Francesca BuffoCiò che è successo in Afghanistan nei giorni scorsi non è altro che l’ennesima conferma di come i nostri militari siano stati mandati al fronte con l’inganno delle parole. Definire ‘missione di pace’ l’intervento delle forze militari internazionali in una zona dove le ragioni vengono espresse a suon di bombe, ha fatto leva sull’idealismo di tanti giovani che indossano una divisa con senso di responsabilità e la speranza di poter ‘fare la differenza’ in un mondo dove la differenza sono in pochi a volerla fare. In molti avevano deciso di proporsi volontariamente per affermare la necessità della pace in tutto il mondo, abbandonando quella della propria casa e della propria famiglia per andare a difendere altre case e altre famiglie. Nessuno allora parlava di ‘killing zone’ o ‘Tripoli box’ (zone ad altissimo rischio per l’alta presenza di miliziani talebani) e tutto veniva prospettato come un piano ben articolato che avrebbe portato benefici alla popolazione afghana. Oggi, invece, un ufficiale italiano dichiara a Gianpaolo Calanadu in un’intervista pubblicata su ‘la Repubblica’ il 10 ottobre, che “tutto è cambiato. Nessuno parla più di missione di pace, si parla di missione e basta”. Ed è sconcertante leggere i pensieri di questi soldati i quali, in questa nuova era delle comunicazioni, scrivono dal fronte direttamente su Facebook. Parole che sembrano arrivare da un ragazzo qualsiasi, uno che potrebbe abitare nel palazzo di fronte al nostro. “Mi sono ‘rotto’ di stare qui in Afghanistan, non si capisce nulla”, scriveva il 3 ottobre Luca Cornacchia, il militare sopravvissuto all’attentato di sabato 9. E nelle sue parole ‘sfugge’ ai più una verità mostruosa: quel ‘non capirci nulla’ che è il vero nocciolo della questione. Militari che a detta del vicecomandante del VII battaglione alpini Stefano Fregona “sono soldati preparati a tutto”, ma poi, quando sono al fronte dichiarano: “È un inferno, siamo in guerra”. Forse, qualcuno ha fatto loro credere che, come Superman o Batman, indossano una divisa e interpretano la parte dei ‘buoni’ che sconfiggono il male. Ma questa non è un’avventura a fumetti, o una di quelle azioni alla Rambo dove fra bombe, pallottole e sangue tutto finisce bene. In Afghanistan è tutto vero. E i soldati devono essere preparati anche a morire.


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Carlo - Frascati - Mail - mercoledi 13 ottobre 2010 18.36
Che i soldati debbano essere preparati anche a morire non c'è dubbio.
A me sembra "strana" la strategia che fa dei soldati occidentali dei bersagli, mentre dovrebbero esserlo i talebani. Credo che tutto nasca dalla pretesa (assurda) di democratizzare l'Afganistan.
alvise - padova-italia - Mail - mercoledi 13 ottobre 2010 15.4
ragionare partendo da un singolo commento non serio per chi vuole ragionare di politica estera e dei nostri rapporti con l'islam.

Mi pareva fossimo in Afganistan su mandato ONU . Non per far piacere a chi si arruola.

Se è vero quello che oggi si legge sul Corriere, ovvero che il sito di Al Qaeda propone ai suoi adepti in occidente di lanciarsi con auto SUV contro i passanti delle città europee e americane con l'obiettivo di fare più morti possibili, mi chiedo come si possa pensare che questi signori vogliano "trattare".

Se uno vuole la morte non ha bisogno di "trattare" ! Non gli interessa proprio.
Con buona pace di gran parte della sinistra, che insiste sulla "trattativa".


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