Giorgio PrinziDa molti anni abbiamo sostenuto che il programma nucleare iraniano avesse e ha finalità belliche. E che, se l’Iran fosse stato in procinto di realizzare un ordigno nucleare, sarebbe scattato un intervento preventivo militare condotto da una coalizione a sostegno di Israele, assolutamente non in grado di affrontare da solo un conflitto la cui portata è difficile da valutare. Inoltre, abbiamo più volte sottolineato che un attacco alla installazioni belliche nucleari e missilistiche iraniane non si sarebbe potuto limitare a sole azioni dal cielo, ma avrebbe richiesto una fase terrestre per distruggere i siti allocati in profonde caverne che oscurano la vista persino ai più sofisticati satelliti da osservazione, quelli in grado di “vedere” sotto la superficie terrestre. Le agenzie che in questi giorni si sono susseguite sulla questione confermano con un livello di approssimazione che ci gratifica quanto scriviamo da anni. In particolare al riguardo, Israele ha simulato un attacco aereo a lungo raggio con contrasto attivo da parte di velivoli di Paesi amici in una esercitazione contro una base italiana, quella di Decimomannu in Sardegna; Stati Uniti e Gran Bretagna hanno reso noto di avere pianificato la dislocazione di unità navali su posizioni di attacco missilistico all’Iran e di essere pronti ad una azione terrestre di truppe speciali, forse solo un eufemismo per parlare della onerosissima penetrazione in profondità con truppe di terra. A tal punto il lettore si sarà chiesto come abbiamo fatto a descrivere con anni di anticipo uno scenario ufficialmente inesistente, anzi a lungo escluso dai rapporti dell’IAEA, l’Agenzia delle Nazioni per l’energia atomica, che ha per molti anni parlato del programma nucleare iraniano come finalizzato ad usi civili. Siamo della Cia, del Mossad, dei Servizi più o meno deviati o, addirittura, confidenti, ovviamente inaffidabili, di qualche alta personalità iraniana? Niente di tutto questo, semplicemente conosciamo a livello professionale la materia nucleare e ci siamo letti con lo spirito critico dell’analista le fonti aperte disponibili a cominciare proprio dai documenti della IAEA. Certo, bisogna saperli leggere, ma questo è solo questione di competenza tecnica professionale specifica. Ad esempio, che l’Iran fosse in grado di produrre Polonio-210 con un apparato laser è una vecchia informazione contenuta nei rapporti dell’IAEA. Che questo radioisotopo sia un elemento indispensabile per fare detonare un ordigno al plutonio è una conoscenza tecnica legata alla sfera professionale. Tralasciamo i particolari, ma se ci si impegna a produrre questo costosissimo radioisotopo, peraltro a emivita relativamente breve, non si pensa certo all’elettrogenerazione. Inoltre l’Iran ha realizzato un avanzato impianto (sito di Arak) per la produzione di acqua pesante, il cui impiego è noto persino ai lettori di soli fumetti. Su internet si trovano anche le foto satellitari dei siti iraniani con delucidazioni e didascalie inequivocabili per chi naturalmente abbia voglia e competenza per affrontare con serietà professionale il problema. Questo è il nocciolo del problema. Purtroppo, soprattutto nel settore della comunicazione, manca competenza e spesso anche professionalità. Viene considerata notizia solo l’esternazione, magari estemporanea se non interessata e manipolatoria del personaggio politico di turno, si riportano acriticamente i giudizi contenuti nei documenti ufficiali, quasi sempre filtrati da intermediari non neutrali, senza leggere direttamente le fonti e tanto meno analizzarle e valutarle spesso anche per inadeguatezza professionale. Un detto della saggezza popolare dice: “can che abbaia, non morde”. Già, ma abbaia e quasi sempre mostra anche i denti; magari non ha effettivamente intenzione di addentare, ma lancia un avvertimento. Se non ci si ferma, se si prosegue in quello che dal cane viene avvertita come una minaccia o comunque un’intrusione, forse il detto dovrebbe venire modificato in “il cane prima abbaia, ma poi morde .... e magari anche di brutto”. Fuori di metafora. Assai probabilmente l’Iran è ormai relativamente prossimo, sia pure in tempi difficili da valutare con esattezza, a realizzare l’arma nucleare, forse al plutonio e non all’uranio ad elevatissimo arricchimento, quest’ultimo tipo di ordigno apparentemente meno complesso ma condizionato dalla tecnologia adatta a raggiungere il grado indispensabile di arricchimento che sinora l’Iran sembra non essere riuscito ad acquisire. Si “abbaia” pertanto cercando di dissuadere la sua classe dirigente a non andare oltre a fermarsi in tempo, a non superare la soglia limite del non ritorno oltre la quale, nell’ottica di chi si sente minacciato, sarebbe “inevitabile” l’attacco. Al riguardo all’Iran sono dati già dei segnali inequivocabili quali l’attacco informatico con il virus “stuxnet”,l’eliminazione mirata di scienziati di punta nella realizzazione del programma nucleare militare, con forse un “incidente” alle centrifughe con contaminazione del sito e di alcuni operatori per fare sentire, come si dice in gergo, il “fiato sul collo” alla dirigenza iraniana, nel senso di farla sentire spiata e vulnerabile. Il problema è ora tutto interno all’Iran, agli equilibri di potere al suo interno, al prevalere o meno della fazione dei “falchi” o di quella delle “colombe”. L’Occidente per ora lancia dei messaggi, sta “mostrando bandiera” con fermezza e determinazione. Sinora le simulazioni d’attacco a lungo raggio erano state eseguite solo da Israele ed in esercitazioni senza contrasto; per la prima volta ci troviamo di fronte, con un innalzamento del livello dissuasivo, ad una esercitazione congiunta e, fondamentale dal nostro punto di vista, con un ruolo centrale dell’Italia che ha messo a disposizione lo scenario della base di Decimomannu, descritta nel sito “non ufficiale” http://www.decimomannuairbase.com/. Apprendiamo da questa fonte che la base è specializzata nella simulazione di combattimenti aerei con reparti “nemici”, con piloti che operano secondo le tecniche e le tattiche del potenziale avversario, nel corso della guerra fredda persino su velivoli dell’ex Unione Sovietica, di cui la Nato era entrata in possesso. Anche il profano più sprovveduto si renda conto del messaggio in codice lanciato all’Iran con una esercitazione di attacco simulato contro quella base: guardate che facciamo sul serio, come ai “bei tempi”dell’ex Unione sovietica. Sempre in questa ottica avevamo analizzato in chiave geopolitica gli eventi della cosiddetta “primavera araba” che, andando anche in quel caso controcorrente, avevamo interpretato come una applicazione in chiave moderna della teoria geopolitica delle terre al margine, in cui il controllo, oggi ottenuto attraverso la destabilizzazione e la riduzione nella sfera di influenza dello Stato attore dell’azione, è strumento indiretto di predominio sul territorio principale, il vero obiettivo. Nell’articolo in cui affrontavamo l’argomento, rimanevamo nel dubbio se quella che a noi sembrava una chiara strategia di destabilizzazione venisse condotta nell’ottica di Zbigniew Brzezinski, che ispira il Dipartimento di Stato, quindi la visione politica, o in quella di Edward Luttwak, che informa l’azione del Pentagono, quindi la visione militare della geopolitica. Oggi propendiamo per questa seconda ipotesi, che ci porta ad interpretare le vicende WiKileaks anche sotto il profilo del conflitto interno statunitense tra approcci diversi e visioni differenti. Alcune rivelazioni dell’organizzazione di Julian Assange, oggi divenuto una inutile pedina da neutralizzare, quali quelle della richiesta di molti governi islamici a favore di un attacco preventivo contro l’Islam, hanno contribuito a destabilizzare regimi che sembravano stabili, con finalità che forse solo ora riusciamo a cominciare a comprendere. Sono stati i primi atti della teorizzata guerra tra civilizzazioni, dello scontro frontale tra mondo islamico e Occidente che sembra assumere i connotati futuribili di un conflitto non convenzionale in cui non conta solo la forza delle armi, ma sono altrettanto determinanti gli aspetti cibernetici (cyberwar), con la comparsa per la prima volta nel campo della conflittualità dell’utilizzo di internet per porre in atto azioni di destabilizzazione, di “guerra psicologica”, di disinformazione classica condotta con gli strumenti della società dei computer, dei blog e dei social forum. Da quel poco che si riesce a sapere, si tratta di tecniche multidisciplinari, in cui giocano un ruolo fondamentale la psicologia e la sociologia, messe in atto spesso da attori operanti al sicuro, fuori dalle aeree bersaglio dell’azione. Così avrebbe funzionato il tam tam informatico, che ha coinvolto società e culture rese sensibili al richiamo “rivoluzionario”con altri “più banali” stratagemmi. La primavera araba è stata resa possibile da una forte crisi economica indotta, che le opinioni pubbliche occidentali non riescono ad immaginare, in quanto anch’esse in ampia parte manipolate con tecniche omologhe, informate al principio che se vuoi fare qualcosa di “sporco”devi motivarlo con nobilissimi valori, nello specifico, per l’Occidente, di sensibilità ecologista e di salvaguardia dell’ambiente, quali l’impiego di granaglie e varie per la produzione dei cosiddetti biocarburanti. Il distogliere da usi alimentari le sole eccedenze di questi prodotti ha causato effetti devastanti in Paesi in cui la spesa per il sostentamento raggiunge l’80% del bilancio della famiglia media. Le rivolte sono state rese possibili da motivi economici, anche se tra i vari fattori ci sono stati quelli generazionali, molto enfatizzati in Occidente, ma non gli unici e alla fine minoritari e perdenti di fronte alla preponderanza delle forze della tradizione più retriva e restauratrice. Da questa punto di vista la “primavera araba” potrebbe apparire (speriamo di no) sempre più un “malinconico autunno” se non un vero e proprio “tempestoso inverno”. La Libia è il caso più emblematico. A chi giova tutto questo? Noi (l’autore che firma) lo vediamo nell’ottica delle teorie geopolitiche di destabilizzazione con finalità strategiche. Forse non a caso la Siria, Paese chiave in uno scenario di conflitto scatenato dall’Iran contro Israele o di un attacco preventivo di Israele (e di Paesi della Nato) contro l’Iran, rappresenta un’anomalia, nel senso che l’Occidente non interviene apertamente a sostegno degli “indignati”locali, forse interessato al permanere al potere di un regime sopraffatto dalla instabilità interna e, quindi, troppo debole impegnarsi in un conflitto esterno. Senza un efficace appoggio siriano anche Hezbollah viene fortemente ridimensionato come minaccia effettiva in caso di conflitto nell’area. Ma c’è di più. Con l’esercitazione aerea imperniata sulla base di Decimomannu, il messaggio in codice che è stato dato è stato anche quello che l’Italia è apertamente schierata con Israele e la Nato e, in caso di deflagrazione conflittuale nell’area, non ci sono dubbi con chi “andrà sotto braccio”. Ipotesi peregrina, frutto della fantasia di chi scrive? Può anche darsi, ma questi più recenti avvenimenti sono sinergici all’impressione riportata in una nostra visita al Centro sperimentale di Montelibretti, di cui abbiamo riferito, sul fatto che l’Esercito sta mettendo in conto anche l’ipotesi di dovere fare fronte ad esigenze di scontri campali classici, con consistente minaccia aerea anche e soprattutto di natura missilistica. Un’ipotesi che ben si adatta ad uno scenario di crisi militare in Libano dove siamo presenti con un forte contingente, attualmente sotto l’egida delle Nazioni Unite, ma che potrebbe passare sotto comando Nato, come peraltro già avvenuto nelle prime fasi delle operazioni militari a sostegno degli “indignati” libici e proprio su specifica richiesta dell’Italia. Quale allora le conclusioni di questo nostro, come sempre, lungo ed articolato discorso. Un attacco all’Iran sarebbe devastante e non potrebbe essere sostenuto dal solo Israele. Gli Stati Uniti e Paesi della Nato, tra cui l’Italia, hanno con l’esercitazione di Decimomannu fatto sapere in codice all’Iran di non farsi illusioni, sul fatto che l’Occidente sia pavido ad affrontare questo scenario, che come da anni diciamo e come viene in questi giorni confermato da autorevoli dichiarazioni, richiederebbe l’impiego di cariche demolenti nucleari, probabilmente da piazzare in sito con azioni terrestri (le fonti ufficiali parlano di truppe speciali, più verosimilmente sarebbe necessaria una profonda penetrazione di massa con truppe terrestri) che prefigurano uno scenario conflittuale di grosse dimensioni. Per questo, secondo l’opinione personale di chi scrive, si è cominciato con il mettere in crisi un intero arco di Paesi islamici in modo da progressivamente sgretolare la loro tenuta e le loro capacità operative sul campo di battaglia. Egitto e Paesi limitrofi di retrovia sarebbero, sempre a mio avviso, stati destabilizzati in quest’ottica conflittuale sul campo. Un trattamento “particolare” alla Siria per il suo stretto legame di alleanza con l’Iran e per il suo ruolo di cinghia di trasmissione con Hezbollah. L’attacco comunque non sarebbe imminente, anche se pianificato e con le operazioni preliminari, quali la destabilizzazioni delle aree ai margini, già messe in atto. Si spera che questo “mostrare bandiera” porti l’Iran a rivedere la sua politica nel settore del nucleare militare. Si ha infatti notizia di forti difficoltà sul fronte interno del Presidente Mahmud Ahmadinejad, peraltro non rieleggibile per un terzo mandato nella presidenziali del giugno 2013, e del gruppo che lo sostiene, in forte calo di consensi. Sarebbe pertanto già un risultato positivo se a prevalere fosse un candidato espressione di una diversa visione strategica e di un diverso impegno politico, orientato a risolvere i gravi problemi economici e sociali interni, piuttosto che a correre dietro a sogni di egemonia a cominciare dalla realtà del mondo islamico, affatto monolitico e con la componente di osservanza sunnita preoccupata non meno dell’Occidente da queste mire dell’Iran di confessione sciita. Un successo maggiore sarebbe una maggioranza parlamentare su posizioni opposte dall’attuale nelle più vicine elezioni politiche del marzo 2012, che metterebbe sotto scacco Ahmadinejad nell’ultimo anno del suo mandato, ridimensionando le sue residue velleità. L’auspicio è pertanto che un “felice” esito dello scontro politico interno, magari condizionato dal rischio di un conflitto esterno, possa evitare il deflagrare di un confronto in armi di vaste dimensioni, pesante ed oneroso per tutti. La politica, riecheggiando un famoso aforisma, potrebbe essere in questo caso l’alternativa con altro approccio conflittuale alla guerra classica in armi. Vogliamo almeno sperare che sia così.




Segretario nazionale del Comitato italiano per il rilancio del nucleare (Cirn)
(articolo tratto dal sito www.agenziaradicale.com)

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