Da diverso tempo, i politici al governo ripetono insistentemente che l’Italia sta bene grazie soprattutto alle politiche di austerità economica sostenute dal ‘superministro’ Tremonti. Contrariamente agli altri Paesi europei e mondiali, l’Italia ha saputo tenere testa a una delle crisi internazionali peggiori dal 1929 in poi. La nostra economia è austera, dunque noi italiani siamo riusciti a sostenere e a superare questo periodo oscuro senza troppi ostacoli. Ma siamo veramente sicuri che il modello di austerità delle politiche economiche di Tremonti sia riuscito a garantirci stabilità e certezza? L’austerità fine a se stessa, in economia è un po’ un paradosso. Ma come se la sta cavando l’Italia e, soprattutto, gli italiani? Guardando al resto d’Europa e del mondo e all’America, la crisi si è abbattuta con virulenza su quasi tutti i sistemi economici nazionali. Gli equilibri si sono spezzati. E le nazioni si sono ritrovate a dover fare i conti, nel vero senso della parola, con un’impennata della disoccupazione e una brusca frenata della produttività. L’Italia non è stata esente da questo circuito, anche se ha avuto la fortuna di avere un sistema bancario talmente chiuso e provinciale da aver raramente avuto qualche ‘grillo’ per la testa – solo Unicredit, l’unico gruppo con una visione più aperta sul mondo, ha dovuto fare i conti con investimenti troppo azzardati -. Ma l’Italia, anche se è stata solo ‘sfiorata’ dalla crisi finanziaria delle banche, non si è ritrovata del tutto immune, anzi. Noi siamo austeri, economicamente, dunque un po’ meno ‘perdenti’. Noi siamo austeri e la crisi non ci sconfigge. Noi siamo austeri e i problemi degli altri rimangono agli altri. Noi siamo austeri, ma sembra che questa austerità sia appannaggio esclusivo dei cittadini. La nostra austerità economica prevede tagli alla cultura, alla sanità, alle politiche familiari, all’istruzione, tagli di personale, aumenti delle accise sulla benzina, aumenti dei costi dei servizi pubblici e riduzione dell’erogazione degli stessi, aumenti delle tasse e delle spese militari, riduzione e annullamento degli incentivi statali. La nostra austerità economica prevede, tuttavia, aumenti alle spese dedicate alla politica e ai politici, incremento del numero dei sottosegretari, dei viceministri, degli assistenti e dei segretari. Così è, un po’, la nostra ‘Italietta’, piena di presidenti e direttori, di eccellenze e di ministri, di tante persone comuni che il titolo non ce l’hanno e non vi ambiscono nemmeno. La nostra economia dell’austerità sembra un po’ una presa in giro per tutti coloro che ogni mattina si alzano e debbono, di corsa e tra mille peripezie, accompagnare i figli all’asilo – privato, perché nel pubblico non c’erano posti, perché il Governo ha azzerato il fondo nazionale, i comuni hanno terminato i soldi varati dal precedente esecutivo guidato da Romano Prodi – o a scuola – dove devono ricordarsi di portare anche carta igienica e gessetti, perché non sono stati stanziati i finanziamenti – poi attraversare la città, spesso con dei mezzi pubblici che non arrivano mai in orario e finalmente dedicarsi alla piena giornata di lavoro, per chi ce l’ha. E alle cinque del pomeriggio ricominciare: scuola, spesa, casa, figli, famiglia e genitori anziani. I soldi sono sempre gli stessi, ma il costo della vita è aumentato, la benzina è arrivata a 1,6 euro al litro e non conviene più andare in auto in ufficio: ma se poi non ci si arriva proprio con i mezzi pubblici? Le famiglie italiane conoscono l’austerità e il rigore economico: lo vivono tutti i giorni sulla propria pelle, ma spesso non riescono a capire perché c’è sempre qualcuno che continua a comprare ville e girare in auto guidate da un autista in completo blu. Gli italiani sanno benissimo cos’è l’austerità: l’abbiamo vissuta negli anni del fascismo, negli anni della guerra e negli anni ‘70 del secolo scorso. Ma anche a quei tempi l’austerità non era fine a se stessa, non era un vortice oscuro del quale non si vedeva la fine. Oggi, mentre gli altri Paesi che la crisi, quella vera, l’hanno vissuta, trapassata e sconfitta – almeno in parte – noi continuiamo a essere austeri e poveri, senza i servizi primari statali e pubblici – l’amico welfare –, senza un lavoro, senza una scuola pubblica adeguata, senza un’assistenza sanitaria sicura, talvolta senza una casa e con sempre meno risparmi in banca. Le crisi economiche non si risolvono con un’austerità estesa solo alla popolazione e non alle classi dirigenti. Le crisi economiche, e questo Tremonti dovrebbe saperlo bene, si risolvono con politiche che aiutino la nazione a riprendere l’attività produttiva, magari investendo nelle infrastrutture e nei servizi, in politiche rigorose di contenimento dei costi – a 360 gradi –, di sostegno alle famiglie e di investimento nell’istruzione e nella ricerca. La ricchezza di un Paese nasce dai suoi cittadini, non dai suoi governanti. Forse, però, questo fatto Tremonti ancora non l’ha capito.