In questi giorni ricorre il 12esimo anniversario della scomparsa di Bettino Craxi e, quasi contemporaneamente, il ventennale dell’esplosione dello scandalo di Tangentopoli, ovvero di quel ‘fatto instaurativo’ che ha sostanzialmente generato il fortissimo indebolimento della politica italiana, causandone la grave e progressiva degenerazione. L’occasione è dunque propizia per tornare a riflettere intorno ad alcuni temi e problemi che, in questi ultimi tempi, fanno da sfondo a molti ragionamenti. I recenti richiami a una maggior sobrietà di comportamenti da parte delle diverse forze parlamentari appaiono, a prima vista, assai condivisibili. Anche se chiedere maggior serietà a una classe politica che non lo è affatto costituisce pretesa vana, un’istanza insensata: sobri bisogna esserlo, non dirlo, perché la sobrietà è uno di quei criteri che appartiene, per specularità, alla medesima categoria del ‘carisma’, cioè a quel genere di qualità che, se non si hanno, nessuno se le può dare. La sobrietà, la serietà, il carisma, la stessa autorevolezza emblematica appartengono agli atteggiamenti maggiormente legati alla più autentica riflessione civile, all’approfondimento reale delle questioni, alla meditazione più competente. Bettino Craxi era carismatico poiché infarciva i propri discorsi di pause all’interno delle quali calava, profondissimo, il proprio pensiero, da cui emergeva, quasi come un ‘lampo’, una nuova sintesi specifica e precisa. Enrico Berlinguer, a sua volta, era una persona seria in quanto umanamente sofferente nel proprio sforzo di rendere più elastica una dialettica, quella marxista, assai rigida e ottocentesca. I suoi occhi erano la rappresentazione stessa di chi compiva l’enorme sforzo di sfuggire a ogni genere di totalità dottrinaria, al fine di aggirare ogni ostacolo con quella scettica eleganza che proveniva dalle sue stesse origini sarde. I sardi sono un popolo estremamente intelligente, che da interi millenni vive sopra a un’isola. Dunque, essi tendono a far ‘quadrare’ ogni ragionamento riproponendo la medesima ‘chiusura’ che, umanamente, conoscono da sempre. La sobrietà sarda di Enrico Berlinguer – o dello stesso Gramsci - e il carisma riflessivo di Bettino Craxi: ecco dunque un paio di caratteristiche che la politica italiana dovrebbe rispolverare con urgenza, al fine di proporre una nuova squadra di esponenti pronti a guidare il Paese nei prossimi anni. In un mondo che ormai vive di immagini, di forma più che di sostanza, questo genere di riflessioni sono importanti almeno quanto quelle relative alle riforme strutturali e istituzionali di cui necessita il Paese. Sotto il profilo della sobrietà, la negatività del ciclo ‘berlusconiano’ appare, infatti, nella sua pienezza come una forma di ‘ipercomunicazione’ tendente a saturare i problemi prima ancora di affrontarli. Massimo D’Alema e Gianfranco Fini, capitati quasi per caso a dover gestire il ‘frangente’, sono solo riusciti a limitare i danni di questo ‘ultrapropagandismo’, apparendo tuttavia troppo ‘professionisti’, sfortunati eredi degli strascichi ideologici di un altro secolo. Perché sobri o lo si è, o non lo si è. E quando la sobrietà viene evocata, essa diventa ricatto o, addirittura, terrorismo psicologico. Se la politica italiana intende veramente rinnovare se stessa e tornare a convincere i cittadini delle proprie ragioni, essa dovrebbe invece diventare, al contempo, più umanista e più umana: più umanista nella propria cultura di fondo; più umana nel modo di proporre le decisioni da prendere. E’ un nuovo linguaggio quel che serve veramente. Bene: inventiamolo allora, senza gli ‘sbrodolamenti’ alla Nichi Vendola o le volgari forzature di Umberto Bossi. Nella prima Repubblica, un buon linguaggio politico era quello rappresentato dal qualunquismo ‘colto’ di Giulio Andreotti: “A pensar male si fa peccato, ma raramente si sbaglia…”; “in Italia, tutto si aggiusta…”; “il potere logora chi non ce l’ha…”. Questi ‘adagi’ hanno rappresentato, per interi decenni, frasi e modi di dire spiritosi e, al medesimo tempo, illuminanti: come mai non riesce a emergere un’intelligenza di questo tipo tra i ‘marosi’ della politica italiana? Semplice: per l’evidente mancanza di una cultura umanista. Oggi, tutti si rivolgono alla tecnologia e allo sviluppo di messaggi che, per propria natura, sono eccessivamente tecnici, quasi criptici nella loro sintesi estremizzata: non serve saper ‘twittare’ in 140 caratteri uno slogan, poiché in tal modo si finisce col replicare i medesimi errori del ’68, allorquando si creò un ‘sinistrese’ che era solito utilizzare i cosiddetti ‘paroloni’ come dei semplici ‘gusci vuoti’. Paradossalmente, tutto ciò può solo complicare ulteriormente le cose. Resta pur vero che anche le ‘freddure’ di Andreotti oggi risulterebbero alquanto obsolete. Così come, alla fine, è stato per la stessa pseudo-modernità seduttiva del ‘berlusconismo’, che ha perfino costretto un ministro donna, nel corso di una trasmissione televisiva, a riflettere circa “l’entità” del ‘sorcio’ ritrovato ‘in bocca’ a un esponente della propria maggioranza. In questo caso, ci siamo ritrovati di fronte all’eccesso opposto rispetto al cinico qualunquismo ‘andreottiano’, cioè in un territorio linguistico ‘scivoloso’, se non addirittura ridicolo sin quasi all’oscenità. L’Italia ha bisogno di nuovi leader, non di nuovi comici. Ma in politica, i leader sorgono sulla base delle diverse forze che essi riescono ad aggregare attorno a se stessi. E se, oltre alle vetuste ideologie, né il denaro, né gli interessi materiali e neanche il sesso riescono, allo stato attuale, a giustificare una leadership, il ‘collante’ di un nuovo linguaggio politico può sorgere solamente sulla base di innovativi elementi di umanità. Un leader umano non è un politico ‘buono’ o ‘buonista’, come ha sostenuto in passato Walter Veltroni. Un leader umano è quel personaggio politico capace di ammettere di aver sbagliato allorquando ciò si rende necessario. Oppure, è quell’esponente capace di far comprendere che un ridimensionamento di stipendi, privilegi e prebende per i politici potrebbe essere apprezzato dal popolo, in tempi di ristrettezze. Non certo imponendolo ‘per imperio’, ma discutendolo con insistenza, con fermezza, con caparbietà. Nel mondo del cinema italiano, queste ‘corde’ erano tipiche di un attore come Gian Maria Volontè. Le sue interpretazioni di Enrico Mattei o del magistrato della pubblica accusa nel film ‘Porte aperte’, tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, rappresenterebbero le caratteristiche che andiamo cercando. Ma dove lo troviamo un politico con una ‘faccia’ così? Ricco, anzi ricchissimo, di elementi umanistici era anche il modo di esprimersi del compianto Aldo Moro: alludere senza dire, connotare senza ferire, distinguere senza dividere. Ma anche qui: dove lo troviamo un politico del genere? Ce l’abbiamo un Aldo Moro in circolazione, una sorta di ‘ipnotizzatore’ dei dibattiti politici? Precedentemente alla drammatica tragedia che lo investì nei primi mesi del 1978, Moro veniva deriso dalla satira non tanto per il proprio ‘illusionismo’, bensì come vero e proprio ‘addormentatore’ di ogni confronto, in quanto esponente dotato di un linguaggio talmente irto di complessità sintattiche da riuscire a svelenire il clima per raggiunta noia degli ascoltatori, anche quelli più pazienti e concentrati. In politica, infatti, la noia ha sempre svolto una funzione specifica: quella della più solida alleata della comprensione sostanziale dei contenuti, poiché ci costringeva tutti quanti a leggere e a rileggere, a pensare e a capire fino in fondo. In questo modo, la politica poteva fare dei passi lenti e tuttavia decisivi. Non era limitata in una logica da annuncio, da ‘spot’ pubblicitario. Il problema è che, tra i personaggi politici di oggi, non ce n’è nemmeno uno che ami ‘annoiare’: al contrario, sembrano tutti posseduti da un ‘demone logorroico’ che li porta a ragionare in fretta e furia, a straparlare goffamente, nell’incredibile ansia di dover risultare simpatici a tutti i costi. Vogliono tutti esprimersi con il linguaggio della “gente comune”, finendo col comunicare ‘un po’ troppo’ come la gente comune. Chiedersi dove ‘caspita’ i Partiti siano andati a prendere certi esponenti di oggi rimane una questione che mantiene una propria legittimità. Ma a parte questo problema, dove andiamo a selezionare i nuovi leader, se nemmeno le vecchie scuole di Partito esistono più? Un tempo, il Pci preparava i propri dirigenti alle Frattocchie; per entrare nel Psi bisognava essere presentati innanzi alla Direzione nazionale del Partito da almeno due tesserati di lunga data; nella Dc, se non si dimostravano effettive aderenze in Vaticano o non si apparteneva a una precisa ‘corrente’ di riferimento, col ‘cavolo’ che si riusciva a emergere in mezzo a un branco di autentici ‘squali’. E oggi? Nel Pdl ci sono una serie di associazioni culturali abbastanza interessanti e dai nomi spesso evocativi. Nel Pd, viceversa, un certo ‘fottìo anarchico’, legittimato dal morboso meccanismo delle primarie, sembra essere il metodo prescelto per la selezione della nuova classe dirigente. Sì, forse una via d’uscita dalla propria profondissima crisi la politica italiana la sta pure cercando. In modi più pazzeschi che fuorvianti. Ma di sobrietà nemmeno a parlarne: non serve a granché, trattandosi di un accessorio assolutamente secondario di un dibattito, purtroppo, totalmente marginale.