Ringrazio l’associazione ‘Liberali oggi’ e per essa il suo presidente, Marina Burei Orlandini, per aver curato la preparazione di questa rivista che, nel ricordo del 150° dell’Unità, sottolinea il contributo alle istituzioni dato dai liberali nel corso dei decenni. Un contributo che, negli anni, si è avvalso di personalità e di aspetti diversi in vari campi e il cui segno più rimarchevole è stato oggettivamente lasciato dai due presidenti del Consiglio: Cavour e Giolitti. Penso si rilevi, anche dalla lettura dei pezzi della rivista, ad esempio quello dell’amico Dalla Via e quello mio. Permettetemi di restare su Cavour. E – siccome già al liceo contestavo il criterio del Foscolo, quello del
“a egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti”, perché legato a una concezione statica della convivenza – permettetemi di restare non tanto sulla personalità di Cavour, quanto sulle idee e sulle procedure che egli ha seguito. Le une e le altre hanno segnato una svolta di fondo e segnano, tutt’oggi, un differente modo di operare per raggiungere lo scopo di dare regole alla convivenza, che poi è il modo della politica vera. La caratteristica principale delle procedure è stata una cosa oggi non di moda: avere un preciso progetto politico da perseguire. E, inoltre, aver colto la necessità che il progetto, per acquisire solidità, non restasse provinciale, bensì fosse inquadrato nella più ampia cornice delle vicende europee. La complessa rete di contatti, all’estero tra le corti d’Europa, in Piemonte alla corte sabauda e poi negli ‘staterelli’ italiani, brulicava nelle iniziative in vari settori e nelle persone coinvolte, ma restava fermissima nell'obiettivo e nel metodo. Riassumibili nel puntare al cambiamento attraverso l'attenzione ai fatti reali e alla sovranità del cittadino. Cogliere ogni possibile occasione senza cedere sulla prospettiva delle procedure coerenti ai principi. La citazione contenuta in un altro articolo del Numero Unico ricorda, appunto, questo. Cavour intendeva fare l'unità senza cedere sulla libertà e – siccome anche allora esisteva la vulgata che il fine giustificasse l'uso di qualsiasi mezzo – non voleva che la lotta all'autorità cadesse nel dispotismo rivoluzionario. Guardare al mondo circostante per dare regole non può essere separato dal mantenere la logica primaria della libertà di ciascuno. Neppure quando si è convinti di avere l'idea più feconda, neppure quando si pensa di corrispondere all'insoddisfazione sociale e neppure quando promuovere la libertà contro le convinzioni conformiste risulta scomodo. Vale oggi (si pensi alla mentalità giustificazionista che qualche giorno fa ha trasformato solo in Italia le proteste degli indignati nei vandalismi), e valeva allora quando Cavour non esitò a battersi contro il potere temporale della Chiesa e i suoi privilegi, all'epoca un problema concretissimo della vita civile. In sintesi, furono aboliti il foro ecclesiastico, l'impunibilità giuridica, la ‘manomorta’ ecclesiastica, fu consentito l'uso delle terre incolte e, insieme, diffuso il messaggio della necessità di lavorare piuttosto che di sostentarsi mendicando. Non fu un atto contro la religione dei cittadini, ma contro strutture civili obsolete e la pretesa ecclesiastica di allora, secondo cui solo il potere temporale garantiva la sicurezza della Chiesa. Questo quadro rende immediatamente chiaro che riconoscere a Cavour il solo merito di essere l'artefice politico dell'Unità d'Italia è, più che riduttivo, molto distorcente. Anzitutto, perfino questo merito è concesso molto controvoglia, tanto che Napolitano è stato indotto a ribadirlo in modo esplicito nella celebrazione ufficiale del 150°. E, comunque, il secondo merito, quello di avere lanciato il
“libera Chiesa in libero Stato” nel dibattito parlamentare dello stesso marzo 1861 – cioè quello che oggi chiamo il principio di separazione Stato/religioni – viene quasi nascosto, a cominciare dalla sua mancata celebrazione in questo anno del 150°. In pratica, c'è stato solo il mio libro, ‘Lo sguardo lungo”, che ha ricordato l'evento. Un simile oblio è la via con cui il fumoso conformismo comunitario cerca di nascondere il tema del separatismo, seppure così attuale, per non fare i conti con l'idea innovativa di Cavour circa i rapporti tra Stato e Chiesa, che è l'applicare in concreto l'attenzione ai fatti e alla sovranità del cittadino. Da un lato, è sempre più subdolamente messo in discussione il modo pubblico di assumere decisioni tra i singoli cittadini (che, indubitabilmente, è il parlamentarismo di cui Cavour fu, in Italia, iniziatore e che si vorrebbe non arricchire ma sostituire, tornando a forme di democrazia diretta di cui è stato un sintomo pericoloso il temporaneo abbandono dell'aula di Montecitorio nei giorni scorsi); dall'altro, sul rapporto tra Stato e Chiesa si ha quasi imbarazzo a ricordare che Cavour pose, con lucidità fin da allora, la spinosa questione per quello che essa è: l'espressione della battaglia tra libertà del cittadino e autorità sul cittadino, che è una battaglia connaturata alla convivenza umana. E quanto il principio di separazione tra Stato e religioni resti un principio istituzionale chiave, emerge ancor più al giorno d'oggi, in cui i principali temi della vita quotidiana debbono essere affrontati in un'ottica di separazione. La radice dell'accusa agli indirizzi ‘cavouriani’ è di puntare sulla sovranità del cittadino individuo senza avere prima una qualche certezza, del tipo che le élites religiose chiuse e quelle rivoluzionarie di vocazione avrebbero il privilegio esclusivo di poter indicare. Oggi si sta aggiungendo una nuova presunta certezza: la pratica utopica informatica, che dissolve la progettualità del cittadino individuo bloccandolo nell'istante presente. Come ho scritto nell'articolo del Numero Unico dell'Associazione, tale nuova forma di rete assume una realtà virtuale superiore a quella dei fatti, illude chi la usa acriticamente di essere protagonista e, invero, lo avvolge nella demagogica teoria di autonominarsi rappresentante della comunità degli utenti. Viceversa, i due punti cardine di Cavour, il parlamentarismo e il principio di separazione, hanno sempre puntato sul cittadino nella sua concreta individuale irripetibile diversità e sul suo senso critico, per convivere e per conoscere immersi nella realtà. Oltretutto, l'esperienza storica ha mostrato che il separatismo è l'unico sistema adatto ad inquadrare la diversità nella convivenza tra cittadini e di conseguenza a produrre un maggior grado di libertà e di benessere materiale. Evadere nei rapporti virtuali equivale a rifiutare la realtà sperimentale. Il principio di separazione Stato religioni non propone una identità unica e non serve a far prevalere una convinzione specifica. Serve a fondare la convivenza civile sulla sovranità dei diversi cittadini invece che sull'autorità di un potere. Serve a porre i presupposti per usufruire dello spirito critico di ognuno, delle sue iniziative, delle sue relazioni innovative e, soprattutto, a consentire di poter evolvere nel tempo della vita. In Italia è sempre di moda imprecare contro le diversità. Si dovrebbe invece imprecare contro l'incapacità di decidere in base alle diversità, ad esaminare i fatti sperimentali, a valutarli e poi ad adeguare le decisioni. Il separatismo ha due caratteri essenziali. Il primo, è garantire la piena libertà di religione di ciascun cittadino, di averla, di non averla, di essere agnostici e di manifestarla nel privato e nel pubblico. Piena libertà di religione che applica la tolleranza intimamente connaturata con la laicità e con la convivenza tra diversi individui, i quali sono individui perché ben consapevoli dell'esistenza degli altri. Nella convivenza quotidiana, stare insieme non vuol dire per forza essere identici o appartenere alla medesima comunità o essere accomunati dalle stesse convinzioni religiose. Stare insieme tra diversi significa accettare la comune prova dei fatti e tessere le rispettive relazioni condividendo le regole pubbliche. Il secondo carattere del separatismo, che si affianca alla piena libertà di religione, è la neutralità istituzionale in materia religiosa. E' un aspetto essenziale per amalgamare da un lato la laicità del sistema che garantisce la libertà di religione e dall'altro le differenti convinzioni religiose, personali e manifestate in pubblico, che hanno tutte uguale dignità ed uguali diritti. Su questo punto, il mondo dei conservatori cattolici avanza al Risorgimento e a Cavour delle accuse che storicamente non stanno in piedi. Perché la laicità istituzionale non ha mai escluso e non esclude i non laici. Simili distorsioni non derivano da ignoranza storica, bensì da calcolo strumentale che ha per oggetto l'oggi. Sostenere che il ‘libera Chiesa in Libero Stato’ sia un attacco alla Chiesa e alla religione serve a sminuire l'idea del principio di separazione e a respingerne l'attuazione oggi. Il che è letteralmente fuori della Storia. Lo è in linea di principio, quando si insinua che la separazione sarebbe una cosa dell'ottocento e che sarebbe molto più importante e moderna la distinzione tra politica e religione. Perché, si dice, separare in ciascuna persona gli aspetti civili da quelli religiosi è impossibile, dunque, basta distinguerli. La realtà è esattamente al contrario. Sia perché il principio di separazione non riguarda i rapporti del singolo individuo con se stesso, bensì la convivenza tra molti individui differenti per identità religiosa.
Sia perché la separazione nel pubblico garantisce la distinzione nel privato. Viceversa, limitarsi alla distinzione nel pubblico riproduce inevitabilmente il problema della doppia sovranità, vale a dire della fedeltà congiunta del cittadino a Stato e Chiesa. Ed è letteralmente fuori della Storia, perché rispetto alla metà del 1800 la Chiesa stessa ha mutato posizione e ha progressivamente abbandonato la teoria del temporalismo affidandosi alla sua missione religiosa nel sociale. Di più, dopo il Concilio Vaticano II ha fatto uscire lo strumento concordatario da quelli considerati a presidio della propria pratica religiosa negli Stati democratici. Al contrario, i clericali CHIUSI, in buona parte esterni alla gerarchia, continuano imperterriti a sostenere il sistema concordatario ed i suoi inevitabili privilegi. In fondo, vogliono salvaguardare non la Chiesa ma la loro funzione di intermediari – ed i connessi privilegi – nelle trattative concordatarie tra Stato e Chiesa. Non a caso, la dottrina della mera distinzione si sposa al criterio del Concordato. Finisce per attribuire al Vaticano la doppia funzione di Stato estero territoriale e di organizzazione religiosa in Italia. Il che rende ineludibile la ‘doppia sovranità’. Sia per gli appartenenti alla gerarchia, che per i comuni cittadini di fede cattolica compenetrati nella logica concordataria, oltre che nella fede. Queste persone hanno due distinti punti di riferimento e non quello civile e basta, come dovrebbe essere, specie se si tratta di funzionari statali. Solo quando si applica il ‘cavouriano’ principio di separazione Stato/religioni non si pone più la questione della rivalità nello stabilire le regole di convivenza. Più nessuna confusione tra Stato Vaticano e riferimento religioso. Alla religione (tutte) è garantita una condizione di piena libertà per esercitarla in privato e in pubblico, ma non viene riconosciuto alcun privilegio temporale. La religione non può che essere testimonianza, non più un metro civile. Anche i membri della gerarchia rispondono delle loro azioni alla stregua dei cittadini italiani comuni. Gli edifici di culto nel territorio italiano possono appartenere ad uno Stato estero ma rientrano nelle usuali leggi italiane, come ogni altra proprietà detenuta in Italia. Nei rapporti di convivenza la tradizione religiosa non può eludere l'impianto della Costituzione. Nessuna doppia sovranità. La libertà di religione non ha nulla a che vedere con i privilegi alla religione. Del resto, in queste settimane un grande regista cinematografico, icona del sentire religioso cattolico, Ermanno Olmi, nel suo recente film ‘Il villaggio di cartone’, ha fatto dire al protagonista, un vecchio prete concepito a sua immagine, una frase che riassume nel profondo l'essenza del vero sentire religioso nel rapporto di solidarietà con gli altri:
"Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare il bene non serve la fede. Il bene è più della fede". Sono parole di un credente che, a mio parere, colgono con incisività l'anima e la funzione del separatismo, rispetto per la religione e necessità di vivere il rapporto di convivenza a prescindere dalle strutture mondane della religione. E non basta. Al di là di queste visioni di un cittadino, è evidente che nell'intero mondo cattolico si sta riflettendo sul significato di convivere nella attuale società italiana, multietnica e multireligiosa. Questo è stato il Convegno di Todi voluto dalla Conferenza Episcopale. Ed è altrettanto evidente che questo convegno – cui hanno preso parte tutte le organizzazioni cattoliche che non stanno nel clero e sono nel sociale – sono emersi due atteggiamenti nettamente distinti, che confermano ambedue puntualmente la necessità di riprendere il principio cavouriano di separazione all'interno dell'architettura istituzionale italiana. Il primo atteggiamento è quello della Cei, che ha indetto Todi per individuare una nuova classe dirigente e nuovi leader in grado di realizzare un soggetto culturale e sociale capace di interloquire con la politica. Un obiettivo nel solco della linea Vaticana, che punta ormai alla presenza nel sociale e si è distaccata dalle pulsioni temporali. Questo obiettivo costituisce comunque una maturazione individuale che in quanto tale ha un effetto positivo per il clima della convivenza. Ed è stato confermato dal presidente della Cei, cardinale Bagnasco, che – attenzione – ha detto:
"Il principio di laicità inteso come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica - ma non da quella morale - è un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa e appartiene al patrimonio di civiltà". E ha aggiunto:
"La Chiesa non cerca privilegi, nè vuole intervenire in ambiti estranei alla sua missione, ma deve poter esercitare liberamente questa sua missione". E precisato:
"Se per nessuno è possibile l'assenteismo sociale, per i cristiani è un peccato di omissione". Questo atteggiamento della gerarchia non preoccupa affatto credenti e non credenti che non si identificano con la cultura prevalente nelle organizzazioni cattoliche. Non li preoccupa perché esprime il legittimo magistero religioso cattolico. Ma non li deve lasciare indifferenti. Perché? Fino a che le riflessioni attengono agli aspetti religiosi e alla conseguente necessità, dicono, di coniugare strettamente l'etica sociale con l'etica della vita, esse riguardano solo chi le fa e chi ne condivide le conclusioni. Quando poi le riflessioni aspirano a fare proseliti e, con la scusa della socialità, viene in mente a qualcuno di imporre agli altri cittadini le conclusioni del proprio credo, allora si profila il pericolo di debordare dal campo religioso e di toccare aspetti dell'organizzazione civile. Qui sta la vera questione della convivenza tra diversi. Non sulla religione, che è un diritto di ciascuno. Sta sul come si vogliono costruire le istituzioni civili. Se si vogliono sempre adeguate al promuovere la convivenza tra diversi cittadini individui o, invece, se si vogliono finalizzate a imporre il conformismo comunitario di cittadini identici per religione o per l'appartenenza a nazioni immaginate a tavolino. In questo secondo caso, la convivenza è molto più difficile, per usare un eufemismo. Già da questa considerazione deriva che il Convegno di Todi costituisce di per sé la solida conferma della necessità che, quasi in via preventiva, i cittadini fautori del principio di separazione Stato religioni si mobilitino per introdurlo nell'architettura istituzionale. Ma è il secondo atteggiamento emerso a Todi a fornire una prova pressante dell'urgenza di sostenere il separatismo. Dopo che il cardinale Bagnasco ha dato la linea religiosa ripresa pari pari nel documento conclusivo, una parte consistente delle associazioni ha chiarito con una conferenza stampa presieduta dal segretario Cisl, qual è la loro idea dell'interloquire con la politica. Approfittare di Todi non per parlare della sfera morale, bensì per lanciare una richiesta che è squisitamente politica di Partito. Si è chiesto in nome dei cattolici un Governo più forte perché quello attuale è inadeguato, per evitare le elezioni anticipate e per una riforma elettorale proporzionale con le preferenze. Cose che, comunque la si pensi, attengono alle valutazioni politiche di ciascun cittadino, non alla sua religione. L'accostare la Chiesa e la Cei alle formule della battaglia politica quotidiana, sfruttando il megafono dei mass media scodinzolanti alla parola cattolica, è l'ennesima clamorosa dimostrazione che le spinte a proseguire nel temporalismo vengono da parte di coloro che utilizzano le problematiche religiose per coltivare i propri privilegi terreni. Nel mio libro li ho chiamati i cattolici chiusi. Vogliono imporre a tutti il proprio credo facendone una fonte legislativa (quando invece il credo è spiritualità della persona, altrimenti la libertà cede all'autorità). Ha quasi inteso rassicurarci il cardinale Bagnasco affermando:
"Non c'è motivo di temere per la laicità dello Stato". Del resto, nella primavera 2010, lo stesso Segretario di Stato Vaticano, cardinal Bertone, aveva chiarito che la politica è rappresentanza e la religione è testimonianza, e quindi la religione non può confondersi con gli strumenti della democrazia e della convivenza civile. Però tali parole esprimono le convinzioni vaticane, ma non tengono conto di questo mondo dei cattolici chiusi che fanno intendere di parlare in loro nome e che agiscono in politica. Di fronte a questa realtà materiale, credenti e non credenti, come cittadini, non devono limitarsi ad essere convinti del separatismo individualmente. Devono reagire all'atteggiamento dei cattolici chiusi. La convivenza liberaldemocratica è fondata sul conflitto secondo le regole tra tutte le opinioni e giudizi. Dunque, è fondamentale una parità nel conoscere e nel trattare le diverse posizioni per evitare che, mancando la consapevolezza, si finisca per decidere regole disequilibrate e truccato il conflitto democratico con i privilegi. Per questo, costruire al meglio la convivenza tra diversi per identità e per religioni, presuppone, almeno, di riequilibrare la spinta dei cattolici chiusi a modellare le istituzioni sui valori religiosi. E' indispensabile far capire all'insieme dei conviventi che la libertà di ciascuno in quanto cittadino è più protetta dalle regole istituzionali che evitino privilegi di stampo religioso per qualcuno. Stabilire tale parità rispetto ai cattolici chiusi, significa contrastare in nome della libertà la pretesa dei cattolici chiusi di avere privilegi. Di conseguenza, il mondo dei sostenitori del principio di separazione Stato religioni deve darsi una mossa. Deve agire nella carne delle relazioni civili, a sostegno delle regole di separazione Stato/religioni e per irrobustire il clima politico culturale a loro favore, superando l'anomalia italiana al riguardo. Sulla ricerca, sulla procreazione medicalmente assistita, sulle indicazioni anticipate di fine vita, su tanti grandi e piccoli privilegi a qualche gruppo e su una serie di mentalità collaterali. Su tali questioni sta il senso profondo del 150° dell’Unità e di quanto sia inscindibile dal principio separatista di Cavour. E da qui deve sorgere l'impegno della cultura laica a prendere l'iniziativa sul piano civile per evitare che la fede divenga la fonte legislativa. Occorre uscire dall'abituale schema clericali/anticlericali e riprendere lo spirito fondamentale della continua lotta civile tra il principio di libertà del cittadino e l'autorità sul cittadino. Che è la logica del principio di separazione Stato religioni, il duraturo contributo istituzionale di Cavour, lo strumento sperimentato per consentire la convivenza tra diversi credi che è la realtà della vita, in specie quella globalizzata.
Presidente della Federazione dei liberali
(testo originale dell’intervento alla presentazione alla cittadinanza della pubblicazione ‘150 anni dell’Unità d’Italia: il contributo dei liberali per l’unità d’Italia, la democrazia, il progresso’, tenutasi il 19 ottobre 2011 presso la sala Farinati della Biblioteca civica di Verona)