del popolo, ma di tutti i cittadini, siano essi popolo, borghesia o nobiltà. Sono e rimangono i cittadini gli interlocutori cui ogni portavoce politico deve rivolgersi e a cui è tenuto a chiedere il resoconto. Basta con i capi-popolo animatori del malessere becero e animale, che cova nei rancori intimi e personali di ciascuno di noi. La critica deve diventare costruttiva e servire per la crescita degli esseri umani e dello Stato, dei bisogni comuni che si fanno bisogni individuali.


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