Francesca BuffoGiovedì 3 marzo 2011, alle ore 17.30, presso il caffè letterario ‘Giubbe Rosse’ di Firenze, si terrà la presentazione ufficiale del libro del Segretario nazionale del Partito liberale italiano, on. Stefano de Luca, intitolato ‘Mi chiamavano onorevolino: profilo di un liberale siciliano’, edito da Rubbettino. Si tratta di un’opera che ripercorre la vita di un autorevole esponente politico che ha ricoperto alti incarichi istituzionali in molti Governi della Repubblica italiana e presso il parlamento europeo, con la consapevolezza di dover rappresentare, con coerente linearità, una nobile filosofia e un fondamentale ‘enzima’ culturale del nostro Paese: quello della cultura laica e liberale. Infatti, in occasione del 150esimo anniversario della nostra unificazione nazionale, risulta quanto mai opportuno rimarcare i valori e il senso dello Stato di una tradizione che tanto ha dato alla Storia d’Italia e che vede nel conte Camillo Benso di Cavour uno dei suoi padri nobili. Non è molto semplice riuscire a far comprendere, agli italiani di oggi, chi sia stato il conte di Cavour. Per molti anni, egli fu il primo ministro del Piemonte: fu lui che inviò l’esercito piemontese in Crimea a rialzare, con la vittoria della Cernaia, la nostra gloria militare caduta con la sconfitta di Novara del 1849; fu lui che fece calare dalle Alpi l’esercito francese per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia; fu lui che governò l’Italia nel periodo più solenne del nostro Risorgimento, che diede il più potente impulso all’impresa dell’unificazione italiana con ingegno luminoso, con costanza invincibile, con operosità più che umana. Molti generali passarono ore terribili sui campi di battaglia, ma egli ne passò di più terribili nel suo ufficio, quando l’enorme opera sua poteva rovinare da un momento all’altro come un fragile edificio a un crollo di terremoto. Ore, notti di lotta e di angoscia passò, da uscirne con la ragione stravolta e la morte nel cuore. E fu questo gigantesco e tempestoso lavoro che gli accorciò di vent’anni la vita. Eppure, divorato dalla febbre che alla fine lo portò alla morte, egli ancora lottava disperatamente per poter far qualcosa per il nostro Paese: “È strano”, diceva, “non riesco più a leggere, non posso più leggere”. E mentre veniva salassato dai medici e la febbre aumentava, implorava disperato: “Guaritemi! La mia mente s’oscura: ho bisogno di tutte le mie facoltà per trattare di gravi affari”. Quando era ormai in fin di vita e tutta Torino s’agitava, egli disse con affanno al Re, che vegliava al suo capezzale: “Ho molte cose da dirvi, Sire, molte cose da farvi vedere, ma sono malato, non posso, non riesco…”. E si desolava, perché anche i suoi ultimi pensieri erano rivolti allo Stato, alle nuove provincie italiane che si erano unite, alle tante cose che bisognava ancora fare. Nelle ultime notti di vita, quand’egli aveva ormai perfettamente compreso di non avere più speranze, lo prese il tormento: “Educate l’infanzia e la gioventù, governate con la libertà”. Il delirio cresceva, la morte ormai gli era sopra ed egli invocava Giuseppe Garibaldi, col quale aveva avuto dei dissensi, e Venezia e Roma, che ancora non erano state liberate. Egli aveva vaste visioni dell’avvenire d’Italia e d’Europa, ma il suo grande dolore, negli ultimi giorni della sua esistenza, non fu di sentirsi mancare la vita, bensì di vedersi sfuggire l’Italia, che aveva ancora bisogno di lui e per la quale aveva logorato, in pochi anni, le forze del suo organismo. Ecco, questa è stata la vita di Cavour: un’esistenza donata a un ideale e al Paese del quale noi siamo, spesso irresponsabilmente, eredi. Non si racconta così il nostro Risorgimento nelle scuole. E nemmeno come ha fatto, poco più di una settimana fa dal palco di Sanremo, Roberto Benigni, commuovendo oltre 20 milioni di italiani nel ricordare chi ha scritto l’inno nazionale. Un artista ha dovuto fare da testimonial dell’unità del nostro Paese recitandone l’inno, riuscendo a tenerci uniti davanti al piccolo schermo. Ma noi sappiamo che un po’ meno lo siamo nelle piazze, o di fronte alle questioni ideologiche e morali. Cavour, Mazzini e Garibaldi hanno fatto l’Italia. E in molti parteciperanno, nei prossimi giorni, ai vari eventi legati alla commemorazione. Tra questi, anche - se non soprattutto - molti rappresentanti del mondo della politica attuale. In pochissimi, però, saranno quelli che, a giusto titolo, sapranno testimoniare cosa vuol dire lavorare in Italia e, soprattutto, per l’Italia, in coerenza con gli ideali che hanno animato quell’unità che ci battezza in quanto italiani. Con le sue memorie, Stefano De Luca lo ha fatto.


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Luca Bagatin - Pordenone - Mail Web Site - mercoledi 2 marzo 2011 18.47
Proprio oggi ho ricevuto dalla Rubbettino il libro a casa.
Conto di recensirlo quanto prima.
Mi sembra molto entusiasmante: una biografia di un liberale contemporaneo.
Stefano De Luca mi convince da sempre !


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