Vincere e governare dovrebbero essere conseguenti. In Italia, Paese non ancora normale, così non è.
Certo, chi perde le elezioni non governa ma come la storia recente insegna, se l’unità dei vincitori è
contro qualcuno e non
per fare qualcosa anche chi vince non governa. E’ successo nel 1994 quando
Berlusconi pagò a
Bossi il pedaggio di una vittoria elettorale che non era politica, è successo nel 1996 quando Romano Prodi pagò l’identico pedaggio a
Bertinotti.
A sinistra si è finalmente posto con autorevolezza e con la necessaria chiarezza - a cominciare dal sasso lanciato da Michele Salvati - il problema di questa
compatibilità politica di prospettiva. E lo si è posto non tanto e non solo all’interno della sinistra ma, ed è quello che più conta,
all’interno dei Ds.
La frattura sul tema referendario dell’articolo 18 è emblematica. Può un partito, che nasce dal
partito dei lavoratori, essere
diviso su tutto, anche sulle posizioni del mondo del lavoro ed al contempo proporsi come
credibile perno di una alternativa di governo? La risposta è una sola:
no!
L'euforia per il risultato delle elezioni amministrative è solo un abbaglio la cui rifrangenza annebbia la vista. E' la conferma che elettoralmente, quando si 'ramazzano tutte le cartelle'
da Bertinotti a Di Pietro, passando per Mastella e Boselli, si vince la tombola. Ma la conclusione, poi, è che ognuno prende la sua fetta di vincita e il gioco è finito.
Bertinotti è tanto chiaro quanto lucido quando spiega perché le sinistre sono almeno due e sono tra loro inconciliabili:“Per quanti ritengono che
la storia della civiltà sia storia del conflitto di classe, il problema della collocazione della sinistra in questa nuova scena è quello della rilettura in termini di classe di questi nuovi processi materiali e politici, e insieme quello di prendere posizione per ricostruire una critica dell’economia capitalista, cioè una critica del processo di globalizzazione di mondializzazione dell’economia, entro cui oggi si riorganizza il potere del capitale”.
Anche
Massimo D’Alema è tanto chiaro quanto alternativo al pensiero ‘Bertinottiano’: “Anche a sinistra riaffiora una cultura radicale che contrappone alla
globalizzazione semplicemente un rifiuto non sostenibile rispetto a una
ragionevole visione della storia. Proprio per questo, compito e ruolo della sinistra riformista non può essere accodarsi ai cortei degli antiglobalizzatori. Non si può immaginare di compiere un tratto di strada con chi dice voglio fermare la storia e basta”.
Se la questione fosse solo tra Ds e Rifondazione sarebbe più semplice. Il fatto è che buona parte dei dirigenti Ds è politicamente più con Bertinotti che con D’Alema. E questo si vede sia nel dibattito politico che nel voto parlamentare.
Se la politica, come l’ha insegnata
Machiavelli è
idealità e
stato di fatto, per uno e l’altro di queste due aspetti è forse giunto il momento di
separare la sinistra riformista, che realizza una tendenziale omologazione alla sinistra moderata
americana, dalla
sinistra antagonista, che muove da rinnovate ragioni di lotta di classe.
A questo punto qualche semplificatore, di quelli che vedono la politica come un rodeo per cui conta solo e comunque vincere, potrebbe dire che
dividendo la sinistra si fa un regalo a Berlusconi. E sbaglierebbe. Proprio perché la politica non è un rodeo, uno sconquasso di un polo non lascerebbe intatto l’altro, ma fatalmente lo coinvolgerebbe nel terremoto.
Senza una sorta di
“distruzione creatrice” non si concluderà la fase di transizione che il nostro Paese vive da ormai un decennio, né potrà nascere, come molti si aspettano, una sorta di Blair italiano.