Il 14 ottobre scorso, Michele Santoro, dal suo ‘Annozero’, ha tuonato contro il direttore generale della Rai, Mauro Masi, reo di avergli comminato una sanzione di sospensione per aver pronunciato pubblicamente, durante la precedente trasmissione, un ‘vaffa’ nei suoi confronti. La durezza della sanzione decisa da Masi (e non concordata con gli altri membri del CdA dell’azienda) ha suscitato polemiche vistose e animate, che hanno visto schierarsi dalla parte del giornalista televisivo gran parte del giornalismo di sinistra italiano ed esponenti dell’opposizione. La maggioranza politica tace o concorda unanimemente con la scelta del direttore Masi. Il gesto di Santoro è stato indubbiamente scorretto: chiunque mandasse ‘a quel paese’ il proprio capo, probabilmente subirebbe una sanzione disciplinare. E non è una questione di ipocrisia, bensì di comportamento e di rispetto, nonché di quella buona educazione che è andata ormai persa. Se ne parla oramai spesso sui quotidiani nazionali: l’uso della lingua italiana si sta imbarbarendo conseguentemente ad atteggiamenti, collettivi e individuali, più aggressivi e quasi ‘nervosi’ nella vita sociale e pubblica. Gli esempi sono davanti agli occhi di tutti: dai casi di cronaca nera più recenti e sconcertanti, alle esternazioni dei personaggi pubblici e politici, i cui gesti e atteggiamenti ‘poco gentili’ si susseguono quasi giornalmente (dai ‘vaffa’ alle ‘pernacchie’ più recenti di Bossi, fino agli insulti e alle bestemmie oggi accettate nell’uso comune anche dalla Chiesa cattolica). Il risultato è senza dubbio un’atmosfera di grigiore e di violenza che, da atteggiamento ‘buonista’, si è trasformato in un’oscenità verbale e culturale che minaccia la pacifica convivenza tra gli individui e preannuncia una ‘moderna calata dei barbari’. E’ in arrivo un nuovo medioevo della lingua e degli usi sociali del linguaggio? Certamente, non fa onore a Michele Santoro aver cavalcato quest’onda di volgarità, inviando un pubblico ‘vaffa’ al suo direttore generale. E, per questo, la sanzione è giusta. Ma anche la ‘punizione’ che Masi ha inflitto al giornalista appare oltremodo fuori luogo, soprattutto se ‘politicizzata’ così com’è stato fatto dagli stessi protagonisti. Gli insulti danneggiano in primo luogo chi li esprime, ma in questa vicenda chi rischia di perderci sono i telespettatori e l’azienda nel suo complesso. La sospensione comminata (revocata in questi ultimi giorni) di dieci giorni lede il diritto di ogni telespettatore pagante (la Rai è una televisione pubblica e di Stato, cui ogni ‘abbonato’ contribuisce ogni anno) di scegliere quale programma vedere, ma non solo: danneggia anche tutti coloro che partecipano alla realizzazione della trasmissione, quali i tecnici e i giornalisti, molti dei quali precari, ai quali viene corrisposto uno stipendio solo con la messa in onda del programma. La reazione del direttore della Rai per questo motivo è apparsa una ‘ripicca’ personale, che travalica i suoi poteri aziendali e provoca un danno di immagine alla stessa azienda che dovrebbe tutelare e ‘governare’. Gli ‘screzi’ dovrebbero rimanere una questione privata tra i suoi attori e non divenire questione collettiva e politica. E il palcoscenico pubblico non dovrebbe, per questo, divenire il teatro dove dimostrare i propri dissidi personali. Si dovrebbero pertanto garantire alle due sfere, quella pubblica e quella privata, i propri ambiti e limiti. Ed evitare posizioni finalizzate solamente a ‘combattere’ battaglie personali, i cui riflessi producono effetti negativi anche su coloro che, in questo genere di guerre, non hanno alcun diritto da difendere.