L’angoscia può portare a forme di follia orrende. Di questa follia sfuggono agli altri i rischi, il senso, le direzioni. Che ci sono, eccome se ci sono. Ma bisogna aver provato per sapere, non bastano le esperienze indirette, non bastano i manuali, non servono gli schemi. L’episodio della donna che a Chiavari ha aggredito la suocera cercando di spingerla fuori dal balcone, che poi ha buttato giù il figlio di due anni e mezzo (in buone condizioni, perché è atterrato su piante che hanno attutito l’impatto) e infine si è buttata lei, fa dire solo, a tutti: non si capisce, non soffriva di depressione e non ha mai dato segno di squilibri psichici. Un episodio simile a tanti, che fa notizia per un giorno. Eppure dovrebbe porre, porci, un bel po’ di problemi. E farci dubitare perlomeno di qualche certezza. Intanto, l’estrema semplificazione per cui ormai tutto è o deve essere “depressione”, quasi non esistessero altri stati d’animo atroci, stati di coscienza dolorosi. E poi, lo stupore per la mancanza di segnali, quando dovremmo aver capito da tempo che siamo noi, inetti a coglierli. Troppe volte c’è questo ritornello del “non sembrava”, “nessuno avrebbe immaginato”, “era così normale”, “era una persona tranquillissima”. Dovremmo smetterla con queste autogiustificazioni, che illusoriamente ci proteggono dalla paura di scoprire gli abissi degli altri (e magari anche nostri), mentre molto realmente ci fanno camminare nella vita senza una protezione, questa sì, necessaria davvero, la protezione dal disagio che si trasforma di colpo in atto distruttivo. C’è poi un altro aspetto, in questa tragedia. Quello di ciò che aspetta la madre quasi-assassina. E’ in gravi condizioni, ma se sopravviverà sarà affidata a un istituto manicomiale – e l’opinione pubblica tirerà un sospiro di sollievo – o a un carcere, se sarà giudicata “mentalmente sana” – e allora, da parte di molti, sarà accanimento, odio – luoghi che possono annientare chiunque. Lei già viveva all’inferno, un inferno di cui era inquilina insospettata e sola. Ora le stiamo preparando un inferno infinitamente peggiore. Ma siamo civili. L’importante è il “giusto processo”. In base a codici, norme, schemi. Quando appare sempre più chiaro che la via giusta è invece proprio quella che meno si percorre, meno si accetta: valutare in estrema libertà il caso singolo, e cominciare, per esempio a non chiamarlo né “caso” (come faccio qui, per chiarezza), né “fattispecie”. Noi abbiamo deciso, soloni che non vogliono sporcarsi le mani immergendole nella realtà e nella vita, che la giustizia debba prevedere norme astratte, debba essere giusta proprio in quanto “uguale per tutti”. Senza capire che è esattamente questa l’ingiustizia più grande.
(articolo tratto dal sito www.glialtrionline.it)