Mentre a Roma, nella casa che abitò con l’amico Shelley a piazza di Spagna, è appena stata aperta una mostra sulle migliori edizioni illustrate delle sue opere, a Hampstead Heath l’edificio in cui visse per due anni e il parco sono diventati “desperately cool”, tremendamente, disperatamente di moda per un pubblico di creativi che abbraccia almeno tre generazioni. Gabriele Di Bartolo, il noto fotografo italiano trapiantato a Miami e da sempre gran conoscitore di culture e stili londinesi, si è trovato coinvolto a sorpresa qualche settimana fa in una specie di happening domenicale: decine di gruppi di età variabile tra i sedici e i cinquant’anni che in nome di Marx, Constable, C. S. Lewis e Keats facevano un picnic nel parco di Hampstead Heath. "Non c’è dubbio: questo è un luogo fantastico per ispirarsi", gli ha spiegato un giovane pittore. Infatti qui veniva Marx insieme alla famiglia e a Engels per mangiare sull’erba, Constable ritraeva le sue nuvole lenticolari o a banchi, C. S. Lewis ebbe l’idea delle Cronache di Narnia e Keats compose l’Ode all’Usignolo, ascoltanto un uccello che cantava nel parco. E nella Keats House, casa che originariamente faceva parte di un edificio diviso in due abitazioni gemelle, una delle quali abitata da Armitage Brown che ospitò il poeta, e l’altra da Fanny, di cui Keats si innamorò, non si va ormai solo per partecipare a una delle tante iniziative culturali o vedere mostre e allestimenti: dato che il biglietto vale un anno, qui ci si dà appuntamento, si respira poesia, si immagina di poter prendere forza e ispirazione. “Breathing poetry”, appunto. Sorpendente destino per un uomo che pensava che il suo nome fosse scritto sull’acqua, questo di essere oggi non ricordato, ma addirittura preso a nume tutelare, superstiziosamente invocato ed evocato nel parco e nelle case in cui visse quasi due secoli fa. D’altra parte, trovare qualcosa di ordinario in Keats e nella sua vita sarebbe molto difficile. A vent’anni decise di abbandonare l’apprendistato di chirurgia per fare il poeta. A ventidue anni pubblicò il suo primo libro di versi. A ventitré anni scrisse un poema mitologico in quattro volumi, Endymion, che la critica stroncò ferocemente. A ventiquattro anni era però diventato uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. A venticinque anni morì. E’ difficile oggi non amare John Keats. Forsennatamente imitato dai poeti di lingua inglese, il suo modo di danzare con la tragedia e l’indicibile, senza alcuna soggezione o disperazione, è stato equivocato e scambiato per romanticismo. E come fare altrimenti. Tutta la vita di Keats, con i lutti, i rifiuti, la fragilità fisica e infine la tubercolosi mortale a venticinque anni, è la trama perfetta di una biografia romantica. Ma lui, il piccolo uomo alto non più di un metro e mezzo, dalle lacrime, i sospiri, gli eccessi e gli autocompiacimenti sapeva come guardarsi. Conosceva il dolore e lo trattava alla pari. Conosceva l’amore e non avrebbe avuto paura di viverlo, se gli fosse stato concesso. Credeva nel mistero e non se ne lasciava soggiogare. Chesterton avrebbe scritto, molti anni dopo, che “l’imbroglione non è colui che si immerge nel mistero, ma colui che rifiuta di uscirne”. Ecco, imbroglione Keats non lo era, no davvero. Né come poeta, né come uomo. Era rimasto a quattro anni orfano di padre, a quattordici era morta sua madre, ed era morto anche il fratello adorato, Tom. Aveva gli amici, poeti come lui (Leigh Hunt, poeta e suo primo editore, e Shelley, con cui dividerà la casa di piazza di Spagna, a Roma), e aveva Fanny Brawne, un amore che però non si sarebbe mai concretizzato, per l’assurdo tributo pagato alle “buone costumanze” (lui era povero). Ma questo amore lui si concesse il lusso di assaporarlo senza ritrarsi, e senza sconti. La pubblicazione postuma delle sue lettere alla ragazza provocò scandalo. Intense, insopportabilmente realistiche nel descrivere stati d’animo non sempre nobili: «Temo che tu sia stata poco bene. Se attraverso di me la malattia è giunta a toccarti (ma deve averlo fatto con mano leggera) devo essere abbastanza egoista per provarne un po’ di gioia». Lui era malato, lei no. Lui sapeva di dover morire, lei andava a ricevimenti e balli. Fanny diventa una tale ossessione che alcuni attribuiranno a lei (che ricambiava i sentimenti di Keats, o per lo meno così appare, anche se da un certo punto in poi tra loro ci furono solo scambi epistolari, e poi, per volontà di Keats, neppure quelli) la responsabilità dell’aggravamento delle condizioni fisiche del poeta. Sicuro che vivrà ancora poco, lui scrive per lei:
Questa mano viva, che adesso è calda, capace
Di stringere forte, potrebbe, fredda,
Nel ghiacciato silenzio della tomba,
Turbare i tuoi giorni e gelare le tue notti, piene
di sogni.
Fino a farti desiderare un cuore senza sangue,
Fino a far scorrere ancora nelle mie vene la rossa
tua vita.
Forse allora avrebbe pace la tua coscienza –
Questa mano, guardala, ecco, adesso, verso te
io la tendo.
Il film Bright Star, della regista Jane Campion, rende abbastanza fedelmente i personaggi, gli umori, la disperazione. Un po’ meno la forza di Keats, che i suoi contemporanei raccontano più che capace d’allegria, luminoso, affascinante e aggraziato come chi è caro agli dei e nessuna ragionevolezza può far immaginare soggetto alla morte. Oscar Wilde, uno dei tanti fra quelli che ne osannarono l’opera, arrivato a Roma prima si recò dal Papa, poi su quella tomba al cimitero acattolico, sulla cui lapide – che porta come data di morte 24 febbraio 1821 – lo stesso Keats, umile ma anche orribilmente cosciente di quanto lo detestassero i critici, aveva voluto che apparissero le parole “Qui giace un uomo il cui nome fu scritto sull’acqua”. Wilde si sdraiò. Restò lì. “Nel mio paradiso lui cammina eternamente insieme a Shakespeare e ai Greci”, avrebbe scritto. Era troppo seducente e intelligente per non raccogliere invidie e inimicizie. Troppo contraddittorio per trovare pace. Innamorato della bellezza che spinge a diventare migliori, della fantasia che porta lontano e dà piacere, poi si ritrova a desiderare un pergolato di tranquillità, un sonno pieno di sogni dolci, un respiro forte e quieto. E a essere buono. Superando tutte le divisioni in un momento che è insieme di straordinaria umiltà (parla evidentemente anche di se stesso) e di vera, generosa comprensione degli altri: "Ci si dovrebbe sopportare un po’ tutti. Non c’è nessuno che non sia vulnerabile, che anzi non possa essere toccato e fatto a pezzi nel suo lato più debole".
(articolo tratto dal settimanale ‘Gli Altri’)