Vittorio LussanaLa deriva utilitaristica e opportunista di questi ultimi 18 anni di vita politica italiana si è rivelata per ciò che essa è sempre stata: una compressione forzata della condizione economica di molti a vantaggio di pochi, il risultato cercato e voluto di quanto la cultura aziendalista si era posta come finalità di lungo periodo attraverso le formule della ‘flessibilità’ e della sostanziale precarizzazione del mercato del lavoro. Di tutto ciò, né Berlusconi, né gli esponenti politici a lui vicini, anche quelli più intelligenti come Giulio Tremonti, ne sono stati molto consapevoli. Di tali rischi erano, invece, al corrente i socialisti italiani, i quali cercarono invano di applicare alcune formulazioni in grado di riequilibrare i possibili contraccolpi dovuti alle improvvise ‘sfasature’ tra le diverse classi sociali. Il Psi di Craxi non fece tuttavia in tempo a porre in essere il proprio programma di ‘globalizzazione verso l’alto’ della nostra realtà socio-economica, poiché fu travolto dalle inchieste giudiziarie. E ciò che rimase come impressione di fondo, dopo le inchieste di Tangentopoli, fu l’erronea apparenza di un ricorso a una politica di accrescimento del debito pubblico che non aveva dato i risultati sperati: una sorta di ‘rozzo keynesismo’ abbandonato, a causa degli eventi, a metà. Ciò ha comportato, a sua volta, la discesa in campo di Silvio Berlusconi, il quale non ha mai compreso di muoversi in base a presupposti ben diversi rispetto a quelli che caratterizzavano le analisi dei socialisti italiani: Craxi e Formica tagliavano ma sanavano, gestivano ma, allo stesso tempo, soccorrevano la domanda di consumo interna degli italiani. L’avvento della seconda Repubblica, invece, ha finito coll’imporre una costrizione al risparmio che ha generato scarse aspettative di massimizzazione dei profitti, scoraggiando ogni forma di investimento innovativo in grado di svolgere una funzione di effettivo sostegno verso reali metodologie di riorganizzazione industriale. Negli anni del I Governo Prodi, per esempio, l’inflazione subì una netta flessione dovuta, in larga parte, al crollo della domanda di consumo interna. Quest’ultima finì col trovare il proprio punto di equilibrio a un livello talmente basso da non riuscire ad attrarre a sé il prezzo delle merci. In pratica, di fronte a una sommaria stabilizzazione dei prezzi si decise di contrapporre un vero e proprio blocco dei consumi interni, che dura tutt’oggi. Dunque, riprendere il filo di un discorso riformista ben preciso, che possiede ‘padri nobili’ anche nel mondo cattolico (Enrico Mattei e Giulio Andreotti) non rappresenta solamente una necessità imposta dalle condizioni della nostra economia interna, bensì è questione strettamente legata al dovere morale di chi deve predisporre un’alternativa credibile agli italiani rispetto alla politica delle destre. Ciò impone di far nascere le nostre riflessioni dal punto di analisi più umile possibile, pena l’adesione incondizionata dell’Italia ai modelli commerciali imposti dalla cultura più selvaggiamente aziendalista. Il massacro dei Partiti laici, congiuntamente al fallimento della cultura antagonistica del comunismo mondiale, di fatto ha rinnegato ogni genere di modello culturale. Per dirla con l’inascoltato Francesco Cossiga “in nome della vittoria sulle ideologie si è finito col diffidare di chiunque avesse anche semplicemente un’idea…”. E’ fuor di discussione che, all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, fosse corretto cercare di porre un freno alla corruzione politica e alla commistione che si era venuta a creare tra questa e il mondo degli affari. Ma da quegli scandali sarebbe stato opportuno anche trarre una serie di considerazioni maggiormente lungimiranti, in termini politici, senza compiere abiure che ci hanno portato verso territori assai distanti rispetto alla grave esigenza di dialogo e di comprensione reciproca di cui necessita, disperatamente, la società italiana. Ciò che non si riesce a far comprendere, lo scrivo con assoluta coscienza e in piena sincerità, è che il crollo delle ideologie politiche, quella comunista ma anche quelle dei Partiti storici presi nel loro complesso, ha favorito – e ciò non sarebbe dovuto accadere – l’avvento di una nuova demagogia assai peggiore dell’ingenuo edonismo socialista della ‘Milano da bere’, un processo di inculturazione generale che ha ridotto la politica stessa a vuoto messaggio propagandistico da proporre attraverso la televisione, posta al centro della vita dei cittadini al fine di assimilarli. Il danno culturale, ma anche economico, di tutto ciò è stato immenso, poiché si è concesso al grande capitalismo di ritrovarsi nelle insperate condizioni di non avere più freno alcuno nell’imporre i propri modelli di riferimento. La stessa sinistra italiana finisce, troppo spesso, con l’esprimersi secondo un linguaggio pressoché aderente a questo univoco conformismo di massa. Per mezzo della televisione, l’aziendalismo ha assimilato a sé gran parte del Paese, il quale storicamente era assai differenziato, ricco di culture originali. E ha portato a termine un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità, di ogni concretezza. Questo aziendalismo ‘tardo-fordista’ ha imposto i suoi modelli, che sono poi quelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende di rendere inconcepibili culture anche solo parzialmente distinte rispetto a quella del consumo. Un edonismo ciecamente dimentico di ogni valore umanistico, sostanzialmente estraneo alle scienze umane, che ha persino stimolato un insano spirito di concorrenzialità da parte del sincretismo religioso più moralistico e inattuale, da proiettare anch’esso attraverso l’imposizione mediatica. Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione ha potuto imporre secondo le norme dell’aziendalismo creatore di benessere, senza tuttavia comprendere che essi non sarebbero stati messi minimamente nelle condizioni di realizzarlo anche per loro stessi. Essi hanno potuto concretizzare il proprio benessere materiale solo in minima parte, diventandone una caricatura o in misura tale da risultarne vittime. E questo è accaduto soprattutto in campo socio-economico, in cui l’imprenditore piccolo o medio non si è domandato se le proprie difficoltà a espandersi fossero dovute al freno impostogli dalle aziende più grandi, le quali hanno preteso di rimanere sul mercato, tramite l'alleanza con il sistema bancario, nonostante i loro debiti e le loro inefficienze. Il più delle volte, l’imprenditore medio-piccolo rimane convinto che i propri scarsi margini di guadagno siano dovuti esclusivamente a uno Stato vessatore e a un fisco esoso. Ma proprio tale paradosso è divenuto il principale alibi dell’ideologia aziendalista la quale, potendosi nascondere dietro le arretratezze strutturali dello Stato, è riuscita a far credere che il mancato guadagno di poche decine di migliaia di euro l’anno fosse più grave del mancato introito di milioni di euro dovuto alla scarsa crescita complessiva della nostra economia. Ed ecco spiegata la mancata realizzazione di quelle riforme strutturali e istituzionali da tutti evocate, ma da nessuno nemmeno accennate. Tutto questo non ha affatto generato, come per lo meno accadeva negli anni del ‘craxismo’, una sensazione psicologica di benessere collettivo. Al contrario, ha dirottato l’intero ‘sistema-Paese’ verso la frustrazione sociale. Vergognarsi dei propri modelli culturali più autentici - quello socialista, quello liberale e quello cattolico-democratico - ha condotto al disprezzo nei confronti delle culture politiche prese nel loro complesso. E si è finito col ridurre la politica stessa a mero fideismo verso la prima ‘faccia differente’ in circolazione. Il miracolo aziendalista si è definitivamente compiuto: gli ‘italianucci’ piccolo-borghesi, adeguatisi a un modello mediatico spacciato come panacea di tutti i mali, sono quasi tutti infelici, mentre la borghesia ‘media’ si ritrova addirittura ‘proletarizzata’. Ciò è avvenuto in quanto la cultura prodotta in questi ultimi decenni, essendo di carattere eminentemente tecnologico, dunque strettamente pragmatica, ha impedito a tutti di sviluppare appieno le proprie potenzialità sotto un profilo umanistico. Le responsabilità della cultura aziendalista, in tutto questo, sono gigantesche, poiché è proprio il nostro tipo di capitalismo a costringere tutti all’arretratezza, intento com’è a combattere la propria personale battaglia difensiva contro quel capitalismo ‘altro’ in grado di portare l’Italia e l’intera Europa verso modelli produttivi meno oligarchici, più coraggiosi nei riguardi dei giovani e del loro futuro.




Presidente dell'associazione culturale 'Phoenix'
Direttore responsabile delle riviste 'Periodico italiano magazine' e 'Confronto Italia'

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Giovanni - Agrigento - Mail - martedi 13 dicembre 2011 20.13
Un articolo da leggere.


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