Abbiamo sentito molte volte il termine indulgenza, specialmente in riferimento alla dimensione confessionale del cattolicesimo, durante il giubileo, oppure quando indichiamo un atteggiamento mentale verso qualche cosa, evento o persona. Mi interessa invece, in questa sede, cercare di fare luce su questa funzione mentale, considerandola da un punto di vista più ampio e specialmente evolutivo, ossia collocandola lungo quel comune continuum di crescita che va dalla nascita alla morte di ogni individuo. Prima di continuare, dobbiamo metterci d’accordo sul significato che possiamo attribuire al termine. Per indulgenza si intende la tendenza della mente al perdono, ossia a stabilire una valutazione sugli eventi, siano essi negativi che frutto di comportamenti malvagi, secondo la volontà altrui, che è indulgente, non severa. Si tratta dunque di un particolare metodo di valutazione, una specie di risultato finale al quale perviene quella mente che, nella propria logica valutativa, pone al primo posto la tendenza alla giustificazione del negativo, di ciò che è cattivo e delle azioni malvagie umane. Non è un cosa facile da ottenere, e molto spesso si tratta anche di un atteggiamento mentale che non viene desiderato, perché si creda possa collidere con il rispetto della propria dignità, della propria identità. Per sviluppare questa eventuale metodologia valutativa circa la realtà, le cose del mondo e i comportamenti delle persone, si possono seguire, secondo me, due sostanziali percorsi: a), biografico, oppure b), fenomenologico. Posso diventare una persona poco severa, dunque tendente all’indulgenza, se, nella valutazione di un comportamento, oppure di una idea espressa, prendo in esame i motivi iniziali e il percorso che il singolo individuo ha sviluppato per poi mettere in atto quel comportamento. Valutando la sua storia personale, i suoi percorsi di vita, posso giungere a giustificare la presenza di un comportamento anche negativo, proprio perché frutto di esperienze personali traumatiche. Se adotto questo metodo, la mia valutazione indulgente può scontrarsi con quella severa di un’altra persona che, invece, sostiene il contrario. In altri termini, di fronte ad un comportamento negativo, proprio in nome dell’insegnamento che un trauma può rappresentare nell’arco di vita di una persona, si giunge ad adottare un comportamento opposto. Per esempio, se una persona vive in un ambiente dove tutti hanno la tendenza a mentire, provocando traumi affettivi nei membri di quella comunità, potrà, secondo alcuni, diventare sincera oppure confermare il comportamento diventando a sua volta menzognera. Nel primo caso, di fronte ad un comportamento sincero, l’individuo indulgente evidenzierà il mutamento di atteggiamento della persona, mentre l’individuo severo sosterrà che questo comportamento è una normale conseguenza reattiva di qualsiasi persona intelligente. Come vedete, si tratta di una valutazione decisamente opposta, da parte di due individui che adottano uno schema mentale indulgente oppure severo di giudizio. Nell’ipotesi b), quella fenomenologica, invece di valutare il percorso che una persona segue di fronte all’esecuzione di un comportamento, si valuta il fatto in sé, ossia si segue il metodo secondo cui non mi interessa sapere il perché si verificano specifiche azioni, ma valuto l’impatto che queste azioni hanno nel mondo, secondo un criterio indulgente oppure severo. In questo ultimo caso, diventa spesso molto più difficile adottare un comportamento indulgente, mentre risulta molto più facile appellarsi alla propria severità. Tale metodo di valutazione si basa sulla convinzione che se si dovessero valutare i percorsi individuali secondo i quali ogni persona reagisce agli eventi della vita sulla base dei propri traumi, si arriverebbe a giustificare tutti i comportamenti negativi. In realtà, dal mio punto di vista, ciò che effettivamente si dovrebbe fare, per dimostrare a se stessi e al mondo di aver raggiunto quel grado necessario di saggezza esistenziale (la maturità), è la sospensione del giudizio di valore sul percorso personale, e chiedersi: “Io, che credo di essere diverso da quella persona che giudico, come realmente mi sarei comportato nella situazione che ora sto giudicando”? Credo davvero di essere una persona completamente diversa, nei comportamenti, dalla persona che sto giudicando, non nella sua interezza, ma in quel comportamento preciso? Se ci può interessare, esiste un proverbio indiano (degli Indiani d’America) che dice pressappoco così: “Oh Grande Spirito, fa che prima di giudicare una persona io cammini quattro lune nei suoi mocassini”. Ecco perché propongo sempre ai miei studenti, che, in nome della loro giovinezza, tendono spesso a ritenersi in grado di risolvere i problemi della vita secondo strategie di successo, sarebbe produttiva la sospensione del giudizio definitivo sulla persona. In altri termini, il comportamento di un individuo che adotta una serie di azioni e reazioni ad una situazione precisa, non ci dice nulla sul suo comportamento generale e circa il suo stile di vita totale, perché ogni situazione è in grado di modificare anche completamente qualsiasi stile di vita passato. Dunque, essere indulgenti verso i fatti, vuol dire capire davvero che tutti siamo individui che si scoprono diversi rispetto a quello che credono di se stessi, man mano che la vita continua e non dovremmo mai meravigliarci dei comportamenti altrui. Noi siamo gli altri, anche quando crediamo di essere diversi da tutto il resto del modo. Non esiste, nella natura umana, una diversità assoluta, generale e totale, anche se esiste una unicità, ossia l’espressione di caratteristiche personali. Ma queste sono comunque comprensibili, perché parte di quell’insieme generale che chiamiamo umanità e che continuerà ad essere un mistero insondabile, abissale e pur sempre come il cielo.
(articolo tratto dal sito www.controcampus.it)