Francesca BuffoVent'anni fa la battaglia ha avuto inizio con la pubblicazione del saggio 'No logo' della giornalista canadese Naomi Klein. Era la contestazione di un mondo in cui l’immagine è tutto, tanto che si impiegano sempre più forze e denaro sul marchio e sulla proposta di una serie di valori immateriali e ideali da collegare a esso, piuttosto che alla fase della produzione di merci. Ma se il branding è stato quel fenomeno che ha radicalmente cambiato il concetto di capitalismo e le sue strategie portando le grandi aziende a delocalizzare nelle aree del mondo dove la manodopera costa meno, altrettanto rivoluzionario si può definire il movimento no-global che lo ha ideologicamente contrapposto. Un'azione di controcultura che raccoglie consensi in tutto il mondo, ma che certo non ha frenato il consumismo. Anzi, a suo modo è diventato anch'esso brand, moda di un sentire ideologico che fa sentire 'più buoni e giusti'. Per alcuni addirittura un pretesto dietro cui celare un'occasione di guadagno. Un'analisi azzardata? Pensatelo, se volete, ma per piacere non credeteci fino in fondo. Perché i segnali di quanto affermo sono già da qualche tempo sui muri di Parigi. La notizia è travestita dai media (come sempre più spesso accade) dal pretesto di un'altra notizia: il divieto di portare il burqa in Francia (dal 2011 in poi sarà illegale per una donna indossare in pubblico il velo islamico). Sì, perché il fenomeno in questione è l'opera di Princess Hijab, artista di strada che 'modifica' i manifesti pubblicitari affissi nella metropolitana parigina, ricoprendo con un velo nero islamico le donne – e gli uomini – spettinati e mezzi nudi. Dati i severi controlli da parte delle autorità competenti della capitale francese, in genere le sue opere resistono soltanto tre quarti d’ora prima di essere fatti sparire. Per questo la principessa si è organizzata: in un anno interviene con quattro o cinque graffiti. Ciascun intervento è scelto con cura, fotografato e subito messo online. Su molti giornali la notizia passa come il gesto di una fondamentalista religiosa che cerca di segnare un punto a suo favore colpendo le carni femminili. Per Hijab, invece, la religione e i musulmani sono 'interessanti' per l’impatto che possono avere in un’ottica artistica ed estetica sui codici che ci circondano, in particolare la moda. L'artista, uomo o donna che sia non è chiaro a nessuno, ama piuttosto definirsi nuova corrente di 'graffitari delle minoranze'. Graffiti che in rete vengono definiti 'opere' e la sua arte mordi-e-fuggi è stata messa in mostra da New York a Vienna. In un'intervista rilasciata a The Guardian, afferma “Ho iniziato a fare ciò che faccio a 17 anni. Prima disegnavo donne velate sugli skate-board e su altri supporti grafici, poi ho deciso di farmi avanti, di affrontare il mondo esterno. Ho letto il libro No Logo di Naomi Klein e ho avvertito l’ispirazione a rischiare, intervenendo in luoghi pubblici, prendendo di mira la pubblicità”. Intanto facendo della sua identità un mistero, prendendo di mira le grandi catene low cost come H&M e marchi noti come Lafayette e Virgin o griffe costose come Dolce & Gabbana – utilizzando indirettamente la forza di tali brand – ha acquistato fama internazionale diventando un fenomeno globale su facebook. Il tempo ci dirà se tutto ciò fa parte di un'azione di marketing mirata.




(articolo tratto dal sito www.periodicoitalianomagazine.it)
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