Vittorio CraxiNella storia della Repubblica sono sempre state Milano e la Sicilia i termometri anticipatori dei cambiamenti della politica italiana. E neanche stavolta si è smentita questa tesi. La tempesta perfetta: crisi di sistema politico, crisi economica e crisi morale, passata al vaglio dell’elettorato siciliano chiamato alle urne anticipatamente per il nuovo disastro giudiziario che ha investito l’isola e che ha indicato una prospettiva e una via d’uscita che ancora non possiede il requisito di stabilità, pur indicando, quantomeno, una direzione di marcia politica, una possibile convergenza fra area moderata cattolica e riformisti replicabile per il Governo del Paese. D’altronde, le spinte prevalenti durante il mese che avevano anteceduto il voto di fine ottobre spingevano affinché prevalesse il vento dell’antipolitica e venisse decretato con il voto siciliano la fine politica dei Partiti nazionali e della incompiuta seconda Repubblica per favorire il movimento di protesta di Beppe Grillo, novello Poujade italiano. La crisi del centrodestra siciliano, acuita dallo stop and go ‘berlusconiano’ nel week-end del voto, le indecisioni nazionali dell’Udc di Casini, la battaglia non priva di colpi bassi all’interno del Pd e la delegittimazione strisciante di Sel e del Partito di Di Pietro, investito dalla stessa questione morale che egli aveva cavalcato con spregiudicatezza nell’arco del ventennio, favorivano una soluzione di azzeramento della classe politica, per stabilizzare la protesta all’interno delle istituzioni e il ceto tecnocratico-finanziario al Governo della nazione. In parte, questo disegno ha avuto nel vistoso astensionismo il suo successo e il suggello della diagnosi che la democrazia Italiana resta un malato grave dell’Unione europea, ma la possibilità di tentare una strada politica fondata sull’azione dei Partiti è forse il segnale migliore sul quale è possibile lavorare per il futuro del Paese. Intendiamoci: formule politiche astratte non fondate su una capacità di intervento concreto sulla vera e propria voragine economica dei conti pubblici, provocata nel ventennio della distrazione e disinvoltura, rischiano di respingere in parte l’ondata del malcontento. Tuttavia, ribadire come necessaria per la democrazia Italiana la capacità di investire nel rinnovamento delle istituzioni e dei Partiti, nel loro ancoraggio ai principi fondatori della nostra Carta costituzionale, allontana il rischio e lo spettro di una nuova generalizzazione scandalistica che non riorganizza la democrazia, ma la ricaccia in un vicolo cieco, decretandone la sua irriformabilità. Il voto siciliano non è una variabile indipendente, non stabilizza il Governo tecnico, non consente a nessuno di cantare vittoria anticipatamente, ma concede un anelito alla democrazia politica e alla sua possibilità di respingere l’assalto, non disinteressato, di chi ha pensato di approfittare delle debolezze italiane per dissanguare la nostra economia, di dubitare nella nostra capacità di recupero di credibilità internazionale e, in definitiva, di sfiancare tutti coloro che, nel ceto politico, non hanno smarrito il senso di responsabilità e ha allontanato la demagogia, il facile richiamo alle pulsioni deteriori del Paese per legittimare la propria azione riformatrice. Non è facile e non sarà facile: chi si è assunto l’onere di chiedere la maggioranza parlamentare per guidare l’Italia fuori dalla crisi sa che la soluzione non è dietro l’angolo. Ma perché prevalgano nel blocco politico riformista le spinte politiche meno inclini al facile consenso è necessario che forze di antica cultura politica riformista, come quella socialista e democratica, alzino il tono della propria proposta e sottolineino, una volta di più, la loro indispensabilità. Così è accaduto anche in Sicilia, dove la nostra voce non è mancata e non mancherà.




(articolo tratto da www.avantidelladomenica.it)
Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio