Qualche giorno fa, abbiamo intervistato il sindaco di Ribera, Carmelo Pace, in merito al riconoscimento ‘Dop’ dell’arancia prodotta in quel territorio, ottenuto a fine febbraio. Al di là della specifica notizia, che comunque è il risultato di oltre dieci anni di trafile burocratiche, questo giovane primo cittadino ha inoltre descritto alcune iniziative che hanno coinvolto attivamente tutti i cittadini del comune agrigentino: dal dipingere in colore arancio molti muri della città, al far adottare nella divisa delle scuole elementari il fiocco arancione. Gli abitanti di Ribera hanno così autopromosso, a quanto pare anche molto orgogliosamente, ciò che per loro è il simbolo della città: l’arancia locale. Tutto ciò potrebbe essere archiviato come una notizia ‘di colore’. Ma, ripensandoci nei giorni successivi, ci siamo resi conto che, forse, è qualcosa di più: è la dimostrazione che l’identità nasce dall’appartenenza, dalla condivisione, dalla valorizzazione di un patrimonio comune, non necessariamente materiale. Dovrebbe essere così, ma non lo è più, per i valori ideali della politica o della morale, sui quali sembra imperversare un caos totale. Un’identità che dovrebbe essere completamente in antitesi con quella individualistica che ci è stata inculcata dal sistema mediatico, globalizzato e globalizzante, un egoismo diffuso che fa credere a chicchessìa, nell’esprimere il proprio punto di vista, di detenere una ragione assoluta e incontrastabile laddove di assoluto e incontrastabile non può esserci nulla, persino quando i percorsi culturali e ideologici sembrerebbero i medesimi. Ha tentato di spiegarlo Giovanni Floris, ospite di Fabio Fazio a ‘Che tempo che fa’, specificando che l’identità culturale di un giornalista non è classificabile con un ‘di destra’, ‘di centro’ o ‘di sinistra’. Ma se l’origine dell’identità è appartenenza, l’identità italiana alla quale tutti noi dovremmo rapportarci di cosa ci fa sentire parte?