Dopo 151 anni di unità nazionale e 66 di Repubblica italiana ci ritroviamo di fronte a una profondissima crisi economica, politica e strutturale del nostro Paese. Al fine di trovare una terapia adatta per affrontare i numerosi problemi e le molteplici tare di fondo del nostro tessuto economico-sociale è dunque bene riflettere sulle cause effettive di un
mancato progresso culturale, identitario e di mentalità che stanno alla base di uno sviluppo democratico italiano rivelatosi
fortemente parziale e disorganico. Nel nostro Paese è sempre stato trattato poco e male l’argomento di uno sviluppo economico avvenuto attraverso modalità fortemente accelerate, scarsamente accompagnate da un grado di
‘coscienza culturale’ adeguato alle trasformazioni che stavano avvenendo o che risultavano in atto. La televisione ha tentato di fornire alcune risposte unificatrici, ma lo ha fatto senza incidere profondamente sull’effettiva matrice sociale della cittadinanza italiana, trasformata in un popolo di utenti-sudditi da trattare paternalisticamente. La vera risposta, infatti, sarebbe dovuta provenire dal mondo della cultura e della formazione scolastica. Ma uno sviluppo anarchico e tumultuoso di un Paese fortemente scosso dalle proprie complicate vicende storiche e da una divisione internazionale per blocchi contrapposti ha impedito ogni riflessione oggettiva, dotata di un alto grado di imparzialità scientifica. Questo genere di valutazioni culturali, innanzi al disastro che ci ritroviamo ad affrontare, oggi, forse è possibile, al fine di impegnare tutto il Paese in una grande operazione laica di
‘ricucitura’ e di
trasformazione della propria mentalità e identità di fondo, intervenendo sulle cause di una
cieca corsa verso un individualismo opportunistico e morboso, in cui l’astuzia più ipocrita risulta quasi sempre premiata rispetto all’ingegno, all’altruismo e alla generosità. Qualità che, invece, appartengono pienamente al patrimonio genetico del popolo italiano. Una rivoluzione è dunque necessaria per l’Italia. Ma dovrà trattarsi di una vera e propria
trasformazione intellettuale e morale dei nostri caratteri più profondi, non di un tentativo violento e forzoso di instaurazione di
nuovi regimi o di astratte velleità ideologiche. Per poter stimolare un dibattito realistico risulta necessario imperniare le nostre analisi dal tipo di sviluppo economico avvenuto nel Paese, da quella ricostruzione avvenuta proprio
a seguito della liberazione nazionale compiutasi il 25 aprile 1945 e dai successivi ‘passaggi’ che hanno determinato la nascita della Repubblica italiana e della sua Costituzione. Si tratta, in buona sostanza, della richiesta di una
rivolta umanista che sappia dimostrare il coraggio di denunciare quelle
contraddizioni storiche che hanno determinato
un processo di modernizzazione lacunosamente e scarsamente accompagnato da un’effettiva maturazione della nostra mentalità collettiva, evitando il più possibile ogni dissociazione tra applicazioni politiche razionali e valori collettivi e culturali di fondo. Oltre alla politica o all’economia è infatti venuta a mancare, più che altro, una risposta più illuminata e lungimirante dal mondo della cultura. Uno dei pochi romanzi imperniato attorno a tali questioni è stato
‘Fratelli d’Italia’, di Alberto Arbasino: la cronaca di un pellegrinaggio in un Paese completamente a soqquadro tra cantieri e grandi opere pubbliche. Ma a parte questa eccezione, l’andazzo complessivo della nostra produzione letteraria è sempre stato quello di concentrarsi esclusivamente sulla drammatica estinzione delle nostre tradizioni contadine e preindustriali, in forma ora di idillio, ora di epicedio straziato verso i suoi
‘ragazzi di vita’ per
Pier Paolo Pasolini; di resoconto di una forzata irruzione della Storia in un mondo quasi immobile per
Ferdinando Camon (‘Il quinto Stato’); di soave follia per
Luigi Malerba (‘La scoperta dell’alfabeto’); di incurabile ipocondria verso i sentimenti aggravata dal lavoro in fabbrica per
Paolo Volponi (‘Memoriale’). Il mondo del lavoro e tutto ciò che l’ha sempre accompagnato in termini di alienazione umana e di una realistica analisi antropologica dei suoi specifici problemi e rapporti sociali raramente è apparso in primo piano all’interno della nostra produzione culturale. Il cosiddetto
‘romanzo industriale’, un genere che ha avuto grandi momenti di splendore in Germania, Francia e Inghilterra, qui da noi non è mai riuscito a emergere dal
‘documentarismo’ più asettico e impalpabile. In chi ha sofferto una realtà di dissoluzione materiale, spirituale, morale e culturale, rimpianto e nostalgia si trasformano in qualcosa di ovvio, che non solleva problemi particolari. Ed è forse per questo motivo che l’unico scrittore impegnatosi a redigere con occhi veramente
‘asciutti’ il certificato di morte di un passato composto eminentemente da
Dio, Patria e Famiglia sia stato
Luigi Meneghello (‘Libera nos a malo’ e ‘Pomo pero’), il quale ha saputo mettere il proprio
‘illuminismo’ al servizio di un più logico
‘inventario linguistico’: se istituti, cibi, abiti, mestieri, giochi, ornamenti, farmaci, usanze domestiche e persino odori e sapori della vecchia
‘Italietta contadina’ si sono
‘inabissati’, occorre salvare la nostra memoria attraverso una serie di
‘tecniche di vita’ in grado di
‘infilzare’ con lo spillo dell’entomologo quelle parole che, per intere generazioni, hanno rappresentato un senso corrispondente alle ‘cose’. Maggiormente sensibile verso l’analisi antropologica della nostra vita quotidiana,
il cinema italiano, fortunatamente, ha saputo rappresentare uno specchio assai più fedele dei cambiamenti avvenuti nel nostro Paese: la
‘commedia all’italiana’ ha donato al pubblico
spunti satirici e verità ‘squarcianti’, che hanno realmente illuminato le
ordinarie vergogne di una folle corsa verso
un benessere grettamente materialista. Per esempio,
‘Divorzio all’italiana’, di Pietro Germi, tramite una
‘scettica eleganza’ ha saputo scherzare sull’assurdità di un codice penale che
non puniva i ‘delitti d’onore’ del ‘maschio’ italico, mentre
‘Una vita difficile’ di Dino Risi ha affrontato di petto il dramma di quegli italiani che hanno creduto negli ideali della
Resistenza, ma che si sono visti
travolti dalla iattanza cafona dei tanti ‘neo-ricchi’. Sempre
Dino Risi, ne
‘Il sorpasso’, ha saputo ritrarre, attraverso un ritmo filmico tutto
‘a singulti’, la
‘giornata tipo’ di uno dei tanti parassiti che raccolgono le briciole di nuovi modi di vita imposti da una modernità vacua, canagliesca e, alla fin fine, amarissima. Ma anche in questo settore, le leggi del successo e della commercializzazione sono riuscite a imporre la superficialità e l’involgarimento. Alcune pellicole di buona fattura hanno infatti preteso di
‘intonacare’ la nostra ‘Storia–Patria’ diffondendo ideologie giustificazioniste e autoassolutorie: ‘La grande guerra’ di Mario Monicelli e ‘Tutti a casa’ di Luigi Comencini hanno presentato figure di italiani i cui tratti indolenti vengono addebitati alla nostra tradizionale
‘arte di arrangiarsi’, mentre la satira ha spesso degenerato nel
‘macchiettismo’ e nella bonaria presa in giro – mi sto riferendo, in particolare, al film
‘Il vigile’ di Luigi Zampa – di costumi e modi di vivere accettati con eccessiva indulgenza. Fortunatamente, qualcuno, a un certo punto, si accorse che certe nostre
‘istituzioni’ non tenevano più. E, con tocco assai delicato, il grande
Luchino Visconti, in
‘Rocco e i suoi fratelli’, ha splendidamente fotografato una famiglia di immigrati la cui esigua manciata di valori morali finisce col venir letteralmente
‘bruciata’ dai labirinti della grande città, mentre il geniale e fantasioso
Federico Fellini, ne
‘La dolce vita’, è stato uno dei pochi a raccontarci
una Roma stordita e corrotta, dove ogni compostezza sprofonda in un paganesimo provinciale che celebra i propri riti goderecci senza nemmeno saper attingere a una ‘grandiosa malvagità’. Poi giunse l’epoca del cinema
‘di denuncia civile’, dalla chiara impronta politica. Su tale versante, decisamente
‘accecanti’ si sono rivelati i film di
Francesco Rosi (‘Le mani sulla città’ e ‘Il caso Mattei’), addirittura
‘radiografici’ quelli di
Elio Petri (‘A ciascuno il suo’ e ‘La classe operaia va in Paradiso’), dolorosamente poetici quelli di
Pier Paolo Pasolini (‘Uccellacci e uccellini’ e ‘Mamma Roma’), mentre a rammentare che l’istituzione maggiormente priva di tenuta è proprio
la famiglia ci hanno pensato
Marco Bellocchio (‘I pugni in tasca’), il ‘crudo’ Salvatore Samperi (‘Grazie zia’) e il quasi ‘onirico’ Marco Ferreri (‘Dillinger è morto’), i quali hanno appuntato i propri
‘strali’ contro le
atrocità del matrimonio, le ipocrisie del ‘familismo amorale’ all’italiana e gli egoismi dei moderni rapporti di coppia. In ogni caso, tranne queste eccezioni, in linea generale la nostra produzione letteraria e cinematografica ha sempre dato l’impressione di intrattenere con la realtà italiana un rapporto sovrastato dalle
bronzee leggi degli schematismi ideologici: da una parte, si è riprodotta
un’Italia arcaica, pervasa da
forme di sfruttamento e di sopraffazione che lo sviluppo economico non è stato mai in grado di ‘intaccare’ o, quanto meno, correggere; dall’altra, si rincorrono
i volti di una borghesia concepita nel più idealtipico dei modi, come un banale epifenomeno la cui ‘coscienza storica’, quando esiste, rappresenta solamente un ‘rivolo di spurgo’. E’ stato sostanzialmente questo il giudizio espresso sulla società italiana dal
predominio comunista sulla cultura. Ed è quindi giunto il momento di affermare a chiare note che
l’italo-marxismo è sempre stato trattenuto da un perdurante giudizio anti-industrialista, incapace di aprirsi ad una critica ‘superatrice’ del capitalismo. Ciò è avvenuto proprio a causa della
politica culturale del Pci, che ha coltivato a lungo la paura dello sviluppo economico giudicando il
‘congelamento dei dualismi’ e delle permanenze pre-industriali come il viatico migliore per la crescita delle forze produttive, al fine di una transizione democratica al socialismo. Ma questo errore è disceso, a sua volta, dai
‘filtri’ a cui è stata sottoposta, qui da noi,
la dottrina di Karl Marx dai due autori più amati,
Antonio Gramsci e Gyorgy Lukacs, i quali, per ragioni diverse, sono sempre stati assai poco attratti dai problemi della modernizzazione: il primo, in quanto pensatore sostanzialmente ottocentesco; il secondo, perché non è mai riuscito ad andare oltre a una concezione assai rigida della
‘totalità dottrinaria marxiana’. I tentativi migliori di riannodare i fili della riflessione di Marx all’evoluzione della società industriale – come per esempio quello di
Galvano Della Volpe, che ha sempre insistito sul
metodo ‘galileiano’ del filosofo di Treviri, tentando altresì di aggirare autentici
‘macigni concettuali’ quali quelli di
‘rivoluzione’ e
‘socialismo’ postulando una
‘transvalutazione normativa’ della democrazia che passasse attraverso una serie di
coraggiose ‘riforme di struttura’ – sono sempre stati
‘stroncati’ da bruschi richiami all’inammissibilità dei
‘saperi eclettici’. Di fronte a simili
‘lumi di luna’, la conseguenza culturale più devastante è storicamente risultata quella di una vera e propria
messa in ‘quarantena’ delle cosiddette ‘scienze sociali’: mentre in tutti gli altri Paesi occidentali venivano regolarmente pubblicati
i grandi classici della sociologia, da Weber a Durkheim, da Tonnies a Thomas e Znaniecki, da Aron a Kelsen, da Fromm a Galbraith, in Italia si è continuato a
‘setacciare’ la letteratura marxista e post-marxista internazionale proponendo Baran, Braveman, Lukacs, Sweezy, Horkheimer, Adorno, Marcuse e persino Mario Tronti. Un’egemonia di tal genere è derivata soprattutto
da una classe intellettuale che ha voluto gettarsi
‘a capofitto’ nell’applicazione della teoria del
materialismo storico alle arti e alle scienze, tentando di rompere il proprio
‘accerchiamento’ avvinghiando se stessa a una snobistica immagine di
‘intellettualità’ totalmente autoreferenziale. Esaurito il filone neorealista,
la narrativa italiana, in particolare, è vissuta in una sorta di
‘limbo’ complessivamente
riluttante ad assumere ogni genere di trasformazione come oggetto di riflessione critica, vagabondando straccamente tra un intimismo totalmente soggettivo e un ‘indifferentismo’ allergico a tutto, dalla televisione al cinema, dal calcio al turismo di massa. In forme linguisticamente assai diverse, solo tre romanzieri hanno assunto, nei riguardi del loro tempo, un atteggiamento che non fosse di supina accettazione o di aristocratico disdegno:
Pier Paolo Pasolini, che con angoscia quasi mistica ha censito le potenti attitudini mortifere della modernità;
Italo Calvino, che è riuscito a conservare una fiducia tutta illuminista nella possibilità di riuscire a dominare razionalmente il
“brulicante mare dell’oggettività” contemplando il mondo dall’alto (come il suo
‘Barone rampante’, che decide di trascorrere la propria vita sopra a un albero); e
Leonardo Sciascia, la cui
‘sicilitudine ombrosa’ viene freddamente applicata a
una implacabile diagnosi dell’organizzazione pianificata del male nelle società soggette a processi di arricchimento inegualitario e troppo accelerato. Infine, dopo
una ‘lunga notte’ di muta erudizione, rischiarata solamente dal
‘crocianesimo eterodosso’ di Federico Chabod e dal marxismo ‘rovistante’ di Delio Cantimori – uno storico
‘gentiliano’ funambolicamente accampatosi su posizioni di frontiera
“per questioni di chiarezza” – il mondo dell’establishment editoriale e culturale italiano ha compiuto
il suo capolavoro più orripilante: la creazione di una
storiografia di ‘appartenenza’, che ha preteso di riscrivere la Storia d’Italia sottoforma di epopea delle grandi forze popolari che hanno costruito la democrazia. Il profilo che è stato fornito
del Partito socialista, del Partito comunista e dell’associazionismo cattolico è stato quello di movimenti abilitati al protagonismo politico del dopoguerra non soltanto dal patrimonio di lotta dell’antifascismo ma - e forse più - dalla loro
estraneità alla tradizione del moderatismo liberale prefascita. Ciò ha rappresentato un
errore gravissimo, che ha rinchiuso
l’esperienza autoritaria fascista all’interno di una ‘parentesi storica’ capitata quasi per caso, una gigantesca
‘rimozione collettiva’ che ha finito col giustificare ogni genere di
revisionismo. Grazie al cielo, non sempre un’appartenenza esplicita ha fatto velo all’onestà intellettuale, o è riuscita a ottundere le grandi capacità interpretative di alcuni storici. Così, la
‘Storia del socialismo italiano’ di Gaetano Arfè è riuscita ad approdare a una ben argomentata rivalutazione del
riformismo ‘turatiano’; la documentatissima
‘Storia del movimento cattolico in Italia’ di Gabriele De Rosa ha saputo trarre in superficie un insospettato continente di uomini e istituzioni - quello dell’intransigenza clericale e populista - in cui hanno sempre germinato
‘sensibilità sociali’ destinate a
‘vaccinare’ il cattolicesimo democratico dai pericoli del confessionalismo; la monumentale
‘Storia del Partito comunista italiano’ di Paolo Spriano ha sfatato leggende e pregiudizi
intorno a un Pci legittimo erede del Machiavelli, mettendone a nudo il cieco settarismo che lo ha reso responsabile di disastri ai quali è stato poi costretto a rimediare in fretta e furia; infine,
Rosario Romeo, ne ‘Il giudizio storico sul Risorgimento’, oltre a rianimare un indirizzo di studi ormai
negletto, ha saputo sforzarsi nel tentativo di
salvare quei valori di libertà civile, di intraprendenza individuale, di serietà politica, di competenza amministrativa e di spirito di servizio verso le pubbliche istituzioni minacciate dalla demagogia tribunizia e dalle ‘elemosine’ di uno stato sociale concepito nella maniera più ‘assistenzialista’ che si potesse immaginare. Insomma, fatte salve alcune eccezioni, per l’intellighentia intellettuale italiana la nostra società è sempre stata, per lunghi decenni,
puramente ‘supposta’, immaginata, mai indagata nelle sue movenze più profonde. Si tratta di una lacuna di non scarso rilievo, aggravata dalla colpevole sufficienza con cui si è guardato ai cataloghi delle scienze sociali, in altri Paesi in pieno rigoglìo.
L’antropologia culturale, per esempio, a livello accademico è rimasta una materia per troppo tempo tributaria della Storia delle religioni e delle cosiddette ‘tradizioni popolari’, le quali hanno fatto passare inosservati lavori notevolmente interessanti come quelli di
Franco Ferrarotti e Sabino Acquaviva. Eppure, di analisi di costume si è sempre avvertito il bisogno, se non altro perché
la cultura, in quanto sistema normativo - ovvero come repertorio di valori e comportamenti applicabili nella vita quotidiana e non certo come mero ‘bagaglio formale’ di conoscenza - subisce modificazioni continue, che non possono venir genericamente addebitate a un’appendice industriale della cosiddetta ‘società di massa’. Per i motivi che ho sopra elencato, l’Italia è oggi
un aggregato senza alcuna identità, poiché il mondo della nostra cultura ha preferito rimanere a bordo della propria
‘mongolfiera’ senza accorgersi, se non in rari casi, delle ripercussioni di un
progresso totalmente materialistico sulla mentalità, sulle abitudini, sui costumi e sui comportamenti degli italiani. Questo è uno dei nodi cruciali, che dovrebbero impegnarci in una realistica e credibile
ristrutturazione ‘interiore’ del Paese. E’ stato sempre questo il grave pregiudizio che ha afflitto la gran parte dell’intellettualità italiana, soprattutto quella
di sinistra: la convinzione che
un sistema produttivo non potesse essere modificato dall’interno, ma solamente abbattuto dalle fondamenta, per poi passare spesso all’eccesso opposto di un soggettivismo esasperato, in cui compito del pensiero ‘operaista’ non doveva essere quello di intuire i progetti del capitale per organizzare una risposta efficiente, bensì di scompaginarne le previsioni, di anticiparne le mosse, di renderne obbligatoria una direzione di marcia che determinasse una crisi irreversibile e un capovolgimento rivoluzionario. Per più di un secolo, si è esclusivamente teorizzata
l’instabilità, il radicalismo, il rifiuto di ogni mediazione, respirando a pieni polmoni quella ‘critica della democrazia’ che ha caratterizzato la militanza politica di sinistra della prima metà del novecento. L’intellettualismo italo-marxista ha finito col trasmettere un’eredità nefasta, poiché ha inaugurato
l’era del delirio della ragione e della deformazione grottesca di ogni evidenza concreta, misurabile, fattuale. Ma per riuscire a evadere da una simile concezione e giuocare veramente un proprio ruolo come forza politica e culturale credibile, una moderna sinistra socialdemocratica e riformista deve convincersi a
non poter rimuovere ogni spirito di indagine della realtà sociale e dei multiformi interessi che in essa si accavallano, senza più limitarsi a produrre qualche
cupo brontolìo sopra al cielo di un Paese in cui gli intellettuali cosiddetti
‘progressisti’ non sono quasi mai riusciti
a ‘centrare’ veramente il pensiero di fondo degli italiani, poiché hanno sempre creduto di rappresentare, essi stessi, un’umanità rigenerata. A vario titolo.
Direttore responsabile di www.laici.it e www.periodicoitalianomagazine.it