Vittorio LussanaTante ‘belle’ persone del nostro Paese si professano liberali, ma non lo sono affatto. A sinistra, poiché regolarmente emergono convinzioni economiche di matrice statalista; al centro, poiché si continuano a tener ferme impostazioni dalla chiara natura paternalista che declinano invariabilmente verso il conservatorismo; a destra, poiché la necessità di configurarsi distanti dalle obsolete demagogie del passato genera la necessità di definirsi liberali senza conoscere del liberalismo nemmeno i suoi principali rudimenti di principio. Dunque, appare quanto mai necessario spiegare il funzionamento dei mercati, argomento che risulta alquanto vago e misterioso ai più. Il mercato, infatti, non rappresenta un luogo preciso nel quale avvengono contrattazioni fra compratori e venditori e in cui si formano i prezzi e si realizzano gli scambi. Esso, in termini econometrici - ovvero quelli di un’economia misurabile, concreta, fattuale - è un luogo ‘generico’ che si viene a formare ogni volta che due o più operatori vengono a contatto tra loro. Ciò non avviene nelle borse, né in strade o piazze, bensì in tutti quei posti in cui capita che avvengano delle contrattazioni qualsiasi, poiché il mercato, in realtà, è l’insieme delle operazioni necessarie per la compravendita di un prodotto. Il buon funzionamento di un mercato si basa sul meccanismo della domanda e dell’offerta. Molti di noi considerano la domanda tutto ciò che si può acquistare con il proprio patrimonio, oppure l’insieme dei beni che tutti vorremmo possedere. Ma anche tale definizione è imprecisa, poiché la domanda di un consumatore si può definire come la quantità di beni o servizi che, contemporaneamente, egli è disposto o è in grado di acquistare. La domanda dipende da diversi fattori: a) il prezzo di acquisto del bene; b) il reddito disponibile; c)  i gusti personali; d) le distinte necessità. Questi aspetti variano da individuo a individuo, mentre il prezzo delle merci rimane fisso. Le variazioni dei prezzi, infatti, provocano mutamenti in senso inverso rispetto alla quantità domandata. Ciò avviene per la maggioranza dei beni e, per questo motivo, esiste una legge generale della domanda secondo la quale la quantità domandata di un bene aumenta se il prezzo diminuisce, mentre diminuisce se il suo prezzo aumenta. Le eccezioni a questa legge sono poche e riguardano solo beni di primissima necessità: pane, pasta, benzina o medicine. La curva di domanda non è altro che una rappresentazione grafica sulla quale vengono poste in relazione il prezzo e la domanda stessa. La variazione nella quantità domandata che si produce in conseguenza della variazione nel prezzo di vendita di una merce può essere maggiore o minore, a seconda del tipo di bene. Se si considera un bene di necessità primaria, di cui difficilmente si può fare a meno, nonostante l’aumento del suo prezzo si continuerà ad acquistarlo. Quindi, la riduzione della domanda sarà modesta. Per quanto riguarda, invece, un bene poco necessario, se esso aumenta di prezzo ogni compratore sarà meno soggetto ad acquistarlo. Di conseguenza, la riduzione della quantità domandata sarà più ‘sensibile’. Affinché sul mercato si possano effettuare scambi corretti è necessario che, oltre ai consumatori, vi siano i produttori, ovvero un’offerta. Essa è la quantità di beni che il produttore, al contempo, è disposto ed è in grado di produrre e di vendere. Anch’essa è influenzata da alcuni aspetti: 1) tecnologia dei macchinari; 2) efficienza organizzativa; 3) costi di produzione e trasporto delle merci. In questo caso, le variazioni del prezzo provocano mutamenti nella medesima direzione della quantità offerta. Infatti, i produttori offrono una maggior quantità di bene quando il suo prezzo aumenta e, viceversa, una minor quantità quando diminuisce. Possiamo quindi affermare che, secondo la legge generale dell’offerta, la quantità di un bene posta sul mercato aumenta se il suo prezzo cresce, mentre diminuisce se questa decresce. Anche in tal caso ci troviamo di fronte a un grafico in cui viene rappresentata la relazione tra prezzo e quantità offerta. A differenza della curva di domanda, la curva dell’offerta è inclinata in senso opposto, a causa della diversa relazione che legano domanda e offerta in riferimento al prezzo. Sul mercato, domanda e offerta agiscono in maniera opposta e, affinché queste due esigenze si possano conciliare, diviene necessario che esse raggiungano un equilibrio. Domanda e offerta possono essere paragonate a due lame di forbici in cui la disponibilità ad acquistare ha poco senso se non c’è, dall’altra parte, disponibilità a vendere. Se la domanda è maggiore dell’offerta si produrrà una situazione di carenza, che può portare i consumatori, in concorrenza tra loro, ad accettare prezzi elevati e, quindi, a dividersi la merce acquistata. In una situazione di carenza, infatti, la domanda opera in modo da spingere il prezzo verso l’alto, facendo aumentare la quantità offerta. Se, invece, l’offerta è maggiore della domanda si formerà una situazione di ‘eccedenza’, che porterà i venditori ad accettare prezzi più bassi pur di riuscire a vendere un prodotto altrimenti destinato ai magazzini. In una situazione di eccedenza, l’offerta opera in modo da spingere il prezzo verso il basso, facendo crescere la domanda. In sostanza, il prezzo di equilibrio si può sintetizzare in questo modo: se la domanda è maggiore dell’offerta (carenza) il prezzo aumenta; se, viceversa, l’offerta è maggiore della domanda (eccedenza) il prezzo diminuisce. Le variazioni di prezzo continuano fino al raggiungimento del cosiddetto ‘prezzo di equilibrio’. Questo è il meccanismo di mercato che stabilisce una coincidenza tra domanda e offerta. A seconda del numero delle imprese produttrici presenti sul mercato, della loro dimensione e del tipo di prodotto offerto, ma anche della maggiore o minore facilità con la quale nuove imprese possono aggiungersi a quelle già esistenti, si distinguono quattro principali ‘forme’ di mercato: la concorrenza perfetta e quelle non perfettamente concorrenziali (monopolio, oligopolio, concorrenza monopolistica). Nel mercato di concorrenza perfetta vi è la presenza di molti venditori e tanti compratori. Le quantità vendute da ogni venditore e acquistate da ogni compratore sono molto piccole. Le imprese sono tutte di piccole dimensioni e i compratori hanno più o meno tutti la stessa disponibilità di spesa. Oltre a queste caratteristiche fondamentali, il mercato di concorrenza perfetta ne presenta altre. Innanzitutto, il prodotto in genere è omogeneo. Ciò significa che il bene offerto da un’impresa è assolutamente uguale e indistinguibile da quello di una qualsiasi altra impresa. L’informazione, inoltre, è perfetta: ogni compratore è in grado di conoscere, con esattezza e molto rapidamente, il prezzo di vendita praticato da tutti i venditori. E una nuova impresa che desideri entrare sul mercato al fine di mettersi in competizione con quelle già esistenti ha un’assoluta libertà di farlo. In un mercato con queste caratteristiche nessun operatore dispone di un potere sufficiente per influenzare, con le proprie decisioni, il prezzo di equilibrio, che a lungo andare sarà il più basso possibile, cioè appena sufficiente a garantire alle imprese di coprire i propri costi di produzione e guadagnare un margine di profitto. Pertanto, nel mercato di concorrenza perfetta si stabilisce un prezzo di vendita unico, che tutte le imprese sono tenute ad accettare per poter vendere. Il prezzo di equilibrio può variare nel tempo, poiché ogni impresa cerca, con nuovi macchinari o tecnologie innovative, di ridurre di costi di produzione, aumentando i propri guadagni. Questo si verifica fino a quando le altre imprese adotteranno anch’esse nuove tecniche di produzione. A questo punto avverrà l’abbassamento del prezzo di vendita, con benefici da parte dei compratori. Tuttavia, la concorrenza perfetta non esiste. Quando parliamo di essa, ci ritroviamo di fronte a quella che, personalmente, ho sempre definito ‘utopia liberista’, cioè la teorizzazione di una curva di domanda talmente orizzontale da non essere più una curva, bensì una linea retta che si sovrappone quasi perfettamente alla curva dell’offerta, eventualità che non si è mai verificata e che non si verificherà mai. La concorrenza perfetta è un mero ‘mercato teorico’, poiché è impossibile riuscire ad avere, tutte insieme, determinate caratteristiche. Il monopolio, viceversa, è un mercato in cui opera una sola impresa, che dunque controlla tutta la produzione e le vendite. I casi di monopolio sono pochi e si trovano soprattutto nei comparti dei servizi pubblici: energia elettrica, acqua, gas, trasporti ferroviari. In questo caso, esistono forti barriere che impediscono l’ingresso sul mercato alle altre imprese, consentendo al monopolista di rimanere da solo. Esse si dividono in barriere ‘naturali’, quando il monopolista dispone in modo esclusivo di determinate risorse naturali, oppure ‘legali’, quando l’ingresso sul mercato viene impedito per legge. Così si formano vari tipi di monopoli: pubblico, fiscale, privato. Il monopolista non è una fra le imprese, bensì l'unica esistente. Perciò, i compratori o acquistano dal monopolista, o rinunciano all’acquisto, mentre il monopolista si ritrova nelle condizioni di poter fissare il prezzo di vendita a sua piena e totale discrezione. L’obiettivo di ogni imprenditore è quello di trovare un prezzo né troppo elevato, né troppo basso, cercando di ricavare il massimo profitto totale. Ma in regime di monopolio, il prezzo di vendita è comunque superiore e le quantità prodotte inferiori rispetto ai valori che si avrebbero nell’ideale mercato di concorrenza perfetta. Il compratore risulta svantaggiato dal monopolio, perché questo sistema lo costringe a pagare un prezzo più alto a causa della mancanza di concorrenza. Poi vi sono i cosiddetti ‘mercati di concorrenza monopolistica’, in cui venditori e compratori sono in numero elevato. La differenza rispetto alla concorrenza perfetta riguarda solamente il prodotto, che non è omogeneo ma differenziato, simile ma non identico. La ‘differenziazione del prodotto’ consiste, infatti, nel creare differenze reali o immaginarie in prodotti simili. In regime di concorrenza monopolistica, le diverse imprese presenti sul mercato possono offrire al consumatore un prodotto realmente diverso da quello offerto dalle imprese rivali, oppure introdurre singolarità solamente apparenti, creando nel consumatore l’illusione di acquistare un bene con caratteristiche proprie. Le differenze reali possono riguardare la qualità, il gusto, le caratteristiche estetiche o di funzionamento, mentre quelle immaginarie fanno leva sulla psicologia del consumatore, creando l’illusione di acquistare un qualcosa di effettivamente diverso. Sul mercato di concorrenza monopolistica, l’esistenza di prodotti differenziati porta i consumatori a considerare distinti fra loro anche prodotti molto simili. In esso, il prezzo di vendita è comunque superiore e le quantità prodotte inferiori rispetto ai valori che si avrebbero nell’ideale mercato di concorrenza perfetta. Insomma, anche la concorrenza monopolistica è una forma di mercato svantaggiosa per il consumatore. L’oligopolio, invece, è un mercato caratterizzato dalla presenza di poche grandi imprese. Il numero minimo previsto di esse è due (si parla, in questo caso, di ‘duopolio’), ma in genere per ‘mercati oligopolistici’ si intende un numero di venditori compreso fra tre e quindici. In alcuni casi, gli oligopolisti offrono un prodotto pressoché identico, in altri ‘differenziato’. Le protagoniste dei mercati oligopolistici sono le grandi multinazionali. Le imprese potrebbero cercare di ampliare la propria fetta di mercato, cercando di togliere clienti agli altri oligopolisti tramite ‘sconti’, offerte speciali, oppure migliorando di molto le caratteristiche del prodotto. In teoria, la guerra commerciale fra imprese oligopolistiche tende ad avvantaggiare i consumatori, ma gli oligopolisti, il più delle volte, trovano più conveniente rinunciare ai comportamenti aggressivi, individuando pacifiche forme di convivenza, oppure stipulando ‘accordi collusivi’, che altro non sono che veri e propri ‘patti di concorrenza’. Quasi sempre l’accordo riguarda il prezzo di vendita: ogni oligopolista si impegna a non abbassare il prezzo, in modo da non portare via clienti agli altri oligopolisti e a non innescare pericolose reazioni. Gli accordi collusivi fra oligopolisti vanno a tutto svantaggio dei consumatori, i quali si vedono costretti a pagare un prezzo molto più elevato di quello che si sarebbe avuto non solo in un mercato di concorrenza perfetta, ma anche di semplice competizione fra gli oligopolisti. Eccoci perciò giunti al vero ‘nocciolo’ della questione: come si regolano i mercati? Tutti ne parlano, ma nessuno riesce a fornire delle risposte chiarificatrici, intorno a questo punto. Eppure, solamente una ‘rigenerazione’ dei mercati, in particolar modo di quelli ‘interni’ ai singoli Stati, potrebbe porre i consumatori e i cittadini nelle condizioni di poter resistere, almeno sul versante microeconomico, alle cicliche crisi che avvengono, o possono avvenire, sui mercati internazionali. Ecco che, a questo punto, interviene lo Stato, un soggetto costretto a stimolare, quando può o è in grado di farlo, i rapporti tra famiglie e imprese. Il sistema occidentale, in particolar modo quello europeo, è un sistema economico ‘misto’. Ciò significa che sui mercati vi è la presenza di aziende private che sono in competizione con quelle pubbliche e che lo Stato può intervenire in prima persona per aiutare i mercati a produrre risultati migliori. Perché, in epoca moderna, è risultato necessario che lo Stato regolamentasse i mercati? Innanzitutto, perché alcuni problemi, come per esempio l’inquinamento, non potevano essere risolti dal semplice meccanismo ‘domanda – offerta’, bensì si è reso necessario intervenire con apposite leggi che obbligassero le imprese a installare appositi depuratori. La regolamentazione dei mercati, inoltre, si giustifica con l’esigenza di tutelare i consumatori in un mondo dominato da forme di mercato che, come abbiamo visto, non risultano perfettamente concorrenziali. Quasi tutti i mercati dell’attuale economia globalizzata sono, infatti, ‘malati’ - in ‘gergo’ si utilizza la definizione ‘drogati’ - poiché sono state generate condizioni assai diverse nei singoli Paesi, a seconda della situazione contingente. La crisi congiunturale statunitense non è minimamente paragonabile a quella italiana o spagnola, per esempio. Da questa considerazione discendono due verità apparentemente distanti anni luce tra loro: la fondatezza della critica ‘no global’ al sistema dei mercati venutosi a creare e quella, totalmente opposta, di chi preferisce produrre beni e merci in altri territori, in cui i costi produttivi risultano più bassi, ‘delocalizzando’ le imprese. Ma ambedue queste critiche, quella ‘no global’ e quella tendente a teorizzare un ripiegamento verso forme di mercato ‘chiuse’, ‘protette’ da dazi fiscali, in realtà non tengono conto del fatto che le economie sviluppatesi da poco, come per esempio quella italiana, sono generalmente caratterizzate da forti fenomeni di ‘concentrazione’, in cui il mercato interno viene controllato da un numero limitato di imprese le quali mirano, quasi sempre, a costituire un regime di monopolio. Eventualità che, come sappiamo, svolge una funzione sfavorevole per il consumatore. Se il signor Sergio Marchionne è fortemente tentato dall’idea di produrre automobili in Croazia o in Polonia anziché in Italia, ciò dipende dal discutibile processo di concentrazione industriale messo in atto dalla Fiat stessa alla fine degli anni ’80 , allorquando decise di assorbire altre aziende come, per esempio, l’Alfa Romeo. Un fenomeno di concentrazione industriale simile non poteva far altro che innescare uno spostamento della domanda interna verso altre tipologie di prodotti, più competitivi sia sul fronte dei prezzi, sia su quello della qualità. Per tutelare veramente il consumatore, infatti, si debbono attuare politiche che impediscano la formazione di nuovi mercati monopolistici, attraverso apposite normative. Nella situazione italiana, il sistema di produzione è quello di un mercato sostanzialmente oligopolistico, sia sul versante industriale, sia in quello puramente finanziario: ristretti gruppi controllano i mercati interni e la maggior parte delle operazioni di credito destinante allo sviluppo di politiche espansive o di investimento. Lo Stato italiano, peraltro, si ritrova stretto in una morsa a prescindere dal colore degli esecutivi in carica: da una parte, il forte debito pubblico lo costringe a provvedimenti fortemente restrittivi di riassestamento della spesa; dall’altra, esso non può predisporre alcun investimento pubblico di tipo ‘keynesiano’ teso a stimolare un ‘risveglio’ dei mercati, poiché correrebbe il rischio di generare nuovo debito. In tutto ciò, la critica nei confronti della nuova moneta unica europea, l’euro, tutto sommato ha poco senso: la questione, invece, verte maggiormente sul fronte di una reale e definitiva unificazione politica dell’Unione europea. Una politica economica continentale, infatti, sarebbe maggiormente in grado di introdurre nuovi posti di lavoro, di diminuire i costi di trasporto delle merci, di liberalizzare i capitali permettendo ad aziende tedesche, per esempio, di aprire nuove filiali qui da noi. Il problema italiano di una cattiva gestione del territorio, soprattutto sul fronte della lotta alla criminalità organizzata, è il vero freno che impedisce di veder realizzato questo disegno in tempi brevi, rallentando il processo di una crescita maggiore e più equilibrata della ricchezza prodotta. Ma se l’Europa non riuscisse a trovare la strada per un'effettiva unificazione politica, le conseguenze sarebbero quasi certamente negative. Considerando che il mercato finanziario è spesso attraversato da speculazioni devastanti e che l’economia di uno Stato come l’Italia si basa quasi principalmente su poche grandi società che dispongono di molto denaro, un’unica banca centrale farebbe accusare meno ai singoli Paesi i colpi della crisi. In questo modo, l’Europa diventerebbe la più grande potenza economica del pianeta. Inoltre, anche alcuni Paesi del sud-est asiatico si stanno sviluppando in modo rapidissimo, facendo scendere i prezzi di produzione. Per questo motivo, Stati Uniti e Giappone da tempo si sono attrezzati con alleanze e accordi per una maggior integrazione con i Paesi vicini: se l’Europa non farà altrettanto, essa non sarà in grado di affrontare la spietata concorrenza che si viene a generare sui mercati. Dato che siamo ormai alle porte dei giochi olimpici di Londra 2012, proviamo a paragonare la crescita economica con la corsa di un atleta: se questo cerca di spingersi oltre i propri limiti può correre più velocemente, ma in gara ne potrà pagare le conseguenze e dovrà rallentare. Dunque, esiste un altro modo, più duraturo, per rendere veloce la corsa di questo atleta: diventare più robusto, o utilizzare una tecnica e materiali sportivi più moderni. Se trasferiamo questo esempio in economia, si scopre che anche l’attività produttiva di un Paese può correre, ossia crescere, più velocemente se vengono attuati mutamenti di lungo periodo. In particolare, è necessario aumentare la quantità e la produttività del lavoro, un processo che richiede un certo lasso di tempo. Analizziamo, a questo punto, la quantità di lavoro: essa si misura in ‘ore-uomo’. E per poterla aumentare devono crescere l’orario di lavoro, oppure il numero di lavoratori. Nei Paesi avanzati esiste, però, una generale propensione della popolazione a non aumentare, bensì a diminuire l’orario di lavoro. Il numero dei lavoratori, infatti, può essere aumentato nel breve periodo impiegando tutta la manodopera disoccupata, ma una volta arrivati vicini alla piena occupazione sarà necessario ricorrere all’immigrazione o all’aumento della popolazione. Quindi, si può capire come l’Italia, che possiede una popolazione poco incline ad aumentare l’orario di lavoro, stabile o declinante dal punto di vista demografico, non ancora in grado di utilizzare al meglio la risorsa immigrazione, difficilmente possa aumentare la crescita tramite l’aumento della quantità di lavoro. Poi bisogna misurare anche la produttività del lavoro. Questa viene valutata attraverso la quantità di prodotto finito per ogni ora di lavoro. E dipende da diversi fattori: innanzitutto, dalla quantità di capitale, ossia dal livello degli investimenti. Pesa molto, inoltre, il grado di sviluppo tecnologico. Anche la formazione professionale dei lavoratori è fondamentale, poiché evidenzia l’importanza dell'istruzione di ogni singolo lavoratore. Serve inoltre una buona organizzazione del lavoro, in grado di assicurare una distribuzione più efficiente delle risorse. Infine, contano anche le economie di ‘scala’, ossia i risparmi che derivano dal fatto di essere cresciuti economicamente e che permettono una programmazione stabile della produzione e del lavoro medesimo. L’Unione europea può fare molto per favorire queste condizioni. Per esempio, può obbligare i singoli Stati membri dell’Unione a mantenere elevato il livello degli investimenti nelle infrastrutture specializzate, nel campo dei trasporti così come in quello delle comunicazioni; può favorire lo sviluppo tecnologico mediante direttive, raccomandazioni e richieste di investimenti nella ricerca scientifica; molto potrebbe esser realizzato nel campo della formazione, assicurando una riqualificazione della professionalità dei cittadini a tutti i livelli. Anzi, la formazione professionale sarebbe ‘l’elemento-chiave’, poiché potrebbe garantire condizioni di maggior concorrenza in modo che i migliori prevalgono. Ma la condizione che sta alla base di una crescita economica di questo genere rimane la stabilità politica dell’Europa: la crescita è un aspetto quantitativo dell’economia, ma lo sviluppo, in realtà, è un processo di tipo qualitativo, più lento della crescita. Nel mondo esistono molti Paesi in cui la crescita non produce tutti quei fenomeni di modernizzazione che vengono definiti “sviluppo”. Inoltre, in alcuni Paesi, anche se gli aiuti dello Stato permettono un certo livello di crescita, permangono condizioni tipiche delle società arretrate: in genere, vengono definite condizioni di “crescita senza sviluppo”. Il vero benessere è un concetto legato alla qualità di vita della popolazione e alla prospettive future di essa. Non tutti i Paesi hanno la stessa capacità di tradurre l’aumento di capacità produttiva (crescita) in modernizzazione della società (sviluppo). E ancor meno in qualità della vita (benessere) degli abitanti. Ancora una volta è l’Europa a essere chiamata in causa: essa deve assicurare stabilità politica e sociale, al fine di favorire un elevato livello di istruzione e trasformare la ricchezza in benessere. Crescita, infatti, significa una società in grado di produrre risorse economiche in misura crescente, in cui ognuno, per ogni anno che passa, dovrebbe riuscire a guadagnare di più. Ma per ottenere ciò è necessario lavorare, ovvero combattere la disoccupazione, soprattutto quella giovanile. Questo è il problema ‘numero 1’ e chi non lo vuol capire o fa ‘orecchio da mercante’, oppure è in malafede. Solo un’Europa forte, unita politicamente, può affrontare un simile problema. La mancanza di lavoro ha un costo: essa determina la riduzione dei redditi familiari, quindi la rinuncia a molte spese abituali, favorendo un peggioramento delle condizioni di vita, che a loro volta provocano lunghe fasi di involuzione e di stagnazione che rallentano i processi di modernizzazione. Per non parlare dei costi economici legati alla perdita di professionalità: un lavoratore accumula esperienza, sia tramite la propria attività, sia grazie all’introduzione di nuovi macchinari o tecniche innovative. Un disoccupato, invece, non solo rischia di dimenticare quanto ha appreso in passato, ma anche di non poter conoscere le nuove tecnologie e, persino, di non apprendere nuovi mestieri qualora intendesse adeguarsi a politiche occupazioni basate sulla ‘flessibilità’. I costi psicologici e sociali della disoccupazione sono meno visibili di quelli economici. L’Italia, come il resto del mondo industrializzato, è una società basata sul lavoro: privare un cittadino di un’occupazione significa dirgli che non ha diritto di esistere. Inoltre, la disoccupazione da sempre è legata all’aumento di fenomeni come la criminalità, i disturbi psicologici e i suicidi. L’inattività di molti lavoratori comporta una produzione inferiore a quella che si potrebbe raggiungere se tutti lavorassero. È la disoccupazione la vera malattia. E il primo passo per curarla consiste nel sapere quanto energica deve essere la cura. Rinunciare all’unificazione politica dell’Europa significherebbe abbandonare milioni di persone al proprio destino, innescando un processo involutivo disastroso, poco controllabile: insomma, un ‘cataclisma’. Perché molti dei nostri problemi sono talmente cronici sono che solo una solida politica sovranazionale è in grado di affrontarli: ci vuol tanto a capirlo? Finiamola, dunque, di peccare di arroganza pensando che da soli potremmo farcela o, addirittura, che risposte di tipo localistico possano generare nuove tendenze di sviluppo: queste sono tutte false congetture, demagogie tribunizie, autentiche prese ‘in giro’ nei confronti dei cittadini. Per quanto tempo, ancora, volete farvi prendere per il naso? 




Direttore responsabile di www.laici.it e di www.periodicoitalianomagazine.it
Lascia il tuo commento

Kolkov - Roma Italia - Mail Web Site - domenica 8 luglio 2012 0.14
Più una lezione di Economia politica che un articolo, però utilissima, mancava giusto la spiegazione dell'esistenza del break even point, che da noi, in italia, non viene mai menzionato, in quanto viene continuamente bluffato dai finanzieri ed imprese. il bep è il punto di equilibrio tra fatturato e costi. Quando il fatturato è uguale al costo, e per costo viene compreso tutto, costi fissi, variabili, manodopera, materie prime, ecc. il bep è perfettamente in equilibrio, quando inizia a diventare positivo, significa che c'è un accumulo di finanze, il che è ben diversa cosa dal reddito o dividendo. Senza dilungarmi molto, diciamo che in IItalia, il bep è quasi sempre 0 se non in negativo, ma non si sa come è possibile, le rendite o i dividendi..... aumentano, come aumentano le fughe di capitale!


 1