Il Governo Monti ha preso il via in una tiepida giornata di novembre, in cui le luci erano tenui, i colori appena accennati, il clima di piena transizione verso l’inverno. La prima impressione è stata quella di un esecutivo autorevole, improntato alla miglior efficienza manageriale e professionale. Tuttavia, l’impellente necessità della sua nascita è derivata soprattutto da due gravissimi problemi, che stanno investendo pienamente il nostro Paese: il primo è rappresentato dalla difficile situazione economica dell’intera ‘Eurozona’; il secondo è quello di una classe politica palesemente inetta e inconcludente. Della prima questione ho già trattato in passato, anche in sedi autorevoli. Pertanto, questa volta mi occuperò soprattutto della seconda. Il tema di un ceto politico inguardabile, che ragiona ‘a spanne’ intorno a ogni questione, a prima vista sembra esser stato causato da un sistema elettorale ‘a strascico’, che ha reso i parlamentari completamente irresponsabili nei confronti degli elettorati che li hanno votati. E invece, guarda un po’, non è stato affatto il ‘porcellum’ a generare tale situazione, poiché anche negli anni di piena cogenza del ‘mattarellum’ erano sempre i Segretari di Partito a ‘calare dall’alto’ i propri ‘protetti’, soprattutto nei collegi definiti ‘blindati’. Dunque, mi vedo subito costretto a smascherare una prima ipocrisia: questa classe dirigente, totalmente inaffidabile e indecorosa, è giunta alla ribalta grazie a un generico passaggio ‘general-generalista’ al sistema elettorale maggioritario nel 1993, una riforma concepita e realizzata senza voler minimamente affrontare la complessa questione dei metodi di selezione del personale politico all’interno dei Partiti. Un tema che evidenzia, da sempre, due tipologie di problemi, che possiamo tranquillamente considerare cronici: 1) il nostro ‘cursus honorum’ è basato su una metodologia di individuazione dei singoli esponenti di natura ‘feudale’ (la definizione è persino elegante dal punto di vista sociologico, ma in molti casi si potrebbe denunciare la cosa in maniera assai peggiore…): in pratica, durante la fase di ‘soppesamento’ e di valutazione dei vari candidati locali che si presentano sul territorio, attuata dai vertici di tutti i Partiti nel corso delle diverse consultazioni amministrative, vengono presi in considerazione solamente quei personaggi giudicati ‘buoni’, cioè dotati di un proprio ‘bagaglio’ personale di consensi, senza minimamente calcolare attraverso quali modalità tale ‘capitale’ sia stato cumulato; 2) nella maggior parte dei casi, la politica locale risulta ‘clientelare’, al sud come al nord, dunque fortemente ‘antimeritocratica’ sotto il profilo dell’autorevolezza e della ‘competenza civica’. Intorno alla materia elettorale, aveva pienamente ragione Bettino Craxi: sarebbe stato più opportuno concepire un semplicissimo sistema proporzionale con sbarramento al 5%. Ciò avrebbe tagliato la testa al ‘toro’ della moltiplicazione dei movimenti politici e della loro ‘personalizzazione’, dando modo anche alle minoranze di coalizzarsi o di ‘apparentarsi’ al fine di superare lo sbarramento previsto. Semplice, lineare, cristallino, com’era di solito il modo di ragionare del leader socialista. Detto questo, andiamo dunque a cogliere alcune ambiguità di questa nostra attuale classe dirigente eletta per ‘trascinamento’. I parlamentari dell’Udc, innanzitutto - Casini in testa – oggi cavalcano un superamento legislativo del ‘porcellum’ ma non vogliono, giustamente, un ritorno al ‘mattarellum’. Eppure, furono proprio loro, nel 2006, a salutare il passaggio all’attuale modello elettorale come una riforma equilibrata. Lo dichiararono apertamente, intestandosi a pieno titolo il merito della norma varata. E la votarono a ‘scatola chiusa’, insieme a tutto il centrodestra di allora. Si tratta di un ‘lapsus’, di una mera mancanza di memoria? Niente affatto: in un sistema in cui non si deve render conto a nessuno del proprio operato - atteggiamento a cui i democristiani sono storicamente abituati - ci si può anche permettere il lusso di simili ‘capriole’, poiché a fronte del nostro ormai ‘numismatico’ sistema dell’informazione, chi veramente possiede la memoria storica per ricordare fatti o notizie accadute non dico nel secolo scorso, ma solamente 5 o 6 anni fa? Lascio ogni ulteriore commento alla riflessione dei lettori. Analizzando, invece, le prese di posizione della Lega Nord, fa specie come questo Partito proprio non intenda abbandonare tutta una serie di ‘follie protestatarie’: il suo odio verso il sud, verso l’Europa, verso l’integrazione multietnica e l’immigrazione, nonché la difesa dei pensionati - categoria che nessuno vuole andare a danneggiare, ma in cui albergano fortissimi squilibri, privilegi, protezioni per ‘pochi’ rispetto ai grami vitalizi dei ‘tanti’, spesso addirittura tassati o ‘taglieggiati’ dall’Inps stesso o dai veri enti previdenziali - continuano a caratterizzarla come una sorta di Pci settentrionalista degli anni ’70, un movimento “di lotta e di governo” che continua a propinare analisi economiche completamente astratte e a perseguire un radicamento elettoralistico-territoriale che non è in grado di teorizzare nient’altro che l’isolamento del Nord medesimo rispetto al resto dell’Europa, un modo di concepire ogni questione che appare persino ridicolo nella sua grossolanità. Il solo reale vantaggio posseduto da questa forza politica è quello di esprimere concetti e analisi smentibili solo attraverso tempi e cicli econometrici ‘medio-lunghi’, che dunque giustificano, sotto il profilo meramente tattico, un ricorso spasmodico alle ‘piazze’, alla ricerca di consensi tra i ceti più conservatori e provinciali dell’Italia settentrionale. In ogni caso, mi hanno lasciato esterrefatto le affermazioni del senatore Bricolo in Senato, in tal senso, il quale ha cercato di far passare come una ‘ragione profetica’ la storica ritrosìa di Umberto Bossi all’entrata dell’Italia nell’Unione europea, un fatto che, al contrario, testimonia il ‘torto marcio’ del leader leghista, poiché nel corso di questi ultimi mesi, se la Bce non si fosse resa disponibile ad acquistare a più riprese i titoli del nostro debito pubblico, il Paese sarebbe già naufragato in estate. Ciò è solo un esempio del genere di politica distruttiva, contestataria, meramente propagandistica che ha imperato nell’intera seconda Repubblica: una capacità ‘sfrontata’ di venire a raccontarci che ‘Dio non è Dio’, in cui ognuno porta solo ed esclusivamente ‘l’acqua’ al proprio ‘mulino’. Se l’elettorato della Lega Nord abbandonasse questi indirizzi totalmente irrazionali e rivolgesse la propria attenzione verso un nuovo e più moderno Partito conservatore, di quelli sobri, all’inglese, ispirati a una concezione di ordine e legalità, i nostri problemi politici migliorerebbero più che sensibilmente, anche per il solo fatto che verrebbe abbandonata ogni ‘ubbia’ separatista, computata, in termini di produttività macro-territoriale, in forme e modi del tutto soggettivi. Purtroppo, però, su tale versante - quello conservatore – anche il Pdl ha i suoi problemi di ‘personale politico’. Ascoltando l’intervento confuso, frettoloso, in certi passaggi addirittura ‘blaterante’ del senatore Gasparri nell’Aula di Palazzo Madama, mi sono chiesto come sia mai stato possibile che un simile esponente abbia finito col diventare addirittura capogruppo di un Partito di maggioranza relativa al Senato della Repubblica, ovvero nella nostra Camera ‘alta’, quella dei ‘saggi raziocinanti’, ricchi di esperienza e di temperamento. Il Pdl presenta, talvolta, personalità anche molto interessanti, preparate, intelligenti, persino eleganti a vedersi (l’ex ministro Paolo Romani, per esempio). Eppure, ai vertici decisionali di questa forza politica, il più delle volte ci finiscono i ‘peggio’: è veramente un mistero questo fatto… Nella creatura politica fondata da Silvio Berlusconi, se qualcuno ‘vale qualcosa’ finisce con l’essere emarginato, in una sorta di cervellotica selezione all’incontrario. Sulle donne, poi, i criteri li conosciamo tutti: puoi anche essere alquanto ‘svampitella’ o ‘stupidina’, una clericofascista tutta ‘chicchere e tazzine’, ma se sei gradevole e di bella presenza può anche darsi che finisci col diventare ministro. Della serie: tira di più un ‘pelo di passera’ che un carro di buoi. Ed ecco, forse, per quale motivo ci ritroviamo, oggi, quasi di ‘contrappasso’, un ministro dello Sviluppo economico che si chiama come si chiama: evidentemente, Berlusconi aveva ‘capito male’. Scherzi a parte, bisogna anche sottolineare che se ‘Atene piange’, di certo ‘Sparta non ride’: nel Pd, infatti, siamo ormai di fronte alla mummificazione ‘imbalsamatoria’ di una classe dirigente che proviene dall’ultima selezione tardo-comunista e post-democristiana della fine degli anni ’80 del secolo scorso. La prima volta che sentii parlare di Rosy Bindi avevo appena finito di svolgere il servizio di leva, il quale era ancora obbligatorio e totalmente maschile, c’era un Governo Andreotti pienamente in carica, Leoluca Orlando - oggi nell’Idv - faceva confusionari esperimenti a Palermo, Achille Occhetto piangeva in continuazione e Massimo D’Alema pretendeva di distribuire ‘patenti’ di progressismo a tutti gli altri Partiti della sinistra italiana. Ho molto apprezzato, a dire il vero, l’intervento della senatrice Finocchiaro a Palazzo Madama: una donna lucida, ferma nelle proprie posizioni, decisamente interessante nel suo richiamarsi a una “laicità riformista”, un riferimento che mi ha fatto perfino correre un brivido lungo la schiena. Ma a parte questa eccezione - la Finocchiaro - la classe politica del Partito democratico appare anch’essa notevolmente inadatta ad affrontare la situazione. Ed eccoci, perciò, alla domanda di fondo di questa riflessione: siamo veramente sicuri che l’esigenza di dover mettere ‘in piedi’ un Governo tecnico non sia derivata da un apparato burocratico ‘alto’ dello Stato il quale ha deciso di procedere per proprio conto sulla strada della risoluzione pragmatica di alcuni problemi? Non in totale autonomia, rispetto alla politica, per carità, ma siamo lì… Probabilmente, in tutto questo c’è la ‘mano’ del presidente Napolitano, un’influenza che, a mio parere, caratterizza il nuovo Governo non tanto come un esecutivo di “impegno nazionale”, formula tutto sommato apprezzabile in termini teorici, bensì come un vero e proprio ‘esecutivo del Colle’. Resta sul ‘tappeto’, infatti, un problema culturalmente fondamentale: se le idee di una classe politica restano svincolate e interdipendenti rispetto alle questioni materiali e se ci si limita a constatare che, in un certo periodo storico, queste idee non risultano più egemoni, allora si può rischiare di non conoscere i contesti e gli individui su cui si fondavano quelle stesse idee. Nei tentativi di modificazione della base politica di una nazione, infatti, anche la sovrastruttura burocratica subisce delle trasformazioni. E quando si sperimentano determinate mutazioni, diviene indispensabile saper distinguere tra una discontinuità pratica e una di carattere ideale, pienamente politica, in una parola: ‘spirituale’. In sostanza, così come non possiamo giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, allo stesso modo diviene impossibile giudicare un esecutivo ‘tecnico’ attraverso parametri politici, poiché in questo caso tutto diviene ‘prassi’. La qual cosa significa, di fronte alla condizione di crisi economica globale che stiamo attraversando, che i provvedimenti da prendere non implicheranno scelte ‘ponderate’, bensì degli autentici ‘sconvolgimenti’ tra le forze produttive della società e i suoi distinti rapporti di produzione. Ma siccome il nostro sistema politico, per natura, è di tipo parlamentare e ogni esecutivo, anche un Gabinetto ‘tecnico’ o ‘tecnocratico’, per Costituzione è costretto a vivere sulla fiducia delle Camere, ecco dunque che ci potremmo trovare di fronte non tanto a un Governo del “vorrei, ma non posso”, bensì del “potrei, ma non sono tenuto”, perché altrimenti tutto inizierebbe a ‘scricchiolare’, se non a crollare immediatamente, da un giorno all’altro, o da un momento all’altro. Si poteva insomma, giunti a questo punto, più semplicemente ricorrere a un Gabinetto ‘di attesa’, che risolvesse alcune questioni urgenti e portasse il Paese alle elezioni di qui alla tarda primavera del 2012 e non oltre. Invece, si è decisa una formula di “impegno nazionale”, innanzi a una classe politica totalmente innamorata del ‘disimpegno’. Scusatemi tanto, ma la contraddizione appare evidente. Così come qualche preoccupata perplessità.
Presidente dell'Associazione culturale 'Phoenix'
Direttore responsabile delle riviste 'Periodico italiano magazine' e 'Confronto Italia'