Lo scorso 16 marzo l’arresto di George Clooney a Washington aveva richiamato l’attenzione sull’emergenza umanitaria in Sud Sudan, con migliaia di profughi che oltrepassavano il confine per sfuggire agli scontri tra le forze governative di Khartoum e l’Esercito popolare di liberazione nazionale. In questi giorni, spirano venti di guerra tra i due Paesi: in ballo ci sono il controllo dei pozzi petroliferi e la ridefinizione dei confini nazionali, oltre a interessi geopolitici che oltrepassano il continente africano. Il polverone mediatico, ampiamente voluto da George Clooney al momento dell’arresto per aver violato le regole imposte durante la protesta innanzi all’ambasciata sudanese, si è abbassato quasi immediatamente. I profughi, tuttavia, continuano a raggiungere i campi Onu situati al di là del confine sud sudanese, destando preoccupazioni tra le organizzazioni non governative che operano nell’area. Il Sudan non è nuovo a conflitti etnici, che già in passato hanno causato migliaia di morti e sono costati al presidente al-Bashir l’incriminazione, da parte della Corte internazionale penale, per i reati di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La guerra nel Darfur ha infatti sdegnato la comunità internazionale per la violenza degli scontri e costretto l’Onu a inviare un contingente di forze di pace al fine di mantenere una labile tregua. I combattimenti cui stiamo assistendo in questi giorni, invece, seguono la scia della guerra civile pluridecennale tra nord e sud del Sudan, che ha portato agli accordi di pace del 2005 e al conseguente referendum con la nascita del Sud Sudan nel 2011. È difficile comprendere chi tra i due Paesi abbia per primo aperto il fuoco. Tuttavia, la situazione in queste ore rischia di degenerare in una guerra dagli esiti non prevedibili. Ciò che risulta chiaro è l’oggetto del contendere: la linea di confine, i cui minimi spostamenti fanno la differenza, soprattutto se in ballo ci sono pozzi petroliferi che potrebbero modificare significativamente il Pil di uno dei due Stati. È il caso della città di Heglig, che sorge a una manciata di chilometri dalla frontiera, la cui produzione di petrolio ha fatto la fortuna di Khartoum e contribuito al boom economico dell’ultimo decennio. L’esercito sud sudanese non ha indugiato a entrare in territorio ‘straniero’ per far suoi i pozzi petroliferi. A nulla sono valsi gli appelli del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, al Governo di Giuba, affinché rispetti i confini e ritiri immediatamente le truppe. Come risposta all’occupazione di Heglig, l’esercito sudanese ha anch’esso violato la sovranità del Sud Sudan bombardando la città di Bentiu, principale centro nel nord del Paese, al fine di rallentare l’avanzata dei contingenti militari verso il confine. Nel frattempo, i profughi continuano ad arrivare nel campo sud-sudanese di Yida e le organizzazioni non governative, tra cui Medici Senza Frontiere, con un’enfasi mediatica purtroppo meno efficace rispetto all’arresto di Clooney, denunciano l’emergenza umanitaria per la difficoltà di portare acqua, cibo e medicinali. Quello degli esodi di massa dalle regioni meridionali del Sudan, in particolare dal Blue Nile State, riguarda un altro aspetto importante per interpretare l’instabilità dell’area. Il timore di Khartoum è di perdere nuovi ‘pezzi’ di Stato, sulla scia dell’indipendenza del Sud Sudan, con la conseguente riduzione della produzione di greggio. Da qui i combattimenti tra le forze governative e i ribelli, che tentano di strappare altre aree del Sudan dal controllo centrale. Oltre all’inevitabile riduzione della vendita di ‘oro nero’, l’indipendenza del Blue Nile State e del Kordofan toglierebbe alla Cina il monopolio nell’estrazione di petrolio. Qui entra il gioco un fattore geopolitico non irrilevante, con i cinesi che sono tra i principali estrattori di greggio in Sudan. E si comprende la volontà di Pechino a voler mantenere lo status quo, per evitare guerre che favorirebbero le compagnie petrolifere occidentali, escludendo l’influenza ‘orientale’ nel Paese. Infine, c’è da ricordare che una guerra tra Sudan e Sud Sudan andrebbe a infuocare un’area, quella del ‘Corno d’Africa’, già fortemente instabile. La Somalia continua, infatti, a essere investita da una guerra civile inarrestabile, mentre l’Eritrea e l’Etiopia sono sottoposte a dure dittature che stanno facendo sorgere dei gruppi oppositivi interni. Senza dimenticare il Darfur, in cui la flebile tregua, faticosamente conquistata, potrebbe saltare da un momento all’altro.