L’Italia sta marcendo nell’egoismo, nella stupidità, nell’incultura, nel pettegolezzo, nel moralismo, nel conformismo. Essere laici, liberali, socialisti non significa nulla allorquando manca quella forza morale capace di vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che funziona solo apparentemente. Non occorre essere forti per affrontare la povertà di spirito nelle sue forme più ridicole. Ma occorre essere fortissimi per contrastarla in quanto fattore di normalità, come codificazione mondana del fondo brutalmente egoista di una società. Perché tutto questo? Perché l’economia globalizzata non è nient’altro che un potere fondato su uno sviluppo tecnologicamente avanzatissimo. Ciò darà un colpo di spugna definitivo al nazionalismo, al clericalismo e a tutti i vecchi ideali, poiché è in corso una sostituzione di valori e di modelli sulla quale grande peso hanno i mezzi di comunicazione di massa. In primo luogo, la televisione, che non ha saputo reagire, per questioni di mero ‘parassitismo’, al potere politico più visionario e propagandistico, restituendo all’immagine il primato assoluto. La nostra cultura televisiva è riuscita nell’alchimia di sublimare i contenuti con l’estro della forma. Gli slogan sono stati elevati a poesia. E la tensione viene esasperata da violenti polemiche e contrappunti che sembrano fondersi in un abbraccio con immagini insulse e perverse. Che Berlusconi intendesse scatenare le sue abilità comunicative per concepire una politica imperniata sull’uso del marketing, lo si era capito sin dal 1994. Ma il codice che aveva imposto la sua televisione, negli anni ’80 del secolo scorso, edulcorata e assai poco corrispondente alla realtà, è stato addirittura soppiantato da una concezione puramente percettiva della democrazia, della rappresentanza politica, della condivisione dialettica di pareri e contenuti, immergendo il Paese nel ‘vuoto’ dello schematismo generalista fautore di una società immobile, falsa, indifferente, perennemente impegnata a perpetuare se stessa. Una televisione frutto di una cultura ‘statica’ non può esimersi dal raccontare un Paese che non esiste più, si lascia persino sorprendere dai fatti che accadono ogni giorno, perché non riesce ad avere un’ottica interpretativa della realtà che non sia superficialmente rarefatta nel proprio ideologismo omologativo. Il risultato è la stupidità elevata a regola, poiché ci si limita a raccontare una notizia qualsiasi senza approfondire veramente temi e problemi, rifiutandosi di andare alle vere cause generatrici degli avvenimenti, agli atti che hanno determinato i fatti. Riportare verità ufficiali è tipico dei regimi: su questo non ha del tutto torto chi ha accusato l’avvento del ‘berlusconismo’ come una forma di assolutismo, di arretratezza culturale, di scarso spirito di indagine. Il conservatorismo, in quanto concetto politico, non è affatto effimero, non è un estremismo ‘travestito’ da moderazione, non è il tentativo di plasmare una società nell’incultura, nell’indifferentismo, nell’incapacità di analisi. Il conservatorismo è una cultura politica seria, vera, in cui si difendono dei valori e delle tradizioni. Al contrario, la cultura televisiva di questi ultimi 15 anni ha preteso di svuotare ogni cosa, anche quei valori che si credevano culturalmente fondanti, risolvendo qualsiasi questione e qualunque movenza di fondo della società nell’accettazione supìna di ogni contraddizione, di ogni genere di scherno, nella presa in giro come principale metodo e metro di comportamento, nel divertirsi a offrire del mondo un’ottica paradossale, morbosa, distorta. Tutto e tutti possono essere derisi, persino i grandi problemi dell’umanità. Ma non possiamo non riconoscere il presupposto completamente folle di chi è convinto di poter mescolare ogni verità a proprio vantaggio, di chi rimane abituato a concepire la vita come una competizione scorretta, completamente anarchica nel suo credersi al di sopra di ogni regola. Anche in questo si nota l’avvenuto passaggio di regime, niente affatto paragonabile a quello della prima Repubblica. Non si discutono i cardini garantisti dell’ordinamento giudiziario italiano. Ma anche questo genere di problemi non possono essere risolti con accuse generiche, con l’idea, assolutamente ‘piatta’, che chiunque indaghi, magistrato o giornalista che sia, possa esser mosso da un presupposto sospettoso o malevole. La ricerca della verità può infatti giungere a riscontri inaspettati, che possono risultare sconvenienti anche alle ipotesi più ciniche e accidiose. Ma ciò accade soprattutto allorquando la cultura complessiva di una società riesce ad affrancarsi dai pregiudizi, al limite modificando il sistema stesso delle regole, che costringe sia chi indaga, sia chi è indagato, a generici sofismi interpretativi tesi a manipolare sempre e comunque la realtà. Nel sistema giudiziario americano, per esempio, è prevista una cauzione per l’imputato in attesa di giudizio. Ciò garantisce che una persona inquisita non sconti una pena ‘prima’ che venga emessa una sentenza, ma solamente dopo. Qui da noi, invece, avviene esattamente il contrario: si possono subire provvedimenti restrittivi in attesa di un processo, per poi ritrovarsi facilmente scarcerati in seguito, spesso anche se giudicati colpevoli di un delitto. Il sistema è dunque falsamente garantista, poiché, in realtà, rimane inquisitorio così com’era stato impostato dal fascismo. Ma anche il sistema difensivo, quegli stessi studi legali che si occupano di assistere coloro che sono accusati di un reato, si sono adeguati all’impronta generalista del sistema italiano, specializzandosi nel tatticismo, nella ricerca del cavillo giuridico, nel ‘temporeggiamento’ opportunistico, nell’aggiramento manipolatorio delle norme. E’ una concezione ‘statica’, inattiva e inattuale della giustizia, quella che vige nel nostro Paese. E ciò vale tanto sul fronte accusatorio, quanto su quello della difesa civile e penale, che ci ha abituato tutti ad accettare, per pura pigrizia mentale, il malfunzionamento dell’ordinamento, anche se sappiamo tutti che esso è falsato, manipolato a piacimento da ciascuno dei soggetti in causa. Ciò sottolinea l’irresponsabilità di fondo di una società che finge di preoccuparsi della condizione giovanile o dei nuovi problemi migratori che stanno investendo l'intero mondo, poiché ognuno di noi, in realtà, rimane impegnato soprattutto a nascondere le proprie ‘magagne’ e inettitudini, a difendersi dalle manchevolezze senza mai voler ammettere un errore, anche se si trattasse solo di mera sottovalutazione, di pura superficialità. Perché siamo, appunto, immersi ogni giorno nella superficialità, in quel suo abbraccio rassicurante che ci insegna a vivere in fuga dalla realtà portandoci a ragionare sull’altrove, a sognare vite facili, basate su scorciatoie che subordinano ogni questione attraverso minimizzazioni rassicuranti. Culturalmente, questo rimane un modo di respingere la realtà, non di affrontarla, come quel famoso parroco di ‘manzoniana’ memoria che preferiva spostare con il piede quei sassi che incontrava sul proprio sentiero al fine di evitarli, invece di scavalcarli. Ma un Paese di don Abbondio, con una cultura vuota di ogni sostanzialità, una televisione per ‘allocchi’ e un sistema di regole ormai inesistente, in cui vale tutto e il contrario di tutto, a un certo punto non potrà non rendersi conto, anche semplicemente per inerzia, che non può continuare a credere di poter affrontare ogni cosa mediante stucchevoli ‘giri di valzer’: qualcosa dovrà pur esser preso di ‘petto’, prima o poi. Sempreché non si voglia diventare definitivamente gli ‘zimbelli’ dell’Europa e del mondo.