Stefano PaoliniIn tempi in cui è importante tornare a riflettere sulla nostra ‘italianità’ e in occasione dei 150 anni dall’unificazione nazionale, ci appare doveroso segnalare il lavoro di un gruppo di attori che intende farci riscoprire il prezioso valore delle opere teatrali del grande Eduardo De Filippo. Al teatro ‘Sette’ di via Benevento in Roma, infatti, dal 29 novembre all’11 dicembre 2011 la compagnia ‘Attori&company’, diretta dall’attore e regista Mario Antinolfi, porterà in scena la commedia: ‘La fortuna con la EFFE maiuscola’. Si tratta di un’opera esilarante, un vero e proprio ‘classico’ del teatro napoletano, che si rifà alla commedia dell’arte e alla farsa con il semplice intento di divertire ed emozionare il pubblico. E’ un testo scritto nel 1942 dal grande Eduardo De Filippo, in collaborazione con uno dei più grandi autori e commediografi contemporanei, Armando Curcio, noto in quanto fondatore dell’omonima casa editrice. È una comicità che riesce a emergere dal dolore e dalle lacrime, dipingendo situazioni grottesche, a volte apparentemente poco realistiche. Gli autori abbinano anche una morale, un contenuto che porta lo spettatore a riflettere su alcuni aspetti antropologici della vita dell’uomo, evidenziandone le condizioni di bisogno morale, materiale e di giustizia. Il tema è quello della povertà e della fatica di tirare avanti ogni giorno: problemi, purtroppo, ancora attuali per tante famiglie italiane, sebbene Eduardo abbia scritto questa commedia quasi 70 anni fa. Il protagonista, Giovanni, vive insieme alla sua sconfortata moglie Cristina - una donna provata dalla vita e ormai rassegnata – e il cognato Erricuccio, con il quale c’è un completo disaccordo. Erricuccio è un uomo mentalmente disabile, tanto da credere di essere il loro figlio. Il protagonista, insieme alla sua famiglia, è talmente povero che vive sempre col desiderio di fare soldi con qualsiasi espediente, come se la fortuna di fare danaro potesse risolvere ogni problema. Finisce così per mettersi nei guai e, pur di racimolare qualche soldo, firma ‘carte false’. Tuttavia, nel finale arrivano la tanto attesa ‘buona sorte’ e i bramati soldi, anche se la vera ‘fortuna’ - quella con la ‘F’ maiuscola - sarà la riconquista dell’affetto della famiglia, degli amici e di tutti coloro che fanno parte della sua vita. Mario Antinolfi, da autentico ‘maestro’ del teatro partenopeo, è insomma riuscito a riadattare quest’opera dandole quei contorni di universalità che la rendono accessibile a un pubblico anche non napoletano. La commedia, infatti, è recitata in dialetto, ma il regista è riuscito a ‘smussare’ determinati caratteri di peculiarità idiomatica e linguistica, al fine di riporla su un terreno culturale di carattere ‘nazionale’. Ciò, tuttavia, senza perdere il senso e il ‘sapore’ delle tradizioni popolari più profonde della città del Vesuvio. Napoli, infatti, è una metropoli con un passato da capitale europea che, inevitabilmente, propone al pubblico una propria ‘nazionalità’, un’identità precisa, fortemente caratterizzata. La delicatezza dell’operazione e l’amore stesso che il regista Antinolfi è riuscito a trasmettere in questa rappresentazione risultano, perciò, un importante elemento di riflessione, in un momento storico in cui risulta prezioso ripensare alle molteplici ‘italianità’, alle nostre stesse tradizioni, non per farne una sintesi di ‘appiattimento’, bensì per trovarne una moderna ‘media ponderata’. Arricchiscono la storia, le musiche originali di Roberto Antinolfi e l’accurata scenografia di Clara Surro.


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