James Bond, secondo gli esperti di media, è uno dei personaggi cinematografici più conosciuti al mondo.
Tre miliardi di persone – addirittura la metà della popolazione mondiale – avrebbe visto almeno uno dei film aventi per protagonista questo agente dei servizi segreti britannici dalle caratteristiche assai particolari. Non si tratta, infatti, della “spia” oscura e dal profilo estremamente basso che
Joseph Conrad ci ha fatto conoscere nel suo
“L’agente segreto”: un uomo piccolo ed insignificante, la cui “copertura” era una polverosa bottega di pennini e quaderni, e con una famiglia composta da una moglie dolce ma poco intelligente e da un cognato mentalmente ritardato.
L’immagine proiettata da
James Bond è completamente diversa. Si tratta di un donnaiolo dall’eleganza un po’ fredda, ma a cui nessuna donna sa resistere, meno che mai le bellissime spie delle potenze avversarie. E soprattutto si tratta di un agente che usa metodi assai convenzionali, niente foto da satelliti o marchingegni elettronici all’americana. La sua gadgettery è tutta concentrata nella sua
Austin Morris l’ultima auto ormai in qualche modo connessa con l’industria automobilistica britannica. Eppure, nonostante ciò, raccoglie informazioni e successi infinitamente superiori a quelli degli
alleati-rivali americani, malgrado la superiorità numerica e finanziaria di questi.
Come ha scritto lo storico inglese
Jeremy Black nel suo
“The Politics of James Bond”, nell’opinione pubblica mondiale si è con questo sistema riusciti ad affermare “un’immagine dello scontro globale visto in una prospettiva occidentale, nonché un’assai peculiare percezione del ruolo della Gran Bretagna nel mondo”. Come questa visione dei servizi segreti inglesi, intellettualmente più astuti ed operativamente più efficienti non solo dei loro avversari, ma anche dei loro più ricchi e goffi cugini americani, si concili con le più
recenti performances degli agenti di Sua Maestà lo si capirà solo tra qualche tempo. Certo è che le rivelazioni sull’origine del
dossier britannico così sperticatamente lodato dal
Colin Powell in pieno Consiglio di Sicurezza, sono poco incoraggianti.
Il titolo del dossier
“Iraq – Its Infrastructures of Concealment, Deception and Intimidation” era così roboante da essere quasi intraducibile ed in grado di impressionare anche chi fosse maliziosamente predisposto a notare che diciannove cartelle erano forse un po’ poche data la complessità dell’argomento e l’enorme rilievo delle decisioni da prendere sulla base di questo tipo di informazioni.
Questo smilzo rapporto faceva peraltro seguito ad un altro dossier che in venticinque cartelle si proponeva di descrivere gli
“Iraq’s Weapons of Mass Destruction Programmes” e che era stato reso pubblico
prima della Risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza. E si trattava di un document assai atteso, in quanto il precedente trattava essenzialmente delle cosiddette
dual use technologies, cioè le tecnologie ad uso civile a disposizione dell’Iraq e che possono essere utilizzate anche nell’industria militare, ma era un po’ insufficiente in materia di prove che effettivamente ciò fosse avvenuto.
Non si trattava di granché di nuovo. Informazioni su queste tecnologie a doppio uso sono liberamente disponibili, e lo erano anche prima che esistesse quel formidabile strumento di comunicazione e di ricerca che è
Internet. Molti anni fa, infatti, uno studente dell’Università di
Princeton dimostrò, nella sua tesi, che era possibile costruire una
bomba atomica con pezzi e materiali liberamente in vendita nei negozi specializzati per gli appassionati del “fai da te”. Negozi di questo genere, e veramente ben forniti, esistono, però, solo nei Paesi occidentali e solo in alcune città. Oggi, grazie ad Internet, le informazioni sono, invece, disponibili universalmente, mentre procurarsi i materiali è rimasto difficile e forse lo è diventato anche di più, perché il commercio elettronico ha reso più difficile l’anonimato del compratore.
Ma il fatto che su Internet si trovino informazioni di ogni genere non deve essere sfuggito a
James Bond, o almeno ai suoi attuali eredi, né all’assai chiacchierato
“Communication Department” di Tony Blair, guidato al “mago dell’immagine”
Alastair Campbell. Il dossier sventolato dal Governo britannico e incautamente preso per buono persino da una persona assai equilibrata e prudente come
Colin Powell, è infatti quasi per intero
ricavato da Internet, anche se dichiara di trarre le proprie informazioni “da varie fonti, inclusi materiali dei servizi di informazione”.
Ad un esame più approfondito condotto dal giornalista
Michael Jansen, il quale scrive soprattutto per media mediorientali, la principale fonte è risultata essere un articolo pubblicato da uno studente arabo-americano,
Ibrahim al Marashi, nel settembre del 2001, sulla rivista
MERIA - Middle East Review of International Affairs. Questo articolo, dal titolo
“Iraq’s Security and Intelligence Network: a Guide and Analysis”, consiste nelle note e nelle riflessioni fatte da
Marashi leggendo parte delle migliaia di documenti dello spionaggio iracheno catturate in Kuwait e nel nord dell’Iraq dopo la guerra del 1991. Il che significa che si tratta di materiali vecchi almeno di dodici o tredici anni. La maggior parte delle informazioni citate da
Marashi provengono peraltro da fonti secondarie, ma nel complesso l’articolo contiene ciò che il titolo promette: un’illustrazione di come è organizzato
il sistema della sicurezza e dello spionaggio dell’Iraq.
La rivista in questione
(MERIA) è peraltro una pubblicazione del
Centre for Global Research in International Affair (GLORIA) che sarebbe di proprietà personale del suo direttore ed editore
Barry Rubin, professore al
Centro di Studi Interdisciplinari di Herzilya, in Israele.
MERIA è liberamente disponibile su Internet, ma la riproduzione dei materiali in essa pubblicato
richiede una concessione del copyright. Secondo le informazioni raccolte da
Michael Jansen, questo permesso non sarebbe stato né richiesto, né concesso dalla rivista israeliana. Se ciò fosse vero, si tratterebbe di un caso di plagio, aggravato dal fatto che la parte ricopiata da
MERIA non è una piccola parte, citata senza la dovuta attribuzione, ma copre sedici delle diciannove pagine del rapporto presentato dal governo britannico. Singolari dettagli: il testo presentato dal governo inglese conterrebbe
gli stessi errori di battitura e di grammatica commessi dallo studente arabo-americano, e le uniche innovazioni introdotte nella parte plagiata sarebbero alcuni avverbi tendenti ad aggravare i giudizi negativi espressi dall’autore originale.
Secondo il
Guardian, i responsabili di questo documento, presentato come proprio al mondo intero dagli uffici di
Tony Blair, sarebbero ben quattro
(P. Hamill, J. Pratt, A. Blackshow e M. Khan) da considerare perciò come gli autori della altre tre pagine del documento.
Ma
Jansen, che deve essere un tipo particolarmente testardo, si incaponito a capire il processo attraverso il quale i quattro specialisti di
Downing Street avevano raccolto le loro informazioni.
Jansen è perciò andato all’url
www.yahoo.com, ha cliccato su
“Country listings” e poi su
“Iraq”. Dopo
“full coverage” ha aperto
“related web sites” e a due terzi della pagina ha trovato un link chiamato
“target Iraq” che lo ha portato all’indirizzo
www.globalsecurity.com. Non solo è stato così possibile trovare il testo integrale dell’articolo di
Marashi (indicato come “additional source”), ma anche un articolo tratto dalla rivista inglese specializzata in questioni militari
Janes Intelligence Review. L’autore dell’articolo, dal titolo
“Can the Iraqi Security Apparatus saves Saddam?”, era un certo
Ken Gause, e la data di pubblicazione novembre 2002. Secondo
Jansen, questo articolo è
la base del dossier del governo britannico, che è stato poi rimpolpato non solo con l’articolo di
Marashi, ma anche con materiali provenienti da due articoli di un certo
Sean Boyne, pubblicati nella stessa rivista nel luglio-agosto del 1997. Un altro passaggio del rapporto del governo britannico sarebbe poi stato tratto dal libro pubblicato nel 1999 dall’ex ispettore dell’Onu,
Tim Trevan.
Secondo il
Professor Glen Rangwala dell’Università di
Cambridge, la conclusione che se ne può trarre è che i servizi di
Downing Street abbiano cercato di nascondere il fatto che il Regno Unito, in realtà, non ha più nessuna fonte indipendente di informazione sulle questioni interne irachene,
con buona pace di James Bond. Si tratta di un’interpretazione benevola. Il significato della vicenda può essere infatti un altro, e ben più grave. Può essere infatti che, avendo deciso di
spalleggiare l’alleato americano ormai deciso a scatenare la guerra, il Premier britannico abbia chiesto ai Servizi di Sua maestà non di informarlo sulla realtà dei fatti, ma di fornirgli una
giustificazione della decisione già presa, abbia cioè chiesto di manipolare le informazioni. Ed è inevitabile che, in una situazione come questa, i Servizi abbiano lavorato controvoglia, passando al governo il primo straccio di carta che potesse passare per una documentazione…
Assieme all’immagine degli
007, quelle che hanno avuto più da soffrire da un simile patetico pasticcio è stata naturalmente quella di
Blair e quella della sua diplomazia. Ciò è tanto più spiacevole in quanto, nella vicenda irachena, il primo ministro britannico ha scelto per sè e per il proprio paese una linea assai coraggiosa, e anche nobile. Come ha ripetutamente sostenuto il
Direttore del Royal Insitute of International Affair, Victor Burmer Thomas, “il forte sostegno pubblico per
l’Amministrazione Bush da il diritto alla Gran Bretagna di essere ascoltata in privato” sulla questione irachena.
In altri termini, facendo rullare i tamburi di guerra anche al di là delle
effettive capacità militari del Regno Unito e manifestando la propria totale solidarietà all’alleato americano,
Blair ha tentato di aggiungere la propria voce al dibattito – discreto, ma non al punto da essere invisibile - che si è volto negli ultimi mesi all’interno del gruppo dirigente americano e della stessa
Amministrazione Bush. Ed è evidente che in questo dibattito
Blair è stato il principale alleato e punto di riferimento di
Colin Powell e della minoranza moderata favorevole alla linea del passaggio attraverso le risoluzioni dell’Onu.
Le rivelazioni sull’origine del dossier ed il conseguente discredito che ne è risultato per il Primo Ministro britannico sono probabilmente state ininfluenti su tale dibattito, perché sono giunte quando la linea “dura” di
Rumsfeld aveva già
prevalso su quella di
Powell, ma certo rendono più complicata la prossima mossa del Primo Ministro britannico. Per
Blair, infatti, dopo l’operazione fallita sul fronte americano, si tratta ora di
ripiegare su posizioni che rendano meno difficile la sua posizione rispetto agli altri Paesi europei. E che rendano meno irrealizzabili ed illusorie le ambizioni che egli stesso nutre per il suo Paese - e per sé stesso personalmente - nel quadro istituzionale dell’Europa, di cui, fino a non molto tempo fa, egli si considerava un
potenziale Presidente.