In termini di integrazione sociale, un filo comune si intravede tra la scelta del premier francese Sarkozy di espatriare le famiglie rom con le ruspe sui campi nomadi o le ‘ronde’ di periferia nostrane: sono tutte azioni che di certo non risolvono la questione delle grandi migrazioni dai Paesi poveri verso il nostro continente e dell’integrazione di lavoratori dei quali le nostre economie hanno un disperato bisogno. Da Spagna e Francia, con proposte di legge presentate ai rispettivi parlamenti, riemerge il problema del ‘velo’ islamico. Il divieto dell’uso del burqa nei luoghi pubblici è un problema che periodicamente viene posto dalle correnti politiche della destra europea. In un ampio ventaglio di argomentazioni, che vanno dal problema della pubblica sicurezza alla difesa della dignità femminile, la matrice è sempre la stessa: far leva sul populismo ‘guidando’ la caccia allo straniero, al fine di depistare dai problemi reali di un’economia che, in un modo o nell’altro, mette in ginocchio tutti i governi. Un dibattito al quale le ‘nostre’ destre hanno dato il loro contributo. C’è molto da discutere sulle affermazioni di Gianfranco Fini che, richiamandosi alla Costituzione, prende le difese della dignità della donna che “non può essere sottoposta a violenze o a comportamenti indotti da gerarchie diverse da quelle della legge” (dovrebbe spiegarci di quale dignità si parla in un Paese in cui l’immagine femminile è condizionata dallo stereotipo “bel sedere e belle tette, oppure sei fuori…”). Al di là degli opportunismi politici, la nostra bimillenaria cultura cattolica si basa sul principio di carità, di accoglienza e di rispetto verso il prossimo. Una cultura che ancora oggi impone alle donne di indossare, in chiesa, un abbigliamento ‘consono’ alla sacralità del luogo. Se lo ricordano bene le nostre nonne, che assistevano alla messa a capo coperto. È una consuetudine che ha radici antichissime. Nella prima lettera di S. Paolo Apostolo ai Corinzi è scritto: [11,3] “Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l'uomo, e capo di Cristo è Dio. [4] Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto manca di riguardo al proprio capo. [5] Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata”. Quindi, per il cristianesimo, una donna con il capo coperto dal velo ricorda a tutti coloro che sono in chiesa che la natura umana è sposa di Cristo (il velo è segno della dipendenza e dell’autorità di Cristo nei confronti della sua ‘sposa’, la natura umana). In ambito islamico, la questione del velo ha invece radici molteplici e profonde. La brevità di questo intervento ci induce a sintetizzare un argomento particolarmente ampio, fulcro di accesi dibattiti teologici e sociali da diversi secoli. Secondo la dottrina islamica, il velo - ovvero un foulard che copra solo i capelli e il collo della donna - deve essere indossato solo durante la preghiera, così come gli uomini debbono pregare con la fronte scoperta grazie all’aiuto di una specie di cappellino tipo kippah. Il motivo è semplice: all’atto della preghiera il credente entra tramite le abluzioni in uno stato di purità rituale che lo avvicina a Dio. Diventa necessario pertanto scoprire la fronte e renderla ‘pulita’ dai capelli, che potrebbero frapporsi tra il Creatore e la creatura durante le genuflessioni. La donna copre i capelli e il collo perché questi possono divenire un elemento di distrazione per l’uomo in preghiera, perché, secondo la tradizione islamica, l’uomo beduino può non essere in grado di gestire le proprie pulsioni sessuali e potrebbe distrarsi dal suo stato di purità. La scelta del velo ‘integrale’, quello più criticato in Occidente, fa dunque parte di una cultura tradizionale solo di alcune regioni islamiche: per molte donne musulmane l’uso del velo è in realtà una consuetudine. Anche laddove sussiste l’imposizione maschile, bisogna tener conto che si tratta di equilibri sociologici e antropologicamente troppo distanti dalla nostra cultura e pertanto difficilmente comparabili ai nostri criteri di giudizio. Comunque, al di là della questione religiosa, è importante ricordare che la nostra Costituzione sancisce anche la libertà di culto. Ora, che a Bergamo, in virtù dell’articolo 117 C. l’assessore alla Sicurezza, il leghista Cristian Invernizzi, possa annunciare di voler inserire la norma ‘anti burqa’ nel nuovo regolamento di polizia locale, è solo una delle tante contraddizioni di quel principio di democrazia che sembra idealmente accomunare tutti i cittadini della società moderna alla quale apparteniamo. Una democrazia sulla quale, comunque, si è disposti a mettere un ‘velo’ laddove risulta più comodo.