Susanna SchimpernaIl fatto che i verbi liberalizzare e privatizzare siano ormai utilizzati come sinonimi dovrebbe essere insopportabile e allarmante, invece pare normale e lecito. Peccato che comporti uno svilimento assoluto del meraviglioso termine “libertà”, ma soprattutto, sul piano pragmatico, rappresenti una vera e propria frode. D’altra parte perché meravigliarsi, in un momento in cui “socialismo” e “comunismo” suonano come parolacce, e dimenticando quanto di sano ci sia in una visione della società che vede l’individuo agire in armonia con gli altri, si sceglie di ricordare solo – e sono ormai slogan – che il socialismo ha fallito, che il comunismo ha prodotto bagni di sangue. Liberalizzare e privatizzare non sono omonimi, non sono sinonimi, non sono neppure parenti. Perciò, che oggi la più grande ricchezza (quindi allo stesso tempo fonte di vita, potere e ricatto), ovvero l’energia, sia legalmente e tranquillamente affidata ai grossi gruppi finanziari deve farci tremare. Le argomentazioni non convincono. Nessuna. Gli obiettivi del piano triennale 2006-2008 per la privatizzazione dell’energia elettrica erano la ristrutturazione, l’ammodernamento, la riduzione dei costi, la sicurezza dell’approvvigionamento. Infatti. Tutto risolto adesso, come possiamo constatare. Con la gioia per di più dei risparmiatori, attirati dalla prospettiva di guadagnare quanto gli investitori dei primi collocamenti dell’Eni (la privatizzazione dell’Eni iniziò nel 1995, con 4 offerte nello spazio di circa due anni e mezzo) e rimasti invece non delusi, ma seriamente impoveriti. Statalizzare è antistorico mentre privatizzare vuol dire accogliere le nuove grandi sfide della globalizzazione, guardare al futuro? Come no. Nell’estate del 2000 la California fu colpita da un fantastico e modernissimo black out, i cui fattori principali furono le operazioni speculative attuate dai brokers e le distorsioni della deregulation. Notare che la deregulation non aveva né abbassato i prezzi né aumentato la disponibilità d’energia, come dovette riconoscere persino il governatore Gray Davis, che l’anno seguente sbottò: “Abbiamo prezzi alle stelle, speculazione, incertezza nell’approvvigionamento di elettricità”. Il punto è che i benefici maggiori, in termini non solo economici ma di potere, sono delle multinazionali. La prospettiva che una risorsa indispensabile come l’energia sia nelle mani del grande capitale e dei suoi giochi è un incubo, ed è sconcertante pensare che venga accolta con tanto favore da chi si dichiara orripilato all’idea di statalizzare. Sarà che ciascuno ha i propri incubi, ma vale la pena sottolineare che alcuni sono basati su idiosincrasie ideologiche, altri razionalmente fondati. L’Europa e non solo l’Europa vanno però ormai, a passi veloci (e anatema sull’Italia che recalcitrava), verso la privatizzazione. Notare anche qui il costante e ormai ineludibile uso alternato e scambievole di “liberalizzazione” e “privatizzazione”. Nel decreto legge Bersani, nel paragrafo dedicato alla crescita, c’era una bella esortazione nonché dichiarazione d’intenti a “proseguire la liberalizzazione dei servizi energetici”, in adeguamento alla direttiva europea che prevedeva (e prevede) la disintegrazione dei monopoli e “l’introduzione della competitività nella generazione e vendita dell’energia”. Dunque, lo statalismo è ormai improponibile, vecchio, marcio, ma il liberismo evidentemente no, al contrario, viene considerato il pensiero filosofico-economico più adeguato a gestire il presente. E perché? I risultati non lo premiano, e moralmente è disgustoso. Furbo, però. Pervasivo, duttile, capace di appropriarsi di tutto, manipolare tutto. Un esempio: le grandi compagnie stanno promuovendo la ‘Green Economy’, energia pulita da fonti rinnovabili (acqua, sole, vento), in modo di tenere buoni gli ecologisti meno avvertiti, rifarsi un look e concludere altri affari. Non bisogna lasciarsi incantare. La vera strada non sono soltanto le fonti rinnovabili, ma l’abbandono dei grandi impianti che devastano i terreni agricoli e il paesaggio oltre a dare sempre più potere a chi già ne ha troppo. La vera strada è la produzione e gestione dell’energia a livello locale, in modo che tutti siano produttori, la tecnologia sia “leggera”, gli sprechi infinitamente minori (la produzione si può commisurare ai bisogni e inoltre si sfruttano le opportunità specifiche dei singoli territori). Esperimenti di cooperative già esistono, in Italia soprattutto per l’installazione fotovoltaica, in altri posti (es. la Ohio Cooperative Solar, in Ohio) anche per la produzione. Lavoratori che vengono pagati e reinvestono nell’azienda la cui energia consumano. Perché la fine dei grandi monopoli non può essere il consegnarli nelle mani delle società multinazionali: questo è un paradosso, è la metamorfosi dei monopoli che assumono forme ancora più elefantiache e mostruose. Un vero sinonimo di liberalizzazione dunque esiste. E sarebbe bene cominciare a pronunciarlo e rifletterci sopra: democratizzazione, da demos, popolo, e prima ancora demo, la più piccola unità territoriale dell’antica Grecia.




(articolo tratto dalla rivista settimanale ‘Gli Altri’)
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Emanuele Donadelli - Modena, Italia. - Mail - lunedi 6 febbraio 2012 18.54
Sono totalmente d'accordo con te, Susanna.
Continua a dare voce alle tue idee sperando che "illuminino d'immenso" qualcuno, anche se con i tempi che corrono un po' ne dubito e mi accontenterei di un lumicino.
giovanni palillo - agrigento italia - Mail - lunedi 6 febbraio 2012 11.20
molto interessante.


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