Nella recente diatriba tra Governo, sindacati e organizzazioni di categoria sulla riforma del mercato del lavoro, il presidente del Consiglio dei ministri, Mario Monti, ha finalmente ammesso di essersi ritrovato di fronte a un “allargamento del cratere della crisi”. Sono ormai lontani i tempi in cui molti colleghi, politici ed economisti giudicavano la recessione in corso “una mera fase congiunturale di passaggio” di fronte a un tracollo “puramente finanziario”, al fine di non dover ammettere quei pericoli che incombevano sul nostro sconcertante modello di produzione e di redistribuzione della ricchezza. La verità è che, durante il ‘balletto’ di cifre di questi giorni tra l’Inps e l’esecutivo ‘tecnico’ presieduto da Mario Monti, l’approccio del Governo, in particolar modo quello del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Elsa Fornero, è apparso eccessivamente accademico, assai distante da una materia - le politiche industriali di sviluppo - che da sempre caratterizza la funzione di indirizzo politico del nostro Paese. I ‘politici’ sono stati tutti, indistintamente, messi ‘alla berlina’, secondo un giudizio ‘generalista’ che ha finito col trasformare l’operato dell’attuale esecutivo in un mero Gabinetto di attesa. Lo stesso Mario Monti se n’è reso conto, dovendo riproporre all’ultimo momento la prospettiva, impervia, di una “fase 2” di un Governo che, ormai, si è già dato la ‘zappa sui piedi’ da solo. Eppure, l’analisi di partenza non era difficile. Mi è persino capitato, di recente, di assistere personalmente, in quel di palazzo Montecitorio, a un dibattito ‘ristretto’ in cui persino un moderato come Rocco Buttiglione ha dovuto rivalutare quei presupposti sociologici dell’analisi di Karl Marx dai quali si poteva e doveva ripartire. Presupposti che, per quel che riguarda l’Italia, nemmeno possiedono una colorazione di indirizzo ideologico particolare, trattandosi di difetti congeniti del nostro modello di sviluppo ‘storico’, avvenuto secondo modalità estemporanee, costantemente in ritardo nell’individuazione di quelle nuove figure professionali assolutamente necessarie per riqualificare una materia delicata come quella del lavoro nel nostro Paese. Nel desiderio di riuscire ad ‘appiattire’ tutto e tutti verso il basso ci si è dimenticati persino dell’esistenza delle figure intermedie, delle cosiddette professionalità ‘di concetto’, in una sorta di delirante liberismo anarcoide che ha finito col ricadere, regolarmente, nei suoi più obsoleti ‘vizi’ dirigistici di fondo. Dunque, rieccoli tutti lì - Rocco Buttiglione, la stessa professoressa Fornero, Silvano Moffa e il ‘rivalutato’ Cesare Damiano - a rivedere limiti e difetti dell’antiquato modello ‘fordista’, o di quello ‘taylorista’: alla buon’ora! Di come fossero messe le cose, qui da noi, ne erano al corrente praticamente tutti, da sempre, dagli autonomi di estrema sinistra ai democristiani ‘dorotei’, passando per i socialisti ‘lombardiani’ e ‘craxiani’: ma perché non farselo spiegare prima? Sin dagli anni ’60 del secolo scorso, le ‘casate’ più illustri del capitalismo di casa nostra hanno sempre dimostrato di difettare di intraprendenza, segnalando la loro profonda inadeguatezza rispetto al dinamismo generalmente imposto dagli eventi. Una cronica scarsità di capitali e una storica ritrosia all’autofinanziamento e al reinvestimento dei profitti hanno spesso indotto i nostri manager a reagire all’atrofia del mercato azionario attraverso l’indebitamento e la conseguente emissione di titoli obbligazionari, costringendo le banche ad assorbire quelle stesse obbligazioni e il Tesoro e la Banca d’Italia a sottoscrivere il deficit delle aziende. La gravità di questo saccheggio discende direttamente da un complesso intreccio storico tra affari e politica, che ha generato una decennale tendenza alle sollecitazioni e ai baratti, ai nepotismi e alle regalìe, le quali a loro volta hanno alimentato un’economia sostanzialmente sovvenzionata, in barba alla tanto decantata ‘libera iniziativa’ sventolata ai ‘quattro venti’. L’Italia, dal punto di vista capitalistico, in realtà ha soprattutto visto la fossilizzazione di una ‘razza padrona’ che ha provveduto a confiscare il potere politico ed economico utilizzando il denaro dello Stato, il più delle volte per finalità che non sempre con lo Stato avevano a che fare. L’unico personaggio che ebbe il coraggio di denunciare i guasti inferti alla nostra economia da parte di una determinata ‘borghesia’ fu Enrico Cuccia. Ma Cuccia era un banchiere che, dunque, ragionava come tale e non sempre poteva affondare il ‘coltello’ tra i danni più profondi del nostro sistema economico, provocati da una leva di ‘capitalisti all’italiana’ che ha storicamente trasformato intere schiere di esponenti politici in autentici ‘fantocci merovingi’, ‘feudalizzando’ lo Stato al fine di assoggettarlo a un’infinita serie di conflitti tra dovere e interessi. Non esistendo più, oggi, luoghi riconoscibili di potere legittimo, come possiamo stabilire se sia più opportuno per lo Stato italiano stanziare fondi per sostenere le spese di amministrazione del sistema giudiziario o per soccorrere i cosiddetti ‘esodati’? La sinistra italiana, in questo particolare settore, ha commesso un errore storico di valutazione gravissimo: la cosiddetta ‘questione morale’ non avrebbe dovuto riguardare solamente il particolare quoziente di disonestà e di corruzione del nostro ceto politico indebolendolo e paralizzandolo, bensì l’inesausta proliferazione di un’economia ‘mista’ - senza riscontri negli altri Paesi dell’occidente capitalistico - che ha finito col sopprimere ogni auspicabile distinzione tra etica pubblica e utile privato. Eppure, l’Italia è anche il Paese di una solidissima ‘piccola industria’, di imprese ‘residuali’ che approvvigionano un mercato ‘atomizzato’, di aziende ‘anticicliche’ che assoldano mano d’opera nelle fasi di bassa congiuntura, di industrie ‘interstiziali’ che soddisfano una domanda fortemente specializzata. Insomma, il nostro sistema economico ha un’altra grande ‘spina dorsale’: quella dell’imprenditoria ‘periferica’, che non è affatto marginale rispetto ai tradizionali circuiti di scambio. Le manifatture con meno di 250 addetti sono compattamente distribuite nel centro - nordest della penisola e hanno avuto una forte propagazione per via imitativa, che ha storicamente generato un’area del mobile nel veronese, della produzione di scarpe nel varesotto, delle cucine componibili nelle Marche e cosi via. E’ la cosiddetta ‘terza Italia’ quella che deve trovare la strada per espandersi e rilanciare il nostro ‘Made in Italy’ sui mercati internazionali, poiché presenta forti fattori di integrazione socio-culturale che riducono la conflittualità, riproducendo una forza-lavoro saldamente affidabile nei confronti di un sistema intrinsecamente ‘altro’ rispetto ai tradizionali rapporti di produzione capitalistica. Insomma, i capitalisti ‘veri’, che rischiano i propri soldi, in questo Paese esistono. E andrebbero tutelati, incentivati, aiutati, poiché lo meritano. Sarebbe perciò necessario creare le basi di una futuribile ‘nuova alleanza’ tra le classi medie e quelle operaie, cercando altresì di resistere alle pressioni che contrappongono le esigenze di controllo della spesa pubblica al sostegno da garantire a quei ‘carrozzoni’ che, nel corso dei decenni, hanno assecondato, in linea di fatto, un sistema finanziario di aiuti statali, salvo disdegnare in pubblico ogni genere di teoria tesa a razionalizzare un sistema di servizi dignitosamente efficienti. In ciò, lo stesso ceto medio, se ancora esiste, dovrebbe dimostrarsi più attento, al fine di non lasciarsi incantare dalle ‘sirene’ della demagogia imprenditoriale più dirigista e ipocrita. La classe media di questo Paese deve cominciare a guardarsi proprio dai grandi capitalisti, anziché dubitare delle intenzioni dello Stato, il quale, per indole naturale, è indotto a fare il proprio interesse al fine di predisporre una seria regolamentazione della spesa e un plausibile riassestamento del proprio bilancio. Gli slogan populisti appaiono risibili, rendendo soddisfazione proprio a quell’intellettualità politicizzata che pretende l’avvento di un socialismo burocratico, alle cui enunciazioni di principio quasi mai seguono puntuali elaborazioni programmatiche. Compito della classe media italiana è perciò quello di comporre un altro ‘mosaico’, un nuovo ‘atlante’ delle affinità e delle differenze, provando a smantellare quelle incrostazioni clientelari che hanno creato solamente un’economia di ‘relazione’ a vantaggio di pochi, che ha già causato una serie di crack finanziari i quali hanno fortemente danneggiato la nostra immagine sui mercati internazionali, che hanno reso il nostro capitalismo un coacervo di interessi oligarchici e parassitari, chiusi a ogni genere di espansione e di nuova cittadinanza economica in favore di imprenditorialità e di soggetti produttivi moderni, innovativi, realmente competitivi.