I tre licenziati – e poi reintegrati dal giudice - della Fiat di Melfi sono diventati il casus belli dell’autunno. La Fiat e Marchionne si sono dimostrati i ‘padri padroni’, mentre gli operai dei proletari sottopagati e sfruttati, inermi di fronte alla mastodontica strapotenza dell’azienda. Giusto, ma solo in parte. Tutto questo parlare e straparlare sulla condizione degli operai e dei metalmeccanici, nonché dei sindacati che si affannano per proteggerli dal sistema ‘borghese’ e capitalista in cui viviamo, sta allontanando l’attenzione dal problema ben più grande dell’occupazione italiana. Occupazione o disoccupazione, occupazione precaria e licenziamenti massicci, che passano sottaciuti o sotto lo sguardo inerme di uomini e donne che si vedono privati del proprio lavoro senza avere alcun strumento di protezione che li tuteli. È giusto reintegrare chi è stato licenziato ingiustamente, ma allo stesso tempo è corretto difendere e tutelare i diritti di tutti quei lavoratori che ne hanno ben pochi. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, dove tutti gli individui sono uguali e godono degli stessi diritti e degli stessi doveri. È questo il punto di partenza da cui necessariamente bisogna ripartire. Noi siamo tutti uguali e siamo dei lavoratori. E allora, perché alcuni lavoratori ‘valgono’ più di altri? Perché i metalmeccanici della Fiat valgono più di un dipendente di un’impresa privata del centro-nord a cui viene sbattuta la porta in faccia dall’oggi al domani senza alcuna indennità? Perché nel nostro Paese esistono sperequazioni così forti e contrastanti tra i lavoratori? Si tratta di una guerra fra poveri o, piuttosto, di ingiustizie legate al nostro sistema sociale? I dipendenti a tempo indeterminato godono di diritti (e doveri) garantiti e tutelati dai sindacati, mentre i lavoratori ‘atipici’ e quelli a tempo determinato (che godono degli stessi diritti dei lavoratori a tempo indeterminato, cambia solo la temporaneità del periodo lavorativo) risultano invece privi di ogni barriera protettiva. Oggi, un dipendente a tempo determinato può essere licenziato anche ben prima della scadenza contrattuale prevista e assai poco può fare per ‘ribellarsi’ a tale procedimento. È vero che esistono dei limiti e delle regole che debbono essere rispettate per il licenziamento ante-scadenza, ma è anche vero che i diritti del singolo spesso vengono accantonati in favore di quelli dell’azienda. Non è un problema di potere e di equilibri tra datore di lavoro e dipendente, ma un deficit di sistema. Perché il sindacato non dovrebbe interessarsi anche alla tutela di chi, già per la natura stessa del contratto di lavoro sottoscritto, non dispone di determinate garanzie? Perché si arriva sempre a tutelare e a proteggere anche chi non avrebbe dovuto essere protetto? Il mondo del lavoro italiano è pieno di persone decise e capaci, in attesa di una possibilità per lavorare e dimostrare le proprie competenze e la propria determinazione: perché queste stesse persone debbono spesso essere surclassate da chi si da tempo si è ‘accomodato’ al posto fisso, tutelato e garantito da una società che tollera anche ‘i fannulloni’? Vi raccontiamo alcuni avvenimenti accaduti in queste ultime settimane: a metà agosto, un noto gruppo bancario bolognese ha licenziato 197 dipendenti che operavano nelle reti del credito al consumo. Centonovantasette uomini e donne, con relative famiglie, che hanno ricevuto la telefonata di convocazione in sede per il ritiro delle dotazioni aziendali solo pochi giorni prima della data stabilita per l’incontro e che si sono visti ricevere la lettera di dimissioni dalle mani dei propri colleghi più fortunati. L’ufficio del personale non è stato in grado di gestire in autonomia l’evento ed è dovuto ricorrere al supporto di altri dipendenti, generalmente addetti ad altre funzioni, i quali si son trovati davanti i propri colleghi sfortunati. La stupidità di alcune persone ha fatto sì che molti dei fortunati ‘sogghignassero’ al momento del licenziamento, incoraggiando a un periodo di relax i licenziati, confluiti nell’apposito Fondo emergenziale costituito da qualche mese dal ministro Tremonti: due anni con l’ottanta per cento dello stipendio, ma a casa, senza lavoro. E questi licenziati sono tra i più fortunati del Gruppo bancario, perché altri dipendenti a tempo determinato si sono visti sbattere una porta in faccia con l’unica soddisfazione di un paio di mensilità come ‘bonus’. Ma non a tutti è andata così ‘liscia’. La notizia è recentissima: un dipendente a tempo determinato, assunto da due anni e con contratto di sostituzione di maternità, è stato licenziato nell’arco delle otto ore lavorative giornaliere perché la dipendente da lui sostituita ha deciso di tornare in attività prima della conclusione prevista dal contratto. In sostanza: rientro in azienda in anticipo e a tempo parziale, causa allattamento, e conseguente licenziamento in tronco del sostituto. Chi garantirà per lui? Chi chiederà all’azienda la prosecuzione del contratto fino alla normale scadenza prevista per la fine di ottobre? I sindacati hanno già fatto sapere che non vi è alcuna possibilità e che il licenziamento è stato operato in maniera corretta, formalmente, anche se privo della correttezza etica che si confà a un’impresa. E questi sono solo alcuni dei casi ‘marginali’ che ogni giorno si verificano nel nostro Paese e che danneggiano l’intera società italiana. Cosa fa il Governo per limitare che vicissitudini di questo genere diventino ‘routine’? La speranza è l’ultima a morire.