Per capire come la crisi economica che dal 2008 sta coinvolgendo il mondo occidentale abbia influito sulle relazioni internazionali, basta analizzare la politica estera degli Stati Uniti come ‘cartina di tornasole’ dei mutamenti in corso. I problemi del deficit interno e il rischio di default non ancora scongiurato hanno infatti indotto l’amministrazione Obama a centellinare l’utilizzo delle forze militari, oltre a guardare con maggiore attenzione la Cina e il continente asiatico. La prima conseguenza si nota in Europa, fin dal secondo dopoguerra sotto l’ala protettrice americana. L’attenzione di Obama rivolta al Vecchio continente si limita, per così dire, agli incalcolabili danni che la fine dell’Euro porterebbe anche negli States. La questione della Libia, poi, con l’intervento ‘umanitario’ di Francia e Gran Bretagna che ha portato alla caduta di Gheddafi, ha sancito la fine della leadership americana nel mondo arabo. Tanto che, al termine della guerra civile libica, i primi e unici leader a entrare trionfalmente a Tripoli lo scorso 15 settembre sono stati Cameron e Sarkozy, e non il presidente afroamericano. La crisi economica nata negli Stati Uniti e diffusasi al di fuori dei confini ha accelerato un trend evidente da tempo, cioè la crescita della Cina dal punto di vista economico e il peso sempre maggiore da essa acquisito nel contesto internazionale. Se il dominio militare americano è ancora fuori discussione, così come il ruolo di polizia internazionale è destinato a perdurare nel medio periodo, è ben chiaro a Obama e a parte dell’establishment americano che il futuro si misurerà non più in dollari, bensì in yuan. La considerazione è data da un fatto, semplice e incontrovertibile: circa il 15% del debito sovrano degli Stati Uniti è in mano alla Cina. Quando lo scorso 6 agosto l’agenzia di rating ‘Standard & Poors’ ha, per la prima volta nella Storia, declassato il debito pubblico americano, ritenendolo non più infallibile, le voci allarmate di Pechino sono apparse come frutto della paura di trovarsi in mano dei buoni del Tesoro americani privi di valore. Come conseguenza geopolitica, c’è una maggior attenzione degli americani allo scenario asiatico. La dichiarazione del segretario di Stato, Hillary Clinton, sull’importanza di una maggiore partecipazione degli Usa in Asia a discapito dell’Europa e del Medio Oriente, la dice lunga sulla volontà di fronteggiare il colosso di Pechino, sia sul piano commerciale nell’aria asiatica con il ‘Trans-pacific partnership’, sia su quello militare, con il rafforzamento delle missioni militari. Questa situazione induce a una riflessione sul dispiegamento militare degli Stati Uniti nel mondo. Se, fino a qualche anno fa, era impensabile che gli Usa ponessero dei problemi contabili nell’uso della forza bellica, oggi gli enormi costi militari che hanno originato un terzo del debito federale complessivo e contro i quali l’amministrazione democratica di Obama sta puntando il dito portano a una riorganizzazione sullo scacchiere internazionale. Con un’inevitabile ripercussione sulla presenza in Afganistan, destinata a diminuire nei prossimi anni. In conclusione, la crisi economica che domina le cronache quotidiane ha anche accelerato il processo di ‘anarchizzazione’ del contesto geopolitico mondiale, destando una sorta di vuoto di potere che la Cina non intende, per il momento, riempire, se non in veste economica. Con gli Stati Uniti impegnati, invece, a risolvere le conflittualità politiche e i suoi problemi interni.