“È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte e riparati gli eventuali errori. Giornalisti ed editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti ed editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori”. Così recita l’articolo 2 della legge professionale n. 69/1963 che istituisce l’Ordine nazionale dei Giornalisti. Tra i diritti e i doveri del giornalista, dunque, vi sono alcuni elementi decisamente fondamentali, che è bene ricordare e sottolineare: la libertà di informazione e di critica sono i primi valori insopprimibili che, però, debbono rientrare nella sfera della liceità delle norme dettate dalla legge a tutela della personalità altrui. Mi permetto di sottolineare tale passaggio perché in questi ultimi anni si è probabilmente perso di vista tale aspetto del mestiere del giornalista. Altro punto fondamentale dell’articolo 2, che esprime diritti e doveri di tutti i giornalisti, è l’inderogabilità dell’obbligo di rispettare la verità sostanziale dei fatti osservati. Perfetto, ma un dubbio corre fugace: cosa si intende per verità sostanziale? Qual è la verità sostanziale di una notizia? Potremmo appellarci alla consuetudine giuridica e affermare che, per verità sostanziale, si intende una verità “accettata da entrambe le parti in causa”, quella stessa verità che potrebbe differire dalla verità oggettiva, ma che dobbiamo altresì ritenere vera e accettare nel vivere comune con tutte le conseguenze che comporta. La domanda che ci siamo posti ha un po’ il gusto alacre della retorica. Pertanto, ora cerchiamo di inquadrala da un’altra angolatura. La verità sostanziale dei fatti, cui fa appello la legge, si collega inevitabilmente ad altri elementi espressi dallo stesso articolo 2: il criterio di osservazione dei fatti che si vuole narrare, che dev’essere leale ma non oggettivo, e il principio della fiducia, che si rivolge in primo luogo alla natura del legame che intercorre tra il giornalista e la fonte e in secondo luogo con il lettore, vero fruitore della notizia riprodotta. È un legame biunivoco quello tra la fonte e il giornalista e il lettore, in cui il giornalista svolge il ruolo di tramite e ‘illustratore’ della notizia trasmessa. Il compito del professionista, tuttavia, non deve essere solo quello del mero trasmettitore, bensì il suo dovere, così come si evince dalla norma citata, è quello di garantire la veridicità dell’informazione e la bontà della stessa riportata dalla sua fonte. Il fatto non può essere alterato o abbellito da elementi improvvisati, così come è sempre necessaria una confutazione della stessa fonte che potrebbe rivelarsi inattendibile. Il giornalista, si sa, è un essere umano e, come tale, fallibile e talvolta mediocre. Di recente, proprio la fallibilità umana di molti giornalisti è stata oggetto di discussioni e, talvolta, di indagini della magistratura. L’ultimo caso è stato quello del direttore di Libero, che ha dichiarato in un proprio editoriale, l’esistenza di un piano per accusare il presidente del Consiglio tramite la pianificazione di un falso attentato ai danni del presidente della Camera, attualmente avversario politico del premier. Lo scenario, così come raccontato, sembrava aver l’aria di una ‘boutade’ divertente più che realistica, ma l’intervento della magistratura, sia di Milano, sia di Trani (il luogo previsto per l’attentato sarebbe stato Adria, in Calabria) stanno dimostrando quanto tali dichiarazioni possano nascondere effetti e intenzioni di varia portata. La politica di opposizione bolla l’editoriale quale uso distorto dello strumento di informazione, richiamandosi ai valori etici espressi nella legge n. 69/1963. Secondo la maggioranza, al contrario, il lavoro del giornalista è stato equilibrato e necessario. Questo bell’esempio di ‘politica giornalistica’, ovvero di utilizzo del mezzo di informazione a fini di strumentalizzazione di notizie non direttamente confutabili, ma per le quali è necessario l’intervento della magistratura, sembra essere un po’ il paradigma del decadimento del giornalismo di casa nostra. Il fenomeno del cosiddetto ‘dossieraggio’ quale mezzo di demolizione di una parte politica avversa, sia di destra sia di sinistra, tramite la costruzione di notizie prive di fondamento, basate su ipotesi non verificate né verificabili perché il più delle volte frutto di falsificazioni documentali, indicano la precisa volontà di manipolare la coscienza dei lettori, alterando l’informazione a seconda del proprio interesse. Operazioni di questo genere violano la fiducia che intercorre tra il giornalista e il lettore, al quale quest’ultimo si affida quale soggetto inconsapevole nonché mero fruitore ultimo della notizia, che solo attraverso di essa riesce a emergere dallo stato di ‘ignoranza’ di ciò che accade nel mondo, nel proprio Paese o intorno a lui. Solo attraverso la lettura o l’ascolto delle notizie e dei fatti il lettore riesce a crearsi una coscienza sociale e politica, ma se questa viene volontariamente alterata e manipolata mediante la trasmissione di informazioni non verificabili, il giornalista sta violando il patto sottoscritto al momento dell’adesione all’ordine professionale di riferimento. Infine, se esiste un ordine professionale di riferimento con il compito di sorvegliare e tutelare la trasmissione delle informazioni al pubblico, perché l’unico soggetto che interviene, il più delle volte, è solo la magistratura?