Sin dal decennio ’60-’70 del secolo scorso, il nostro sistema economico è stato penalizzato dalle logiche delle casate più illustri del capitalismo italiano. Una classe imprenditoriale che, dal dinamismo generalmente imposto dagli eventi, ha tratto vantaggi economici pur difettando d’intraprendenza. Una cronica scarsità di capitali e una storica ritrosia all’autofinanziamento e al reinvestimento dei profitti hanno spesso indotto i nostri manager a reagire all’atrofia del mercato azionario attraverso l’indebitamento e la conseguente emissione di obbligazioni, costringendo le banche ad assorbire le obbligazioni stesse e il Tesoro e la Banca d’Italia a sottoscrivere il deficit delle aziende. La gravità di questo ‘saccheggio’ discende direttamente da un complesso intreccio storico tra affari e politica, che ha generato una decennale tendenza alle sollecitazioni e ai baratti, ai nepotismi e alle regalie, le quali a loro volta hanno alimentato un’economia sostanzialmente sovvenzionata, in barba alla tanto decantata ‘libera iniziativa’ sventolata ai ‘quattro venti’. L’Italia, dal punto di vista capitalistico, ha visto solamente la fossilizzazione di una ‘razza padrona’ che ha provveduto a confiscare il potere politico ed economico utilizzando il denaro dello Stato per finalità che non sempre con lo Stato avevano a che vedere. L’unico grande personaggio che ebbe il coraggio di denunciare i guasti inferti alla nostra economia da parte di una determinata ‘borghesia’ fu Enrico Cuccia, la cui mancanza, in questi anni, si sta facendo particolarmente sentire. In ogni caso, Cuccia era un banchiere che ragionava come tale. Dunque, non sempre riusciva ad affondare il ‘coltello’ tra i guasti più profondi del sistema economico, danni provocati da una leva di ‘capitalisti all’italiana’ che ha storicamente trasformato intere schiere di esponenti politici in autentici ‘fantocci merovingi’, ‘feudalizzando’ lo Stato al fine di assoggettarlo a una infinita serie di conflitti tra dovere e interessi. Non esistendo più, oggi, luoghi riconoscibili di potere legittimo, come si può stabilire se sia più opportuno, per lo Stato, stanziare fondi per sostenere le spese di amministrazione del sistema giudiziario o per conservare il posto di lavoro degli operai della Fiat o riassorbire gli impiegati dell’Alitalia? La sinistra italiana, in questo particolare settore, ha commesso un errore storico di valutazione gravissimo: la cosiddetta ‘questione morale’ non avrebbe dovuto riguardare solamente un particolare quoziente di disonestà e di corruzione del nostro ceto politico, ma l’inesausta proliferazione di un’economia ‘mista’ – senza riscontri negli altri Paesi dell’occidente capitalistico – che ha finito col sopprimere ogni auspicabile distinzione tra etica pubblica e utile privato. Eppure, l’Italia è anche il Paese di una solidissima ‘piccola industria’, di imprese ‘residuali’ che approvvigionano un mercato ‘atomizzato’, di aziende ‘anticicliche’ che assoldano mano d’opera nelle fasi di bassa congiuntura, di industrie ‘interstiziali’ che soddisfano una domanda fortemente specializzata. Insomma, il nostro sistema economico ha un’altra grande ‘spina dorsale’: quella dell’imprenditoria ‘periferica’, che non è affatto marginale rispetto ai tradizionali circuiti di scambio. Le manifatture con meno di 250 addetti sono compattamente distribuite nel centro-nordest della nostra penisola e hanno avuto una forte propagazione per via imitativa, generando un’area del mobile nel veronese, della produzione di scarpe nel varesotto, delle cucine componibili nelle Marche e cosi via. È la cosiddetta ‘terza Italia’ quella che deve trovare una strada per espandersi e rilanciare il nostro ‘Made in Italy’ sui mercati internazionali, poiché presenta forti fattori di integrazione socio-culturale che riducono la conflittualità riproducendo una forza–lavoro saldamente affidabile nei confronti di un sistema intrinsecamente ‘altro’ rispetto ai tradizionali rapporti di produzione capitalistica. Insomma, i capitalisti ‘veri’, che rischiano i propri soldi, in questo Paese ci sarebbero, esistono. Eppure, raramente sono tutelati, incentivati, aiutati, anche se lo meriterebbero a pieno titolo. Da questo punto di vista, non ha tutti i torti chi vede nella manovra predisposta dal ministro Tremonti un qualcosa che non pone molto in evidenza le esigenze di rilancio economico del tessuto produttivo italiano. Tuttavia, non è certo la risposta dei grandi questuanti di fondi pubblici (americani, serbi o russi che siano) a convincere intorno ai difetti di una politica economica che impedisce ai ‘piccoli’ di entrare in mercati già colonizzati da altri. Sarebbe invece necessaria una ‘nuova alleanza’ tra imprenditori medi e piccoli, affinché il Paese possa resistere a quelle pressioni che contrappongono le esigenze di controllo della spesa pubblica al sostegno di quei ‘carrozzoni’ che, nel corso dei decenni, hanno assecondato, in linea di fatto, un sistema finanziario di aiuti statali, salvo poi disdegnare in pubblico ogni genere di teoria tesa a razionalizzare un sistema di servizi dignitosamente efficienti. In ciò, lo stesso ceto medio dovrebbe essere assai più attento, al fine di non lasciarsi incantare dalle ‘sirene’ della demagogia imprenditoriale più dirigista e ipocrita. Il ceto medio deve cominciare a guardarsi proprio dai grandi capitalisti, anziché dubitare delle intenzioni dello Stato, il quale, per indole naturale, è indotto a fare il proprio interesse al fine di predisporre una seria regolamentazione della spesa e un plausibile riassestamento del proprio bilancio. Gli slogan populisti e le ‘boutades’ dei ‘ricchi’ appaiono considerazioni risibili, che rendono soddisfazione proprio a quell’intellettualità politicizzata che pretenderebbe l’avvento di un socialismo burocratico alle cui enunciazioni di principio non seguono quasi mai puntuali elaborazioni programmatiche. Compito della classe media italiana è invece quello di comporre un nuovo ‘mosaico’, un novello atlante di affinità e differenze, provando a smantellare quelle incrostazioni clientelari che creano solamente un’economia di ‘relazione’ a vantaggio di pochi, un sistema che ha già causato una serie di ‘crack’ finanziari danneggiando fortemente la nostra immagine sui mercati internazionali, rendendo altresì il nostro capitalismo un mero coacervo di interessi oligarchici e parassitari, chiusi a ogni genere di espansione e di nuova cittadinanza economica in favore di imprenditorialità e di soggetti produttivi moderni, innovativi, realmente competitivi. Nel merito della questione meridionale, per esempio, svariate analisi affermano che il Mezzogiorno avrebbe raggiunto, nei grandi centri urbani, una disoccupazione pari a oltre il 40 per cento, con un media interregionale superiore al 22. Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: quanto fotografato dagli istituti di ricerca è causa sufficiente per l’esplosione di una tensione sociale con finalità di sovvertimento violento della realtà data? Potenzialmente, sì: da una politica ‘distruttiva’, attuata dal sistema sabaudo, si è passati a una nazionalistica del regime fascista e a un’altra ancora, fondamentalmente assistenzialista, dell’ultimo sessantennio. Se si fossero investiti correttamente i finanziamenti statali, probabilmente oggi il sud rappresenterebbe la vera nuova realtà europea. Così non è stato. E così, purtroppo, non è. Si sostiene che i cittadini ‘meridionali’ non vogliano lavorare, altro luogo comune che ostacola una nuova cultura della nazione. Ma se rileggessimo le pagine della Storia italiana, dovremmo prendere atto di una realtà completamente diversa da quella sapientemente costruita nell’ultimo secolo. E ci accorgeremmo che proprio il sud ha rappresentato il primo autentico Stato unitario della nostra Storia. Ma allora, perché il Mezzogiorno continua a subire? E perché non insorge? Perché esso rappresenta, in realtà, una fucina economica ‘sganciata’ da quelle logiche mediante le quali molti economisti si affannano a dipingerlo, ovvero il classico sistema a economia assistita. Quest’ultima affermazione, infatti, a prima vista appare inconfutabile, ma non risulta sufficiente per fare del sud una ‘roccaforte’ di consuetudini, poiché gli italiani del sud, nella loro moderazione, hanno sviluppato una libertà di agire che appartiene a una logica di accettazione di quanto lo Stato opera in loro favore, in commistione con quanto loro, sufficientemente liberi, possono fare per essi stessi. Potremmo definirlo un sistema a economia ‘liberista – fai da te’, mutuando un luogo comune oggi da molti paventato e, tuttavia, generato e adottato a dispregio del governo centrale. Ma qui vive un altro paradosso: il sud è contro lo Stato, ma non contro la nazione o contro ciò che esso identifica come nazione. Ciò costituisce una realtà del cui domani “non v’è certezza” e la cui analisi richiede ben altre menti rispetto a quelle espresse dal fenomeno leghista. Occorre perciò inoltrarsi nella ‘babele’ sociologica del nostro tessuto socioeconomico per cogliere un altro aspetto: quello dei ‘livelli sociali’, che si sono ampliati o accorciati a seconda dei metodi di analisi praticati, ma che certamente si sono via via trasformati in riferimento al benessere economico di cui gode la società. E’ preferibile, a tal fine, tener ferma la suddivisione classica della società per poter notare come, da una strutturazione basata sulla dicotomia classe operaia/borghesia si sia passati, per effetto delle nuove condizioni economiche, allo schema: piccola borghesia/media borghesia/borghesia. I confini sono dunque meno netti e rientrano, tutti, nell’ambito di un’unica specie. E’ infatti aumentato il livello economico che ha avvicinato i diversi livelli. E si è abbassata la media della qualità culturale complessiva, per effetto di uno Stato che ha abdicato totalmente alla propria funzione educatrice, fondamentale per una Repubblica. In sostanza, l’elemento culturale non costituisce più uno dei distinguo principali all’interno del sistema sociale meridionalista. La classe operaia, intesa in senso ‘marxiano’, è uscita dai propri angusti parametri storico-sociologici, lasciando il proprio spazio d’origine a disoccupati ed emarginati i quali, pur rappresentati politicamente, non costituiscono un pericolo per il benessere acquisito o per la stabilità democratica del Paese. Tutto questo grande ‘calderone’ piccolo borghese, al proprio interno prepara una politica moderata di mantenimento e di consolidamento delle proprie posizioni, incontrandosi con molti settori delle altre classi sociali sulla difesa dei rispettivi interessi. La logica, insomma, è comune, pur nella differenza degli interessi acquisiti da difendere. Ma ciò non rappresenta una posizione conservatrice, come erroneamente qualcuno interpreta, poiché non difende un modello sociale determinato, bensì le semplici conquiste ottenute sul versante economico, le quali non fanno riferimento ad alcun modello preciso. Spostando l’attenzione sui rappresentanti imprenditoriali, cosa possiamo intravedere in un ceto rientrante a pieno titolo nella classificazione generale di ‘borghesia’? Prendiamo a modello la suddivisione classica per tipologia di imprese: piccola, media e grande. Nella piccola impresa includiamo anche l’artigianato e il commercio, o almeno quelle parti che possiamo definire piccole per interessi territoriali o limitrofi rispetto al loro territorio di azione. Tutte e tre le categorie hanno un interesse comune verso una politica fiscale leggera e al mantenimento dell’intervento pubblico di sostegno. Tutte e tre le categorie hanno inoltre interesse affinché la struttura industriale non venga stravolta dalle necessità nazionali o dai bisogni collettivi, comprimono la possibilità di far fiorire nuove iniziative e alimentano, anche in questo settore, una forma di ‘disoccupazione industriale’ ancor più grave rispetto a quella impiegatizia. Le nuove forme di industrializzazione, soprattutto quelle che investono interessi indiretti, quali quelli sperimentali e di ricerca, necessitano di sostanziosi finanziamenti e di sostegni mirati. Ma la difficoltà a realizzare simili strutture, per precisi interessi totalmente avulsi da ogni concetto di economia matura, impoverisce un tessuto industriale che, a sua volta, tende a ripiegarsi in una sorta di conservazione egoistica. L’ingresso delle grandi concentrazioni industriali in settori tradizionalmente autonomi, quali il tessile, la moda e l’agroalimentare, se da una parte hanno migliorato l’aspetto della commercializzazione e della distribuzione, dall’altra hanno ristretto la possibilità di offrire nuovi spazi all’imprenditoria emergente, basata sulla qualità della ricerca e su nuove professionalità. Infine, la non gradita alleanza ricerca/ricerca pubblica/industria, finalizzata alla ‘industrializzazione’ della ricerca stessa in quanto bene da esportare, impedisce un autentico rinnovamento globale del sistema imprenditoriale. Tale atteggiamento lo possiamo fotografare, per esempio, nel settore sanitario, ove il rapporto ricerca/impresa/salute risulta ancora ostativo a una visione più completa e articolata, maggiormente funzionale a un diverso sviluppo qualitativo, sia del settore sanitario, sia dell’impresa stessa. Quindi, nel comparto imprenditoriale troviamo l’altra parte del conservatorismo italiano e, forse, quella meno disponibile a un rinnovamento globale del ‘sistema – Italia’. Peraltro, non va sottaciuta la totale mancanza di una nuova filosofia imprenditoriale/capitalistica, conseguente a un mancato sviluppo di nuove forme di capitalismo. Una mancanza causata, ribadisco, dalla presenza di un ristretto oligopolio che ha saputo mantenere, pur attraverso diverse vicende, uno stretto legame con i vertici politici nazionali, al fine di condizionarli a proprio favore, anche se le necessità avrebbero suggerito scelte diverse. Lo scarso sviluppo della piccola impresa e dell’artigianato è dunque il risultato, alla luce dei fatti, di uno stretto controllo macroeconomico da parte di una oligarchia generatasi all’interno del Paese, un contenimento frutto, per certi aspetti, di un’accentuata necessità ‘difensiva’ avvertita da alcune grandi imprese, nonché da una colpevole sottovalutazione dell’importanza del ruolo che quelle piccole potrebbero o possono giocare. L’egoismo oligarchico è una delle cause anche di un mancato ricambio di indirizzi merceologici. Ed è per questi motivi che il cosiddetto ‘interesse collettivo’ non diviene mai un obiettivo programmatico, poiché non esiste un progetto sociale riconosciuto per il nostro ‘sistema – Paese’. Questi sono i motivi per cui, in tema di liberalizzazioni, l’Italia sia sostanzialmente un Paese con l’artrosi: un Paese che soffre, che fa fatica a muoversi. Tutti gli indici complessivi di valutazione del grado di liberalizzazione nel nostro Paese, in quasi tutti i comparti economici, denotano un andamento assolutamente statico rispetto agli anni precedenti, se non addirittura declinanti. O meglio: il grado di liberalizzazione in atto rimane grossomodo stabile, ma le dinamiche appaiono complessivamente preoccupanti, poiché a fronte di alcuni settori che migliorano il proprio grado di liberalizzazione grazie alle dinamiche inerziali – cioè alla fiducia degli operatori, i quali sfruttano le opportunità offerte dalla liberalizzazione, pur essendo sostanzialmente invariato il set di regole – in alcuni casi, in particolar modo per le telecomunicazioni e il mercato del lavoro, si rilevano significativi passi all’indietro dovuti a una volontà politica di interferire con l’andamento del mercato. Una politica che interferisce sul mercato, favorendo sempre gli stessi soggetti. Non voglio dire altro, poiché il dato appare abbastanza chiaro. Gli indici che generalmente misurano i processi di liberalizzazione del mercato comparandoli con quelli degli altri Paesi europei, rilevano barriere all’ingresso dei mercati e ostacoli legali e fiscali che lo Stato oppone al processo di concorrenza. Il quadro che ne esce è tutt’altro che incoraggiante. Soprattutto perché viene fuori chiaramente un colpevole: l’intera nostra classe politica, che sembra non voler prendere sul serio la sfida delle liberalizzazioni, ovvero uno degli snodi su cui si gioca il futuro della nostra competitività sui mercati. Liberalizzare significa attuare una forma di libertà economica e di democrazia che riguarda l’intera società, dunque anche settori come il mercato del lavoro e quello delle professioni. Ma fin quando non verranno rimosse quelle barriere d’entrata che impediscono a molti l'accesso stesso ai mercati, il nostro Paese non potrà ripartire. E la libertà tanto auspicata rimarrà solamente una chimera.
Presidente dell'associazione culturale 'Phoenix'
Direttore responsabile del mensile 'Periodico italiano magazine'
(testo tratto dai lavori del convegno 'Liberalizzare' , organizzato dall'associazione culturale 'Evoluzionaria' - Pesaro, 26 novembre 2010)