Daniela StancoPaolo Carsetti è il Responsabile della Segreteria operativa del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua. Lo abbiamo intervistato al fine di approfondire una questione, quella della privatizzazione dell’acqua, che coinvolge tutti gli italiani e che è destinata ben presto a tornare di stretta attualità.

Paolo Carsetti, il 31 marzo 2010 avete depositato in Cassazione i tre quesiti referendari per l’acqua pubblica, il 25 aprile è iniziata la raccolta delle firme e il 19 luglio siete riusciti a consegnare in Cassazione ben 1.401.492 firme di cittadini italiani che dicono “si” ai referendum, molte più del necessario…
“Nessun referendum nella Storia repubblicana ha raccolto tante firme. La sfida che il comitato promotore ha davanti è quella di portare almeno 25 milioni di italiani a votare tre ‘sì’ la prossima primavera, quando si terrà il referendum contro la privatizzazione dei servizi idrici. Un risultato che oggi, alla luce del ‘risveglio democratico’ a cui si è assistito nei mesi della raccolta firme, sembra assolutamente raggiungibile. Adesso chiediamo al Governo di emanare un provvedimento legislativo che disponga la moratoria degli affidamenti dei servizi idrici previsti dal decreto Ronchi, almeno fino alla data di svolgimento del referendum. Chiediamo inoltre alle amministrazioni locali di non dare corso alle scadenze previste dallo stesso decreto. Un milione e quattrocentomila firme rappresentano una delegittimazione di qualunque scelta tesa ad applicare il decreto. Il percorso che ha condotto ai referendum ha preso il via all’inizio di quest’anno. Si è andata costituendo una grande coalizione sociale che comprende associazioni che fanno riferimento al mondo cattolico, dei consumatori, ambientaliste, un po’ tutte le culture, proprio a seguito dell’approvazione del decreto Ronchi, che ha smosso tutte le coscienze ed eliminato qualsiasi ambiguità sul processo di privatizzazione dell’acqua”.

Quindi, se potevano esserci dei dubbi, con il decreto si sono sciolti?
“Sì. In un primo tempo, alcune realtà avevano forti perplessità sulla campagna che noi portiamo avanti da tanti anni. Con l’approvazione del decreto Ronchi, tutti i dubbi si sono sciolti perché quel decreto sancisce la totale e definitiva privatizzazione dell’acqua potabile in Italia”.

Entro breve termine?
“Entro il 2011 andranno a decadere tutte quelle gestioni affidate a società pubbliche, che sono comunque sempre società per azioni e che fanno quindi riferimento al mercato e al diritto privato”.

Come per la città di Roma?
“Roma ancor di più: si tratta di una società mista, pubblico-privata, di cui il Comune della città e i Comuni della provincia dell’ATO 2 Lazio Centrale, che grosso modo ricalca la provincia di Roma, detengono il 51% delle azioni mentre l’altro 49%, tra virgolette, è ‘fluttuante’ in borsa, perché è una società quotata dal 1998-99. Anche lì, gli azionisti privati sono ben definiti e sono Caltagirone, la multinazionale francese Suez e alcuni fondi di investimento svizzeri. E’ uno dei modelli che il decreto Ronchi vuole esportare in tutta Italia come via ordinaria di affidamento del servizio idrico. Di fronte a questo scenario si è iniziato il percorso per l’avvio dei referendum”.

Quanti sono i quesiti referendari?
“Sono tre e chiedono di abrogare tre norme. Il primo quesito riguarda il decreto Ronchi, in particolare l’art. 23 bis, così come modificato dall’art. 15 del decreto Ronchi. Articolo che va a modificare la legge del 2008, cosiddetta Tremonti, che già aveva iniziato a dare un’accelerazione alla privatizzazione dell’acqua. Il secondo riguarda, invece, il decreto ambientale, il cosiddetto codice ambientale, in particolare l’art. 150 che riguarda proprio le modalità di affidamento di gestione del servizio idrico, già a partire dal 2006. In realtà anche prima, perché l’art. 150 fa riferimento a sua volta all’art. 113 del TUEL che è il Testo Unico degli Enti Locali, che è del 2000, e in cui si definiscono come modalità di affidamento della gestione del servizio idrico, tre forme societarie che sono: la società interamente privata, quindi la gara di evidenza pubblica, la società mista pubblico-privata con la gara per il partner privato e l’affidamento diretto a società per azioni a totale capitale pubblico, cosiddette ‘in house’. Questo poi deriva da altre norme già approvate dal Governo Ciampi”.

E’ difficile per i non addetti ai lavori seguire un iter legislativo così complesso?
“E’ una situazione partita già da 15 anni. In pratica, a oggi gli affidamenti in Italia fanno riferimento all’art. 113 del TUEL, comma 5, ecc. ecc., a ribadire che a livello giuridico la privatizzazione dell’acqua nel nostro Paese è stata avviata già nel 2000. Sappiamo che Acea è addirittura precedente perché l’affidamento, oltretutto senza gara di evidenza pubblica, è stato fatto già nel ’97. A Roma fu fatto un referendum sulla privatizzazione di Acea e della Centrale del Latte con la giunta Rutelli nel ’96, con l’assessore Linda Lanzillotta, una delle più grandi sostenitrici, all’interno del Pd, della necessità della privatizzazione dei servizi pubblici locali”.

Siete appoggiati anche da organizzazioni politiche ma, ci sembra di capire, in maniera trasversale…
“E’ sicuramente trasversale il sostegno a livello istituzionale verso il privato perché, centro-destra e centro-sinistra, non fa differenza rispetto alla privatizzazione dei servizi pubblici e dell’acqua. D’altra parte non c’è distinzione di colore politico tra gli oppositori e così all’interno del Forum ci sono persone che votano partiti di centro-destra o sindaci del Pdl che sostengono la nostra battaglia”.

Dietro la volontà di privatizzazione c’è l’idea che il privato lavori meglio del pubblico? Che con il privato non ci saranno più le perdite d’acqua dai tubi rotti del servizio collettivo?

“A livello di opinione pubblica, si. Soprattutto a metà degli anni ’90, quando è stato avviato il processo di dismissione delle società statali. L’idea era quella che il clientelismo e la corruzione delle società pubbliche potesse essere sanata attraverso la privatizzazione. Oggi sul tema dell’acqua, del servizio idrico, c’è un ripensamento generale”.

Anche guardando esperienze europee come quella della Francia che ha deciso, dopo anni di privato, di tornare all’acqua pubblica?
“Sì, in Francia sono infatti tornati sui loro passi. Riprendendo il discorso sul referendum, il secondo quesito che va a eliminare la possibilità di gestione del servizio idrico tramite società per azioni e il terzo quesito, che riguarda sempre un articolo del decreto ambientale, il n. 154, che è quello che va a definire il metodo tariffario, cioè come viene costruita la tariffa. In particolare chiediamo l’abrogazione delle parole che fanno riferimento alla remunerazione del capitale investito, perché in tariffa noi paghiamo già i profitti dei gestori. Riassumendo con uno slogan, con i tre referendum intendiamo far sì che l’acqua venga portata fuori dal mercato e i profitti fuori dall’acqua”!

La campagna referendaria è condivisa da una larga coalizione sociale?

“I promotori attivi e reali dei referendum sono le realtà associative culturali e sociali. Le forze politiche sostengono il comitato promotore, ma non promuovono direttamente, proprio per dare maggiore efficacia all’iniziativa, soprattutto quando si andrà a votare nel 2011. In questo modo, il tema affrontato dai referendum potrà essere portato anche a elettori, per esempio della Lega, che concordano sulla gestione pubblica dell’acqua e che non avranno problemi a schierarsi se il referendum si mantiene lontano dai colori politici”.

Oggi, intorno a voi, c’è adesione, partecipazione?
“Fino a oggi abbiamo avuto una vasta adesione. Non riusciamo a stare dietro a tutte le richieste che arrivano da ogni parte. La cosa più straordinaria di questo movimento, così ricco e variegato, è che la gran parte delle persone che ne fanno parte sono cittadine e cittadini alla loro prima esperienza di attivismo sociale, uomini e donne che, su un bene essenziale come l’acqua, hanno deciso di mettersi in gioco in prima persona, di scommettere sul fatto che l’impegno sociale possa ancora significare partecipare al cambiamento, alla ricostruzione di una democrazia reale e di una politica capace di parlare ai bisogni delle persone”.

In Italia, la cultura del “pubblico è bello” non c’è o non c’è più: siamo poco abituati alla partecipazione diretta del cittadino?
“Uno dei nostri slogan è infatti: “Si scrive acqua, si legge democrazia”. Nell’acqua si vede il paradigma di un altro tipo di società che si cerca di costruire”.

Questa battaglia è bella perché giusta (tutti vogliamo l’acqua buona senza pagarla troppo) e anche ideale (l’acqua è un bene comune e un diritto universale): ha questi due aspetti?
“Sì: nella nostra proposta di legge di iniziativa popolare, per la quale sono state raccolte più di 400 mila firme, il principio è quello della ripublicizzazione del servizio idrico. Non però il ritorno alla gestione pubblica come era prima dell’avvio al privato, ma una gestione che tenga in considerazione la partecipazione dei cittadini, dei lavoratori, delle comunità locali, avere un ruolo quando si prendono le decisioni fondamentali rispetto al servizio. Una democrazia partecipativa. Questa è l’idea nuova della gestione pubblica”.

La gestione pubblica di un tempo aveva tante ‘magagne’?
“Tantissime. Le stesse che troviamo ancora oggi nella gestione privata: clientelismo e corruzione, presenti dove ci sono grandi interessi. La gestione del servizio idrico è una gestione senza rischi d’impresa proprio perché la legge garantisce i profitti, non conosce crisi economica perché il consumo di acqua quanto meno è costante, perché tutti ne abbiamo bisogno per vivere. Anzi, quello che i gestori prevedono nei loro piani di ambito, sono aumenti del consumo. Prevedono che nei prossimi venti anni sarà necessario, affinché i conti tornino, un aumento del consumo pari al 20% che, in una situazione generale italiana e mondiale di crisi idrica, va contro qualsiasi ragionevole politica di risparmio e uso sostenibile della risorsa. C’è quindi anche una questione di principio sul fatto che l’acqua è un bene comune e un diritto universale e come tale dovrebbe essere trattata, ed è anche una questione ambientale. Tutte le agenzie internazionali ci dicono che l’acqua è, e diventerà, una risorsa sempre più scarsa e le politiche dovrebbero essere quindi indirizzate verso la sostenibilità. Invece la messa sul mercato obbliga ad un aumento dei consumi perché qualsiasi imprenditore, qualsiasi società che mira a produrre profitti, dovrà anche mirare ad aumentare il consumo del prodotto che vende”.





(intervista tratta dal sito www.periodicoitalianomagazine.it)
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Giancarlo - Vicenza - Mail - mercoledi 8 settembre 2010 23.43
I referendum contro la presunta privatizzazione dell'acqua sono frutto di un'ipocrisia di fondo: in Italia non si vuole pagare il servizio idrico. E' questa la motivazione (o, meglio, la pericolosa illusione) che ha portato molta gente a sottoscrivere i tre referendum. L'Italia sta già pagando un pesante deficit infrastrutturale nel settore idrico, specie sul fronte fognature e depuratori. Chi sostiene i referendum continua a discutere di acqua, ma il problema principale dei servizi idrici è oggi quello dei reflui, cioè la merda! Se non gestiamo i reflui con reti, impianti e tecnologie industriali, continueremo ad avere fiumi e coste inquinati, un ambiente degradato e rischi di malattie. Ma per realizzare questi impianti servono capitali e organizzazione industriale. Con la raccolta firme e le molte chiacchiere dei movimenti referendari non si fa altro che tornare indietro di trent'anni. Complimenti.


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